Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro X/Capo II
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CAPO SECONDO.
Riordinamento dell’assoluta monarchia.
III. Così la città ed il regno, certi di vicina come che incognita sventura, stavano inquieti e costernati; non alcun uomo nei nove mesi, per genio, o timore, o vaghezza, o ambizione, non aveva operato e detto qualche cosa conforme al tempo; non alcun uomo, fra tanti sdegni civili, potea sperare che gli mancasse delatore o nemico; il re offeso, sdegnato e per natura sordo a pietà, inchinevole a vendetta; esercito che lo secondava poderoso e straniero, pravi costumi, età corrotta. Era universale il pericolo e lo spavento. Alle prime fughe de’ più conti settarii, altre succederono; e de’ rimasti chi andava ramingo nel regno, chi nascondevasi, chi troppo si palesava per mostrar coscienza sicura; tutti tremavano.
Nel qual tempo il re in Firenze consultava col principe di Canosa le regole di governo. Canosa, come ho riferito in altro libro, cacciato in esilio l’anno 1816 si ricoverò nella Toscana; vide in Livorno il re al suo passaggio per Laybach, ma senza indizio di regal favore; lo rivide al ritorno, e ’l re lo scelse ministro del suo regno e del suo rigore. Nel congresso di Laybach, avuto rispetto a’ giuramenti del re, si erano fermate, per decoro del nome, sentenze oneste di governo: riprovare la rivoluzione dell’anno 20; dichiarar forzata la libertà del monarca, e però invalidi gli atti di quel tempo; punire i capi di Monteforte, ma pochi e non colla morte: spingere a fuggire i colpevoli, ajutarli alla fuga per evitare lo scandalo dei giudizii; rifare lo stato del 1820; rigidi sull’avvenire, benigni al passato, coprire col silenzio e con la dolcezza un fallo comune de’ soggetti e de’ reggitori.
Le quali benignità spiacevano al Canosa, che però, concitando gli sdegni del re, consigliava di pregare i sovrani del congresso a rigidezze maggiori; e scritte alcune lettere in forma di orazione, ed inviate a Laybach dal re col nome del suo ministro, non valsero a mutare i benevoli proponimenti. Dipoi per i fatti di Rieti e per le rivoluzioni del Piemonte, sicuro ed inasprito l’animo di quei potentati, di nuovo pregati dal re di Napoli, gli dierono libero impero. Felice il Canosa della sfrenata tirannide, fermò le massime di governo, che furono:
Punire ne’ sudditi ogni colpa, vendicare ogni offesa del lunghissimo regno del suo signore; schierare alla memoria gli odii presenti, e quelli del quinquennio, del decennio francese, della costituzione di Sicilia, della repubblica napoletana, de’ primi moti del 93; opprimere i mal sofferenti di assoluto governo colla morte, le prigioni, gli esigli; schivare i giudizii, come lenti; presto punire per proprio senno; rompere il trattato di Casalanza, e tutti i precedenti o trattati o perdoni; prender il destro per nettare il regno da’ nemici de’ troni.
IV. E tanto più che un novello tumulto accreditava la sentenza di lui che non per travagli o disastri, assai meno per benefizii o pietà, ma solo per morte o per impotenza di ribelli si assicuri l’imperio de’ re, che era per lui la quiete de’ regni. In Messina, forte d’armi e di ricchezze, inteso le sventure di Rieti e le fughe degli eserciti e l’avvicinamento dell’oste tedesca, i carbonari molti ed arditi sperarono difendere per sè la giurata costiluzione, purchè i presidii della città fossero compagni al disegno ed a’ pericoli. Reggeva le milizie di quel vallo il generale Rossaroll, vago di libertà e per natura immaginoso ed estremo. A lui, il 25 marzo, andati come oratori i primi della setta, e da lui promessi gl’invocati ajuti, insieme concertarono i modi della impresa. Rossaroll sarebbe il capo; i soldati per le leggi delle milizia, i settarii per propria scelta gli obbedirebbero; e però che settarii e soldati erano le forze maggiori o le sole dell’isola, sarebbe facile l’azione, certo il successo, i primi moti darebbero consiglio per i secondi, questi per gli altri, però che prefiggere il cammino alle rivoluzioni è come segnar prima il corso di nave che andrà fra le tempeste; sta la speranza del navigare nel buon legno e nel buon pilota. Tali cose dette da’ cospiratori e fermate in animo, passati gli avvisi nella notte ai settarii della città, ciascuno tra le ambizioni e le speranze del proprio ingegno attendeva impaziente i primi albori prefissi al movimento.
Spuntato il giorno, cominciarono i tumulti, ed in poco d’ora trascorsero in ribellione; perciocchè fu rovesciato lo stemma regio ed alzate in quel loco le bandiere della setta, abbattute le statue del re, quelle di marmo rotte in pezzi e disperse, una di bronzo resistente allo sforzo di atterrarla, sfregiata, sporcata in viso, e imposto al capo, così che nascondesse la corona, vaso immondissimo. Il luogotenente del re, principe della Scaletta, minacciato e fuggitivo, i magistrati atterriti e nascosti, tutta la potestà in mano del Rossaroll.
Il quale rammentando per editto le parole del giuramento del re, che dicevano: «Se operassi contro il mio giuramento o contra qualunque articolo di esso, non dovrò essere obbedito, ed ogni operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun valore»; dichiarò legittime quelle mosse di popolo e di milizia, e palesando i disegni suoi e de’ settarii confidava che fossero secondati dalle genti dell’isola, benedetti da Dio, ammirati dal mondo. Diede comandi da generale a tutti i presidii della Sicilia per adunarsi a Messina, e nuncii suoi e della setta furono spediti alle città dell’isola e della vicina Calabria per levarsi in armi. Ma non facendo, per suo poco senno e per le disordinate voglie de’ seguaci, i provvedimenti necessarii alla guerra ed al governo delle moltitudini, era quel moto, a vederlo, vasto, confuso; allorchè, accresciuto dalla fama, fu riferito al re in Firenze, mentre consigliava di governo col suo ministro.
Ma nella Sicilia le città invitate a sollevarsi rifiutarono i domandati ajuti; de’ nunzii, altri scoperti, furono imprigionati, altri cauti o infedeli, disobbedirono; le milizie, o non avvertite del comando del Rossaroll, o per comando contrario dei proprii capi, non mossero. Allentava la foga: gran numero di cittadini nella stessa Messina si congregavano armati prima in difesa di sè stessi, poscia in sostegno della quiete pubblica, e poco appresso per frenare ed opprimere i ribelli. Così che questi si divisero, e pensando ciascuno a campar solo, chi fuggì, chi si nascose: il generale Rossaroll, dopo brieve disordinato impero, imbarcato da fuggitivo, andò in Ispagna; guerreggiò con infelice fortuna, ed alla caduta di quel governo costituzionale si riparò in Inghilterra, e di là in Grecia, non per asilo e riposo, ma per combattere a pro di libertà. Giunto ad Egina infermò e morì; lasciando fra le greche travagliate genti tre figliuoli poveri, e per tenera età non atti agli stipendii della milizia.
V. Il re, fermate le massime d’impero, cominciò a governare per ministri. Provvide alla sicurezza del regnare disarmando i cittadini, gastigando di morte i portatori di qualunque arme, sciogliendo le milizie civili, vietando le riunioni, per fino le più legittime e laudevoli, università, scuole, licei. Per nuova legge rivocò le leggi deil’odioso tempo costituzionale; ma più sollecita della suprema potestà era stata la timidezza dei soggetti, ai quali non bisognò il comando per distruggere le libertà di nove mesi, e tornar vogliosi alle note e lunghe pratiche della servitù.
S’intesero condannati a morte, senza giudizio, per solo bando di polizia, i generali Rossaroll e Pepe, e promessa ricca mercede per lo arresto de più conti rivoluzionarii di Monteforte. Le quali condanne o proscrizioni rammentavano tempi ferocissimi. Si composero de’ più caldi partigiani della tirannide molte giunte, chiamate di scrutinio perchè destinate a scrutinare la vita di tutti gli uffiziali dello stato, e de’ più alti e più noti cittadini: giudizii e giudici spaventevoli.
E non vi era giorno che non si udisse la campana della giustizia ed il pubblico invito alle sacre preghiere, segni ed offici mesti e pietosi usati tra noi quando un misero è menato a morte per condanna; erano giudizii delle corti marziali per i portatori di alcun’arme, o i detentori di qualche segno di setta. In quel mezzo arrivò in città ministro di polizia il principe di Canosa, che volle al pubblico annunciarsi, prima che per editti o per fama, con spettacolo atroce, ormai scordato dal popolo, ignoto a’ più giovani, la frusta. A mezzo il giorno, nella popolosa via di Toledo, fu visto in militare ordinanza numeroso stuolo di soldati tedeschi, poi l’assistente del carnefice che ad intervalli dava fiato alla tromba, e poco indietro altri Tedeschi ed alcuni sgherri di polizia i quali accerchiavano un uomo, dalla cintura in basso coperto di ruvida tela, con piedi scalzi, dalla cintura in sopra nudo, con i polsi strettamente legati, portando in mano ed appesi al collo tutti i fregi settarii, ed in capo un berretto di tre colori, collo scritto a grandi note: Carbonaro. Quel misero, accavalcato sopra di un asino, aveva dietro il carnefice che ad ogni picchio di tromba con sferza di funi e chiodi gli flagellava le spalle; così che il sangue avea mutato colore alle carni, ed il volto, smorto e chino al petto, dimostrava il martirio. Seguiva plebe spietata, ma taciturna; gli onesti fuggivano, nascondendo per prudenza la pietà e l’orrore. Chi dimandò i particolari di quel supplicio udì che il flagellato era un settario gentiluomo di provincia (e gentiluomo appariva al volto e alla persona), che dopo la frusta penerebbe in galera quindici anni, non per giudizio di magistrato, ma per sentenza del ministro della polizia, principe di Canosa or ora giunto in città.
Ne’ seguenti giorni si videro altre due fruste, terribili come la prima, se non che mancavano i soldati d’Austria, non so se per ribrezzo o vergogna. Furono le ultime in città; ma in Salerno l’intendente Guarini, che volea somigliare al Canosa, fece frustare un sarto, per fama settario e liberale, attempato, padre di molti figli, reo questa volta di mancato rispetto all’intendente restando seduto a’ suoi lavori, mentre quel magistrato in abito di cerimonia e con pompa di sgherri e clienti gli passava dinanzi. Nella provincia di Avellino e nella Puglia erano severissime le corti marziali; nella Basilicata la polizia più che altrove operosa e tirannica; nelle Calabrie abbondavano i delitti di parte e le vendette, negli Abruzzi e in Terra di Lavoro i comandanti tedeschi, sospettosi e di mala gente accerchiati, imprigionarono tanti cittadini che bisognò forma più breve di processo e particolar magistrato a giudicarli. Aveva ogni provincia il suo flagello.
Ma si percotevano uomini, benchè famosi di carboneria, bassi ed oscuri nel mondo: se non che subito il circolo degli afflitti si slargò. Perciocchè visto lo stato della città, la divisione dei cittadini, la viltà, la paura, la pazienza del popolo, Canosa scrisse al re che potea punire senza pericolo; ed avuta risposta, punisse: fece chiudere in carcere il general Colletta, il general Pedrinelli, il deputato Borrelli al quale i servigi di nove mesi non eran bastanti a placare l’odio antico del re. Poco appresso altri generali, Arcovito, Colonna, Costa, Russo; altri deputati, Poerio, Pepe, Piccoletti; e consiglieri di stato, Buzzelli, Rossi, Bruni; e magistrati ed uomini chiari per virtù e per opere, furono imprigionati. La insidiosa polizia con mala industria diceva esser molli altri destinati alla pena e indicava i nomi acciocchè fuggissero, desiderando degl’innocenti la fuga non il giudizio. Non che mancassero giudici iniqui a condannarli, ma la manifesta ingiustizia facea timore e nondimeno l’odio sfogava; però che nella presente lega delle polizie europee i fuggitivi sarieno stati dovunque altrove straziati; e per l’andar volontario sospettandosi mala coscienza e delitti avrebbero incontrata doppia pena, l’esilio e la infamia. Così spinto a fuggire fu il general Carascosa. Ma poi, scoperto l’inganno, cessarono le fughe; e non potendo ad un punto castigar per giudizii quanti l’odio accennava, se ne scrissero i nomi e si attendeva l’opportunità alle vendette. La fama, forse maligna come suole contro i potenti, diceva inscritti quattromila nomi nel libro esiziale, e che continuo cresceva di pagine per le cure delle giunte scrutatrici. Era ferocissima quella per l’esercito; nella quale usando scrutinare per dimande, il capo di lei general Sangro interrogava: « Siete mai stato carbonaro? Avete mai disertato? Commetteste alcun altro delitto contro il re e lo stato?» Dimande sfrontate perchè da lui, che, carbonaro nel 1821, disertò col figlio dalle giurate insegne. Così che spesso la indignazione de’ sottoposti vincendo la prudenza, facea rispondere svergognando e confondendo quel tristo. Dopo di allora quella giunta e le compagne, mutato stile, giudicando per segrete inquisizioni, furono più libere, più infeste.
Si moltiplicavano i delatori e le spie, officio infame, ma che arrecando salvezza e premii era in età pericolosa e corrotta ricercato. Uno di quei malvagi, uscendo di chiesa affollato con altre genti, ebbe da ignota mano trafitto il fianco; vicino a morte, rivelò quali persone per le sue false accuse stavano in carcere: morì, ma senza pro ai discolpati. Altro tristissimo (un certo Avitaja), nel mezzo della notte conferendo, come soleva, col ministro Canosa, si levò all’improvviso e vacillando su i piedi chiese ajuto : accorse il solo che poteva, il ministro; ma quel moribondo gli appoggiò la fronte sul petto e spirò. Casi orribili, che divolgati aggravavano la mestizia de’ tempi.
VI. Per nuova legge si condannarono alle fiamme, oltre i libri interdetti dal pontefice, il catechismo sino allora insegnato nelle chiese, e si minacciarono gravi pene a’ possessori. Quel libro composto nel 1816 per le cure del governo era stato cavato dalle opere he morali del Bossuet; sembrando pericoloso per i nostri tempi noverar fra i doveri del cittadino la difesa e l’amore della patria, e non volendosi in Napoli cittadini ma sudditi, non patria ma trono, fu odiato il libro e proscritto. I fatti seguirono le minacce: visitate nella notte parecchie case, raccolti molti de’ vietati libri, tratti nel carcere i possessori, disposti que’ volumi a rogo nella piazza Medina, furono per man di birro, mentre il banditore pubblicava la infamia, bruciati. Erano il catechismo, la dottrina cristiana, i doveri sociali, e il Voltaire, il Rousseau, il Montesquieu. Da’ quali fatti avvisati del pericolo i possessori di biblioteche, distrassero gran numero di libri, fin gl’innocenti e i più istruttivi e giovevoli. Un anno appresso si aggiunse alla censura de’ libri stranieri dazio sì grave che ne impediva l’entrata. Il ceto de’ librai venuto in povertà, dimostrando che per il troppo dazio era scemato il benefizio della finanza, pregò per l’abolizione della legge il ministro Medici, il quale dichiarò: essere lo scopo di quella gravezza non la utilità finanziera ma la ignoranza del popolo; così che i loro argomenti si volgevano a sostegno della legge. Sincerità invereconde, da tempi ed uomini corrotti.
VII. Così stava inorridita ed afflitta la città, quando con magnifica pompa vi giunse il re, tra feste preparate dall’adulazione e dal timore. I discorsi de’ magistrati, della municipalità, della università, delle accademie, fatte al re per gratulazione del ritorno esaltovano la giustizia e la pietà di lui; lo chiamavano padre del suo popolo; adombravano con laude i mancamenti e lo spergiuro. Ed egli, tornato appena, provvedendo alle cose sacre, concesse a cherici la cura della pubblica istruzione, a’ gesuiti le antiche sedi e ricchezze, ad altri monasteri e società religiose doni e stipendii. L’esempio secondava le leggi, perocchè spesso co’ principi della casa, e cortigiani, e ministri, egli assisteva divotamente alle funzioni di chiesa, comunque volgari e ordinarie. E non bastando i precetti e l’esempio, aggiunse i premii e le pene; togliendo di carica quei che mostravano larga coscienza, e dando impieghi e favore a coloro che in ostentata divozione compivano i riti della chiesa. Perciò la religione che ne’ padri nostri era di coscienza, oggi divenuta d’interesse, fu ipocrisia ed inganno: infimo stato dell’anima.
VIII. De’ militari e settarii di Monteforte, alcuni, come innanzi ho rammentato, fuggirono; altri stavano palesi e spensierati, non indotti a partirsi dalle astuzie della polizia, nè dal vedere in carcere gli ultimi di quel rivolgimento del quale eglino erano i primi. Il re voleva scansare quel giudizio per non esporre a pubblico dibattimento e registrare in processo fatti poco degni del regal decoro; ma non poteva dissimulare colpe sì gravi, senza perdere la facoltà di punire le minori. Però facendo l’ultima prova, con editto del 30 maggio, giorno del suo nome, disse di perdonare i delitti della rivoluzione, ma non quello de’ militari o settarii che accamparono in Monteforte. Lo studio del re a scacciarli era per coloro maggiore argomento a restare; insino a che lo sdegno e la politica di lui vincendo il pudore, tutti ad un giorno furono chiusi nelle carceri, e l’editto e ’l perdono restaron cassi. Si aprì il giudizio di Monteforte.
E tutto dì crescevano le cagioni e gli effetti del rigore. Numerosi stuoli di liberali, per contumace ingegno e per difendersi dalle persecuzioni della polizia, correvano le province; e la più parte, come ricchi e potenti uffiziali poco innanzi delle milizie o principali della setta, avevano seguaci, amici, aderenti, denaro, armi, conoscenza de’ luoghi, mezzi di guerra lunga e sanguinosa; Il capitano Venite, il capitano Corrado, il maggiore Poerio, il colonnello Valiante, ed altri di grado e fama, stavano armati nelle campagne, più spesso ne’ piccoli paesi, pur talvolta nelle città, ribelli all’autorità del governo, imperando sul popolo, non per imporre taglie o tributi, avidi solo di libertà. Il capitano Venite con le sue genti, un giorno dopo aver fatte le cerimonie sacre della setta, assaltarono Laurenzana, città grande di Basilicata, combatterono e vinsero le guardie del carcere per far libero un settario; ma impedirono agli altri prigioni di uscirne, non volendoli compagni, nè liberi, perchè rei di misfatti: tale è la natura di quella setta e di quei tempi. Felice il Venite in Laurenzana, assaltò nella notte le carceri di Calvello, altra città, e ne trasse un frate, settario anch’esso, fra Luigi da Calvello. Il quale, messo il piede in libertà, vestito da Francescano, chiese alcun’arme e l’ebbe. Un uomo stava in disparte legato; perchè imbattutosi ne’ settarii, mentre andavano agli assalti del carcere, fu trattenuto, non come nemico o avverso, ma per prudenza del delitto. A questo misero il frate si avventò; e per dare argomento d’animo fiero, non dechinato sotto i travagli della prigionia, con molti replicati colpi l’uccise.
In Aversa il vescovo Tommasi ambizioso e caldo partigiano della tirannide, dimentico della carità del suo ministero, spiava i colpevoli di stato; gli accusava, instigava il governo a punirli, o, dove bastasse l’autorità di prelato, li puniva. Per lui stava in carcere un prete (Mormile), sostegno alla famiglia, venerato in patria, i congiunti del quale per continui prieghi e per lacrime speravano di ammollire lo sdegno del persecutore; ma quegli, un giorno infastidito superbamente lor disse: Sino a tanto piacerà a Dio tenermi vescovo di Aversa, resterà il Mormile imprigionato. La qual sentenza diretta al giovine che lo supplicava, Carmine Mormile, produsse che subito cessasse dal pregare, e con gli altri della famiglia partissero. Soleva il vescovo al dechinar del giorno andare a diporto in carrozza; e il giovine Mormile informato di quell’uso, poche ore dopo i feroci detti, nella pubblica piazza lo attese, e vedutolo si appressò, lo chiamò per nome, gli scaricò nel petto un arme da foco che tenea celata sotto le vesti, l’uccise e disse: Or non sei vescovo di Aversa, Iddio avveri la tua sentenza.
In Palermo la setta de’ carbonari, debole nel 1819, accresciuta dopo i trionfi del 1820, più numerosa benchè flagellata nel 1821 si adunava nella notte in alcune grotte dalla contrada di San Spirito, lungi un miglio della città. Di che informata la polizia, sorprese i settarii (in quella notte soli 14) armati ed ornati de’ fregi della setta. Cinque tra loro, per amor di salvezza e per malvagità, denunziarono altri compagni, altri ricoveri, e disegni, e speranze; così che varie sorprese, e molti arresti seguivano. Ed allora gli ancora liberi, sperando salute da un generale sconvolgimento, passati gli avvisi alle società compagne dell’isola, si tenevano nascosti ed armati ne’ boschi aspettando l’opportunità di prorompere. Ma il governo, sapute o sospettate quelle opere e quelle speranze, accresceva rigori, faceva provvedimenti di sicurezza e prudenza; i presidii tedeschi si chiusero ne’ forti della città; le milizie napoletane erano tenute in riserva ne’ quartieri: i loro capi, fidi al re, sospettando le proprie schiere, stavano costernati e inquieti; la polizia più che non mai era operosa e tiranna. Fra sollecitudini e dubbiezze sì gravi passavano i giorni.
IX. Inique leggi, pratiche inique, reggitori spietati ed ingiusti, passioni del popolo ardenti e ree, coscienze sfrenate, generavano misfatti gravi e continui, famiglie intere distrutte, cento e cento vendette satollate. Nè solamente nell’infima plebe, ma negli alti della società per natali o grado. Si udivano tuttodì preti ribelli ed uccisi, preti sicarii di polizia, ed uffiziali dell’esercito onorarsi del mestiero di birro; ed intendenti e comandanti di provincia straziar persone innocenti; e magistrati denunziatori in secreto, e poscia delle loro accuse giudici iniqui.
E tra casi tanto miserevoli ed orribili moltiplicavano le condanne delle corti marziali e de’ magistrati. Il giovine Mormile, non preparato al delitto, reo per impeto di un istante, privo di asilo, vagando nelle campagne intorno alla città, fu preso, e al terzo dì nella piazza medesima dove egli avea consolato il suo sdegno, fu spento. Gli assalitori di Laurenzana e Calvello, sopraffatti dal numero delle milizie, alcuni traditori, tutti traditi, presi e giudicati, furono al numero di sessanta dannati a morte, e primo a morire fu il frate da Calvello. Fu morto combattendo il capitano Corrado; si salvò fuggendo il maggiore Poerio; fu chiuso in carcere il colonnello Valiante. I tumultuosi di Palermo furono giudicati, quarantatrè puniti, e nove colla morte. Per altro giudizio morirono diciassette in Messina e trentotto condannati a’ ferri. Altri dodici morirono in Lanciano. Avanzava il processo di Monteforte: altri processi per le rivoluzioni dell’anno 20 si spedivano. Il giudizio per la uccisione di Giampietro, narrata nel nono libro di queste istorie, terminò colla condanna di tre alla morte, diciassette a pena di galea e di ergastolo. Si provò il delitto concertato in adunanza di carboneria, e commesso ad alcuni settarii scelti o sortiti, usando nelle atrocità eleggere ministri non conosciuti dal proscritto per abituarli a qualunque obbedienza e sperdere gl indizii del misfatto. Furono perciò esecutori contro il Giampietro uomini della plebe, e motivo all’odio della setta l’esser egli stato, da direttore di polizia, cieco ed acerbo punitore dei settarii. Ottocento almeno condannati, o nelle civili discordie combattendo, furono morti nell’anno 1822 per causa di libertà disperata, illegittima e infame. E non un solo fra tante genti volle combattere un anno innanzi, in guerra ordinata e gloriosa. E tanti supplizii si tolleravano animosamente da quegli uomini stessi che pel campo furono timidi e molli: perciocchè il morir fortemente per tirannide è misera virtù de’ Napoletani, acquistata dal troppo uso di quella morte e dal sentire laudati que’ martirii.
Ne’ quali riferiti fatti e giudizii erano accusatori, testimonii, giudici, persecutori in secreto, assalitori armati de’ liberali, altri, poc’innanzi, liberali anch’essi e compagni nella setta e nelle opere; mutati, non per ravvedimento, ma per desio di salvezza, o ambizione, o guadagno. Il dotto canonico Arcucci, caldo scrittore a pro di carboneria quando ella era felice, ora da fuggiasco scrive in istampa lettere latine al pontefice, altre volgari al re; dimostrando sè iniquo, malvagia la setta poco fa santificata, implorando perdono: e l’ottiene. Altri rivela i nomi de’ compagni settarii; altri si gloria de’ suoi mancamenti al giurato governo costituzionale; vanto, fosse vero o falso, sempre infame. Tal debb’essere il popolo napoletano dopo i tollerati per 30 anni sconvolgimenti politici, e tirannico impero, e leggi ingiuste: e tale egli è per suo infortunio e d’Italia.
X. Alle descritte civili calamità si aggiunsero le naturali: turbini per i quali restarono devaslate smisurate terre, ed uomini feriti ed uccisi; fulmini, che in un giorno istesso, ad ore varie e varii luoghi spensero sei persone; la città del Pizzo, infame della morte di Gioacchino, restò più ore sottomessa dalle onde marine per furioso vento sollevate, tre uomini vi furono morti, la città ingombra di sassi e d’alga; il Vesuvio, da lungo tempo innocente, eruttò più volte fiamme, ceneri e lava; la maggior volta in ottobre, e, benchè coprisse di sè molta terra, fu danno leggero a confronto dell’altro che derivò dalle piogge di ceneri e lapilli, che addensate per acqua in dura materia insterilirono vasti e fertili campi. Nella città del Vasto, molte case franarono; ma però che il moto cominciò lento, gli abitanti salvaronsi, e i precipizii coprendo terre ubertose addoppiarono i danni. Nelle Calabrie, negli Abruzzi, nella Sicilia continui tremuoti scuotevano gli edifizii, ed opprimevano parecchi abitatori. Così quell’anno 1822 fu mestissimo.
Ma, sia freddezza per le altrui sventure o prudenza di regno, il re e la sua casa vivevano lietamente; ora festeggiando i dì natali e de’ nomi, ora onorando i principi stranieri, perciocchè in quell’anno il re di Prussia, i suoi figli ed il sovrano di Lucca vennero a diporto nella città: e poco appresso, sopra vascello napoletano, arrivò la già imperatrice duchessa di Parma, vedova Bonaparte, ammirata per quelle nozze, ch’ella ingrata e sola nel mondo non ricorda e dispregia. Altro scandalo per gli afflitti popoli erano i palesi amori del re con una giovane danzatrice (Le Gros), per bellezza e lascivie famosa. Ed in quell’anno istesso con pubblica festevole cerimonia si espose nell’edifizio de’ regii studii la statua in marmo del re, colossale, in foggia di guerriero, opera del Canova.
XI. Il re conceedè profusamente titoli, dignità e ricchezze a’ militari austriaci stanziati nel regno: il general Frimont fu creato principe di Antrodoco, e donato di ducati duecentomila con lettere del re che dichiaravano la gratitudine sua e della sua stirpe per il riacquistato impero. E tutto ciò ne’ giorni medesimi, che, sciolto l’esercito napoletano, il re toglieva gradi, onori e stipendii a que’ militari suoi soggetti, che per guerra o lungo servire gli meritarono, e distruggeva la convenzione di Casalanza. Vero è, che non osando rompere un trattato dalla fede dell’imperator d’Austria garentito, ne fè richiedere l’imperial ministro Fiquelmont, che subito replicò essere facoltà regia, ed anzi debito di politica distruggere quello accordo. Fu distratto. Si trovaron puniti della rivoluzione dell’anno 20 gli assenti da Napoli, gli avversi, gl’innocentissimi, e di quel mancamento non fece coscienza il re, non ne alzò grido l’imperatore, ne menò vanto il ministro Fiquelmont: tanto poco stimavano la religione de’ giuramenti.
XII. Si cambiò il ministero di polizia in direzione; il principe di Canosa, che n’era ministro, fu nominato consigliere di stato; restò più potente. Andarono in Austria prigioni tre già deputati, Poerio, Pepe, Borrelli; tre generali, Colletta, Pedrinelli, Arcovito, là confinati in lontane città Gratz, Brünn e Praga. Il principe di Metternich accertò che i rigori di Napoli erano ignoti al governo d’Austria, mentre il governo napoletano diceva ch’erano voluti da’ ministri dell’Austria. Si palleggiavano la vergogna di opere inique; ma, coll’andar degli anni e col ripetere il fallo istesso, gli uni e gli altri glorificavansi di quelle ingiustizie, chiamandole senno di governo. Si ricomposero i magistrati per distaccar gli odiosi e dare impiego a’ partigiani. E si ricomponeva l’esercito per cassarne i murattisti, non ritenendo di tanto numero se non pochi astuti, che, mutata la fortuna di Murat, e lui fuggito e spento, lo incusavano e maledicevano acerbamente, per farsi grati al nuovo regno e coprir d’odio non vero le vere colpe e le proprie vergogne nella guerra d’Italia del 1815.
XII. La finanza, per gli stipendii della guardia e de’ resti dell’antico esercito, per fare esercito nuovo, per pagar largamente il tedesco, per sostener lo stato, più impoveriva ogni dì. Fu venduto il campo di Marte, ricordo ed amore di Gioacchino: fu contratto debito di sedici milioni di ducati con Rothschild banchiere ricchissimo, ebreo, famoso a’ dì nostri per gl’imprestiti fatti a’ re, perciò barone, cavaliere di molti ordini, principal mezzo in Europa all’impero assoluto de’ governi, alla rovina degli stati. Ma presto consumate quelle somme da’ bisogni e da’ disordini, si tornò per nuovo prestito a Rothschild; il quale, amico al cavalier Medici, rispose non volere affidare altro denaro prima di esser certo della fedeltà finanziera, e non esserlo se quel ministero non veniva dato al cavalier Medici. Ma il re fu avverso. Crescevano le strettezze, si arrestarono i pagamenti alla casa tedesca; e ’l general Koller, capo di essa ed amico al Medici, ne menava romore. Si consultò; fu rammentata la condizione di Rothschild al re, che rispose: «E se il cavalier Medici morisse, morrebbe anche lo stato?»
Ma la necessità vinse le ripugnanze. Il cavalier Medici esule in Firenze ricevè lettere di Rothschild promettitrici della nuova fortuna, ed indi a poco da Napoli il decreto che lo fa ministro, e cento congratulazioni sincere o adulatrici; sente allora la sua potenza e patteggia. Vuole mutato l’attual ministero, vuole la facoltà di trattar prestiti con Rothschild (prudenza e gratitudine), vuole il discacciamento del principe di Canosa dal regno. Erano nemici quei due potenti, così che la fortuna avvicendava i ministeri e gli esigli. Il re per il solo Canosa resisteva, ma in mille modi accerchiato e vinto tutto concesse; rivocati gli antichi ministri, altri ne scelse devoti al Medici o non avversi: Canosa fu scacciato con istipendii più ricchi e chiare pruove di regale affetto. Nel pubblico si alzarono le speranze, però che si credea mutato l’ingegno del re, mentre mutava l’apparenza sola del favore. Il prestito con Rothschild fu subito fermato, e poco appresso altro prestito, ed altro, sempre con patti giovevoli all’Ebreo; così che il debito dello stato di ducati ottocentomila d’annuo interesse quando Gioacchino regnava, salito ad un milione e settecentomila sino all’anno 20, non punto accresciuto nel reggimento costituzionale, montò a cinque milioni e mezzo ne’ tre anni dal 21 al 24. E però all’universale faceva tedio e dispetto leggere ad ogni nuovo prestito e nuova taglia, ne’ preamboli delle leggi, che il re n’era costretto da necessità derivanti da’ guasti de’ due regni francesi e della rivoluzione dell’anno 20. Scherno al popolo che pagava in oro le sue catene.
XIV. Partirono nel tempo stesso Medici da Firenze, Canosa da Napoli che tornò all’antico asilo di Pisa. E poichè di questo uomo ho narrato molti fatti sparsamente nelle mie istorie, dirò quel che rimane; sperando durevole il presente stato di lui, per quanto la vita gli durerà. Egli, in Pisa, nel primo esilio invaghì di Anna Orselli figliuola di un cenciajo, sventurata per disonesta madre che vendeva le proprie vecchie libidini e le nuove della fanciulla. Nel secondo esilio, rimasto vedovo, fra gli ozii a lui penosi della vita privata, avendo avute due figliuole da quella femmina, la fece sua moglie; ma per fuggir la vergogna partì da Pisa e si raccolse in Genova colla sposa e la suocera. Il padre di lei nol seguì: e pregato dal genero a lasciare per larga mercede il povero mestiero, non volle, nè volle acceltar doni; sempre dicendo ch’egli abborriva le antiche disonestà delle sue donne, e le recenti nozze con uomo disuguale, tenuto malvagio nel mondo, e che la presente miseria eragli onorata, e più lauta vita ricorderebbe le sue vergogne. Così egli vive in Pisa da povero cenciajo; ed il Canosa, in Genova, solitario, o da male persone visitato, tra suocera e moglie svergognate, con cinque figli bambini, scacciato da quella patria dove governano le sue massime, lontano dalla famiglia vera di figli e congiunti ragguardevoli, senza amici, senza seguaci se non pochi tristi, ancora straziato dalle ambizioni e da brama (che Iddio frastorni) di più vaste vendette.
Ma nel regno la speranza di miglior governo decadeva, perciocchè la gioja pubblica per il ritorno del cavalier Medici, e l’odio contro lui ancora vivo del re, così che ne’ consigli nol mirava in volto, avvisarono quello astuto e vecchio ministro che gli bisognava demeritar le lodi del pubblico, e molcere l’animo del suo signore; cose che otterrebbe straziando gli afflitti. Altri cento e cento furon perciò rimossi dagl’impieghi, crebbe il numero de’ prigioni, de’ confinati all’isole di pena, de’ mandati in esilio; si accelerò il processo di Monteforte, fu riprovata la lentezza dei giudici, e minacciata per lo avvenire; le massime del Canosa, con pubblica maraviglia, duravano ne’ consigli del Medici, così che il mondo pende incerto se l’uno o l’altro, a paragone d’opere malvage, fosse più tristo.
XV. Nel nuovo ministero ebbe adempimento una legge dettata dal re un anno innanzi, e rimasta ineseguita e scordata, non so se per le voglie del Canosa o per altre mire di stato. E poichè ne’ quattro anni che sì racchiudono in questo libro fu quella legge il solo atto di governo fra mille d’impero, io ne descriverò i dettati a parte a parte. Nella lettera che il re da Laybach, il dì 28 gennajo 1821, scrisse al figlio, riportata nel nono libro di queste istorie, promise al popolo di volersi consultare con alcuni de’ soggetti sopra ciò che bisognasse al riposo e prosperità del regno. Ora, dicendo voler mantere quelle promesse, raduna per consiglio nella reggia diciotto personaggi, il marchese Circello, il cardinal Ruffo (famoso per le rivoluzioni del 99), il principe di Canosa, altri non men tristi, e pochi, benchè di buona fama, timidi e servili. A quel consesso si fecero cinque dimande in affari di stato, ed essendo espressa nelle dimande istesse la volontà del governo, il divolto consiglio rispose affermando, e si decretò:
Che le due Sicilie si governassero separatamente, sotto l’unico impero del re: fossero proprie le imposte, la finanza, le spese, la giustizia criminale e civile, e proprii gl’impieghi, così che nessun cittadino di uno stato potesse aver carica nell’altro. Separazione, che, alimentando le malnate discordie fra i due popoli, apporta servitù comune nella pace, debolezza e infortunii nella guerra.
Che il re trattasse le cose di regno in un consiglio di stato di dodici almeno, sei consiglieri, sei ministri.
Che le leggi o i decreti e le ordinanze in materia di governo fossero esaminate da un consesso di trenta almeno consiglieri per lo stato di Napoli. dieciotto per la Sicilia, col nome di consulte, da radunarsi separatamente in Napoli e Palermo.
Che le imposte regie fossero distribuite in ogni provincia per ogni anno da un consiglio di provinciali, con facoltà di proporre alcun miglioramento nell’amministrazione degli stabilimenti pubblici o di pietà.
Che le comunità si amministrassero con ordinanze più libere delle antiche, le quali sarebbero dettate dal re, dopo intesi i consigli dello stato.
I membri de’ sopraddetti consessi, cioè ministri, consiglieri di stato, consiglieri delle due consulte, consiglieri provinciali, tutti a scelta del re ed a suo piacimento mutabili. L’esame prescritto dal re, il voto dei congressi consultivo, la volontà regia sempre liberi. I ministri sindacabili ma dal re. Le medesime instituzioni erano nell’anno 1820, ma più strette; nacquero sotto i re francesi più sciolte. Ma quali oggi sono, per misera condizione di tempi e di uomini, potrebbero un giorno contrastare l’assoluto impero; minacciato in questa età da qual siasi congrega di opinioni.
XVI. Il giudizio di Monteforte procedeva: fuggiti i principali colpevoli, pericolavano i minori; ma caddero ne’ lacci Morelli e Silvati, gli stessi, come ho riferito nel precedente libro, che il 2 luglio 1820 furono i primi e condottieri dei disertori di Nola. Venute in Napoli le nemiche schiere tedesche, quei due fuggirono insieme; il Morelli, fattosi capo di 500 soldati e partigiani, correva le compagne intorno alla forte città di Mirabella. Ma la foga de suoi col tempo ammolliva, altri disertavano, altri si mostravano schivi a’ pericoli: Morelli licenziò tutti, e solo col Silvati, compagno antico, imbarcarono sopra piccola nave per Grecia. Percossi da tempesta, correndo il mare, approdarono ai lidi di Ragusi; ma privi di passaporto, e mostrando le ansietà de’ fuggiaschi, suscitato sospetto alle autorità del loco e imprigionati, furono spediti (però che avean detto essere di Romagna) in Ancona. Ivi le menzogne si palesarono, i nomi che avean finti erano ignoti alla finta patria: il parlar napoletano, le dubbiezze a rispondere, le varietà dell’uno e l’altro sopra fatti comuni, le note vicissitudini, e i luoghi e i tempi accertavano ch’ei fossero due fuggitivi; e però, tenendoli guardati nel carcere, si aspettava di consegnarli al governo di Napoli.
Quando eglino, fingendo altri nomi, si dissero già uffiziali del reggimento Principe, partecipanti, benchè da ultimi e da seguaci, a’ moti civili del 1820, ed escolpati da decreto del re. Bastarono que’ detti per esser mandati nel regno con numerose guardie. Silvati vi giunse, Morelli ebbe altre sorti: entrando per natural bisogno in una cava, le guardie custodivano l’uscita, ma la spelonca dilungandosi nel seno del monte aveva altro varco nell’opposta valle. Per quello il Morelli fuggì. Di foresta in foresta, camminando sol nella notte, andò negli Abruzzi, scese nelle Puglie, intendeva di passare in Calabria, aver denaro da suoi parenti, ed imbarcar di nuovo con più felici speranze per Grecia. Incontrato da ladri fu rubato e percosso; ma poichè serbò nascoste in una cinta poche monete d’oro fece animo a proseguire il cammino. Quasi nudo e tutto scalzo, andando poco, soffrendo troppo, entrò nel piccolo villaggio chiamato Chienti; provvide da un calzolajo scarpe, cibo e veste e le pagò con una moneta di sei ducati, ricchezza non conforme alla visibile povertà del suo stato. Il calzolajo ne insospettisce, e facile o tristo, rivela i dubbii a’ ministri del loco. È arrestato il Morelli, e ad un punto conosciuto, e in catene spedito in Napoli. Egli e Silvati accrebbero l’importanza del cominciato giudizio di Monteforte.
Dicevasi che il processo discolpava gli accusati, e della voce lietamente sparsa indispettiva il governo; così che ad occasione di un decreto della corte suprema, benigno a’ rei, lo annullò, rimprocciò per pubblicate lettere quel magistrato, levò di carica il ministro di giustizia cavalier de Giorgio perchè in sostegno delle leggi opponevasi a quel rigore; indi appresso surrogò al procurator generale Calenda, di onesta fama, il magistrato Brundisini, non curante d’infamia; e dagli esempii sbigottito il presidente Potenza, allegando causa d’infermità, diè loco al supplente Girolami, ambizioso e perverso. Mancò il Potenza al maggior debito di magistrato, costanza ne’ pericoli.
Ma il dì prefisso al dibattimento quattro degli accusati erano infermi: due con febbre, un terzo di emottisi, l’altro di riaperte ferite di guerra al collo ed alla gota. Gli avvocati pregarono che si differisse, ma invano; i quattro infermi furono tratti per forza dal carcere al giudizio: l’uno chinava il capo al petto, ed appoggiava la persona, come moribonda, sul vicino; l’altro di febbre balbutiva e tremava; dava di bocca vivo sangue il terzo; e ’l quarto ne mandava dal capo, e ne bruttava le vesti. Deforme spettacolo! Uno de’ giudici, de Simone, si levò, e disse: «Dimando al signor presidente ed al procurator regio se qui siamo giudici o carnefici? Il re, se fosse presente, biasimerebbe l’inumanità. nostra. Io prego cogli avvocati che sia differito il giudizio.» A_que’ detti assentiva tumulyuando il popolo presente: le guardie (erano tedesche) impugnarono l’armi, parecchi imprigionamenti nella casa della giustizia seguirono, vile silenzio successe nella moltitudine, i preghi del de Simone furono rigettati. Con sembianze tanto atroci cominciò il dibattimento.
Erano grandi le colpe, le discolpe: diserzioni concertate di reggimenti, violata la disciplina e il giuramento della milizia, mutato il governo, cagionata la guerra: e dall’opposta parte, moti tranquilli, rivoluzione civile, perdono, lodi, giuramento del re; universal consentimento de’ reggitori e de’ soggetti; eguali sforzi a sostener quello stato, eguale abbandono nelle rovine: perciò colpe comuni o nessuna. Per i quali rispetti gli onesti fra i giudici sentivano pietà e brama di giovare a que’ miseri; gli ambiziosi disegnavano di amplificare il delitto. Gli accusati stavano sereni, o per animo grande, o per gli ajuti della speranza, o per la calma che viene colla disperazione. Morelli, più volte interrogato sulle particolarità del delitto, rispondendo aggravava le colpe, e soggiungeva: «Mancai, lo confesso, al giuramento della milizia; ma il re giurò di perdonare il mio mancato giuramento, Il colonnello Colentani, altro incolpato, udendo accusare come ribelli gli uffiziali del suo reggimento, chiese parlare , e disse:
«Ho esposto altre volte per quali onesti motivi condussi a Monteforte il reggimento; ma quegli argomenti vaglian per me, non per questi uffiziali (segnandoli col guardo e col dito) che sento con maraviglia chiamar ribelli e spergiuri. Sarieno al certo e spergiuri e ribelli, se disobbedivano al mio comando. Io innanzi di muovere non consultai col reggimento; ma, come è costume negli eserciti, feci sonare a partenza; e questi uffiziali e soldati, obbedienti come ogni altra volta, mi seguitarono. Giunti noi a Monteforte, se io comandava di combattere le schiere del Morelli, il mio reggimento le combatteva; ma io comandai di unirsi ad esse, e tutti si unirono per obbedienza ed esempio. Dirò anzi cosa verissima: io che non poteva palesare ad ognuno le oneste cagioni di quelle mosse, e che di tutto conosceva l’avversione alle novità di stato e la fede al re, colle cose che dissi e colle ordinanze del marciare o del fermarci intesi a far credere che si andasse ad espugnare il campo di Monteforte; nè rivelai le intenzioni vere se non in mezzo a quel campo, quando era l’opera irrevocabile. Strano giudizio è ora questo! Siamo rei nella stessa causa, e qui seduti insieme sulle scranne del pericolo, io perchè ne’ fatti gravissimi di quei tempi operai a mio senno, e costoro perchè non operarono col senno proprio; per me dunque è delitto la libertà delle azioni, ed è delitto per essi non avere agito liberamente; la cieca obbedienza era debito a me, e il non averla avuta mi è colpa; la cieca obbedienza non è merito a loro, è delitto. Pensate, o giudici, alla natura di questa causa, di stato per me solo, di disciplina per gli altri del reggimento. Fareste cosa giustissima (quando mai fosse delitto di maestà quel movimento) punir me colpevole, salvar costoro innocenti, e ricercare un mio soldato che disertò nel cammino per castigarlo secondo le ordinanze della milizia. Ripeterò in breve il mio concetto: tutti innocenti, o reo per tutti sol io.»
Durò il dibattimento più che tre mesi, parlarono a difesa gli avvocati animosamente, come non fosse causa di maestà in tempi pericolosi e feroci, La sentenza fu data da sette giudici; tre furono per la libertà degli accusati, però che non costava di colpa nelle rapportate azioni o si trovava rimessa dal perdono del re; e gli altri quattro ne condannavano 30 di morte, 13 di ergastolo o galera. Letta la sentenza, da eseguirsi tra poche ore, i condannati a morire furono condotti in loco sacro per gli ultimi conforti di religione.
Era tra loro il colonnello Tupputi, chiaro nell’armi, al quale si era promessa sposa la marchesa Mesuraca, di fresca età, di gentil persona, nobile, ricca. Ella poi che udì la condanna andò sollecita per dimandar grazie alte principessa Floridia moglie del re. Il cordoglio di lei, il nome, la famiglia, la pietà della inchiesta mossero la gentildonna a pregare il marito, il quale avendo in animo di campar dalla morte i condannati, fuorchè i due primi, rispose: farebbe grazia. La principessa ritornò alla misera che incerta ed ansante aspettava; e quella, inteso il felice annunzio corse, anzi fuggì verso il carcere, ed arrivata, gridò ripetute volte: «Tupputi, la grazia è fatta.» Ma gl’infelici non udivano quelle voci, perciocchè la cappella del mesto uffizio sta in loco recondito, lontano dalla porta e dalle strade. Avvertita di ciò la Mesuraca, pregò i custodi e le guardie, offrì larga mercede a chi primo giungesse coll’avviso: ma tutti rifiutavano, impediti a penetrare in quel secrceto di religione e di spavento. Così che disperata si aggirava intorno al vasto edifizio della vicaria, e dovunque vedeva o finestra o spiraglio gridava con voce altissima e pregava il popolo a gridar seco: «Tupputi, Colentani, Gaston, la grazia è fatta.» Tanto romore, tanta pietà produssero l’effetto; Tupputi e gli altri furono avvisati della ottenuta salvezza; e per molte vie ritornò al pubblico l’annunzio che i condannati n’erano intesi ed allegri. Allora cessarono le voci e i moti della Mesuraca; ma le forze, sino a quel punto sostenute dall’ansietà, le mancarono; e dalle braccia del popolo fu trasportata nella nobil casa del padre.
XVII. Le grazie del re indi a poco si pubblicarono: la pena di morte fu mutata in ergastoli o galee a vita, le minori pene si attenuarono. Solamente inflessibile fu l’animo regio per Morelli e Silvati, che il giorno istesso morirono sulle forche. Agli altri campati dalla morte, si recisero i capelli, s’imposero vesti e ferri di pena, si accoppiarono (però che in quel martirio son tenuti a coppia) con altri condannati per delitti vituperevoli, e così andarono agl’infami scogli di San Stefano e Pantelleria. Dei sette giudici i tre benigni furono per simulate cagioni cassi d’impiego, gli spietati promossi; il procurator generale Calenda dimesso affatto, Brundisini avanzato; più rimunerato il Girolami dell’esempio, primo nella curia napoletana, che in causa di morte, anzi di 30 condannati a morire, la parità fra giudici si sciolga dal voto del presidente per la sentenza più cruda. Co’ quali o premii o pene il governo palesava l’animo fermo al rigore, ed a’ giudici comandava severità cieca, libera da’ rispetti di ragione o di coscienza.
XVIII. Spedita la causa di Monteforte, e le altre, come innanzi ho riferito, per i tumulti di Messina, Palermo, Laurenzana, Calvello, e la causa di Giampietro, ed altre cause minori; sfogate cento vendette o della legge o dello sdegno; versato tanto sangue di cittadini e tanto pianto: non però si mitigava l’acerbità de castighi. Furono condannati a morte in contumacia, e poco appresso dichiarati nemici pubblici, nove fuggiti; primi de’ quali i generali Carascosa e Pepe. Fu intimato per editto a settecento e più cittadini di andar volontarii alle prigioni, per essere giudicati secondo le leggi; ovvero uscir dal regno con passaporti liberi, senza indizio di pena: aggiugnendo promesse di benignità agli obbedienti, minacce a’ ritrosi. Erano costoro rei o timidi, che stavano sospettosi ed armati nelle campagne, non entravano le città, mutavano le stanze, sempre liberi, ma di pericolosa libertà. Dopo l’editto, chi secondo il proprio senno restò più guardingo nei boschi, chi fidando all’innocenza si presentò per il giudizio, e cinquecentosessanta chiesero di partire. Ebbero i passaporti promessi; e stabilito il cammino ed il tempo, andò ciascuno nel prefisso giorno al confine del regno. Ma impediti da ministri pontificii, si adunarono nella piccola città di Fondi, ove il seguente giorno i commessi della polizia e le genti d’arme li accerchiarono e condussero prima nella fortezza di Gaeta, poi nelle prigioni della città. La polizia fu lieta e superba del riuscito inganno: parecchi de’ traditi furono giudicati e mandati alla pena; altri ottennero passare in Tunisi o Algeri; regni barbari e soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuori usciti. Il maggior numero, non giudicato e non espulso, restò in carcere: materia sofferente della tirannide, poi balestrata in mille guise dagli uomini e dal caso.
Era tanto il numero de’ Napoletani proscritti o fuggiti, che se ne trovava in Italia, in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in America, nelle città barbare, in Egitto, in Grecia; la più parte miseri, vivendo per fatiche di braccia o di mente; nessuno disceso a’ delitti e alle bassezze che in età corrotta più giovano; nessuno ascritto ad infami bandiere contro i Greci. Si videro casi miserevoli: figliuoli orbati di padre, in paese straniero abbandonati; padri orbati di figli morti di stento; un’intera famiglia (madre, moglie, cinque giovani figli) naufragata; altro cacciato d’ogni città, con moglie inferma in stagione nemica, indossando due bambini, e reggendo il terzo per mano, andare alla ventura, cercando ricovero e pane; altri gettarsi volontario nel Tevere e morire. Ma pure in questa età di tristizie pubbliche abbondarono le virtù private; e spesso gl’infelici trovavano ristoro a’ bisogni, consolazioni alle sventure.
Fra tante spietatezze del governo si vedeva in Napoli con maraviglia impunito il maggior delitto, il tentato più volte regicidio. Vi si credeva in quel tempo, reggendo la menzogna per la sua stessa immanità, ed accreditandola il re ed il figlio, desiderosi di giustificare i passati mancamenti e ’l presente rigore. Ma poscia il silenzio del governo, il tempo, e la rivelatrice delle umane cose palesarono i veri fatti e la ignominia del mendacio e de’ mentitori.
XIX. Chiamato il re a novello congresso in Verona, si destarono nel regno le speranze di miglior governo, conforti rinascenti di popolo afflitto spesso delusi. Il re in breve tempo si apprestò alla partenza, e si mosse. Usciva dalla reggia quando il Vesuvio vomitava torrenti di fuoco, abbujava il cielo per cenere, scuoteva intorno la terra; orrori e pericoli meno spaventevoli a noi, come frequenti. Giunse a Verona con sontuosa pompa, essendo genio de’ Borboni magnificarsi per le ricche apparenze. In Napoli null’altro sapevasi del congresso fuorchè offici scambievoli e riverenti, feste, cerimonie, diletti. Qualche cosa di stato si conobbe al cominciar dell’anno 23 per la pubblicata circolare del congresso agli ambasciatori di tre potentati, russo, prussiano, austriaco. Diceva, che a richiesta del re del Piemonte uscivano da quello stato i presidii austriaci, ed a richiesta del re di Napoli minoravano (da quarantaduemila a trentamila) nelle due Sicilie, Parlando della Grecia, e biasimando la ribellione di quelle genti all’impero legittimo de’ Turchi, palesava che la santa alleanza avrebbe inviato eserciti a sostegno della legittimità ottomana, se l’imperator delle Russie non avesse preso impegno di conciliare gl’interessi dell’umanità e dei troni. Trattava infine della Spagna, e, adombrando la vicina guerra, diceva che si richiamerebbero gli ambasciatori da quello stato sconvolto.
XX. Sciolto il congresso di Verona, il re di Napoli andò a Vienna. L’età grave di lui, la stagione invernale (era il dicembre), l’allontanamento da’ piaceri della caccia e dell’impero, il viver privato, deposte le usanze di lunga vita, accreditavano il sospetto ch’egli lasciasse il freno del governo al figlio duca di Calabria, per rinunzia stabilita nel congresso; le quali pubbliche speranze presto caddero col suo ritorno in Napoli. Ma è cosa certa, sebbene oscura, che in congresso fu trattato di quella rinunzia e della separazione de’ due regni delle Sicilie, per disegni dell’Austria, contraddetti dalla Francia, fallati per voto della Inghilterra. Tornato il re in Napoli, si fecero nella città luminarie e feste, in corte circoli ed aringhe, sdegnandosi il mondo alla eccessiva adulazione de’ seggetti ed all’alterezza del re, in tanta pubblica miseria, colla coscienza de’ comuni falli. Il principe Ruffo e ’l general Clary, poco innanzi nominati ministri, furono dimessi; non meritevoli della presente sventura, nè della fortuna precedente. Il cavalier Medici ritornò nella sincera grazia del re, che gli accrebbe onori e potere.
XXI. Cessate nell’assenza del re le condanne di morte, il popolo si rinfrancava dal terrore, quando, poco dopo il ritorno, furono giustiziati cinque carbonari, che nel 1820, usciti di taverna ubbriachi, traversando fugacemente in carrozza la città detta Cava, sventolarono le insegne della setta, e gridarono voci di libertà; ma infeconde di tumulti o delitti. Al tempo stesso rinvigorirono tutte le specie del rigore, non per nuovo comando del re, ma perchè i ministri e i magistrati suoi, vedendo l’animo regio non inchinato a nessuna pietà, speravano maggior favore e più larghi premii straziando gli afflitti. Tanto più sicuramente, perchè caduto in quel tempo il governo costituzionale delle Spagne, anche là furon visti tradimenti, fughe, vituperii, tutta la debolezza de’ novatori moderni. E però che in Napoli le sofferenze del popolo e le tristizie del governo durarono costanti, simili, continue per tutto il tempo racchiuso in questo libro, io argomentando l’animo de’ leggitori dalla mia propria sazietà è melanconia, e bastando le già dette cose a rappresentare la miseria de’ tempi, cesserò di narrare altre morti, esigli, fughe, povertà: sventure pur troppo ripetute in queste mie istorie.
XXII. E non meno spietata e fiera fu la natura in quell’anno. La città di Sala fu scossa da tremuoto; altra, Avigliano, franò in gran parte; in Messina, tempesta impetuosa con fulmini e tremuoti scaricò in pioggia tanto stemperata, che i molti torrenti della città e de’ dintorni abbandonando l’ordinario letto devastarono le campagne, abbatterono le case nelle quali più di cento uomini perirono, e tanti sassi e tronchi lasciarono nel piano, che, scomparsa l’antica faccia, vedevasi deserto dove già furono deliziosi giardini o fertili poderi. Molti abitanti della stessa città si ripararono sopra i tetti, molti soffogati perirono.
Disastri maggiori tollerò Palermo per tremuoto.
XXIII. Ne’ quali medesimi anni avvennero morti memorabili. Il general d’Ambrosio chiaro nell’armi, ferito sette volte in molte guerre, dotto, facondo, morì senza il nome e gli onori del grado, e mal visto dal re.
Indi a poco morì altro generale, il duca di Ascoli, del quale dura la fama che nel 1801 fu potente e benigno; negli anni appresso in Sicilia, potente quanto innanzi, ma tristo; e poscia in Napoli dal ritorno de’ Borboni finchè morì, vario come volevano tempi e politica. Costante amico al re, anche allora che fu da lui gastigato,
Morì Nicola Fergola, dotto in matematica, autore di molte opere, modesto e cristianamente umile, sino a pubblicare col nome di alcun discepolo i prodotti del proprio ingegno a fin di scemarsi gli onori, ma gli crescevano.
Mori Giuseppe Piazzi, astronomo chiaro nel mondo. La città di Palermo da lui onorata, per le scoperte nel cielo colà fatte, gli rese onori degni del merito e del nome; lo effigiò in bronzo, e disegna di ergergli un monumento.
Morì la vecchia principessa di Torella, della qual morte non parlerei se non fosse stata cagione di caso pietosissimo. Si portavano le sue spoglie nel sepolcro gentilizio della casa Caracciolo Torella, dove tempo innanzi furono deposte le ceneri di Cristoforo Saliceti, conciossiachè la figlia di lui era maritata in Torella. All’entrar nel sepolcro per depositare la or ora defunta, la giovine principessa Carolina Saliceti, che accompagnava il feretro, volse mesta lo sguardo verso l’avello del padre, e non vedendolo dove già fu posto, dimentica di ogni altra cosa, abbandonò la cerimonia, e fra quei tumuli andò cercando e chiamando per nome le ceneri che non trovò. Perciocchè, mutate le sorti de’ napoleonici, alcun superbo della casa Caracciolo (non al certo l’attual principe Torella, onesto e nobile) disdegnando le spoglie del Saliceti, le fece involare e disperdere, o deporre in altra fossa. La infelice donna, fatta certa del sacrilego furto, cadde in quel luogo istesso tramortita, e ne perdè il senno, che poi ricuperò, così che sente profonda ragionevole melanconia.
Morì il chirurgo Bruno Amantea, di tanta carità verso i poveri, che la fama di eccellente nell’arte dalla fama di pietoso era vinta. La sua malattia destò all’universale timore ed ansietà, la morte fece versar molto pianto, i funerei officii furono seguiti da tanto popolo che a stento capiva nella strada vastissima di Foria. Di rincontro alla piccola casa di lui si appese una cassetta collo scritto: «Il denaro delle offerte servirà ad ergere una cappella votiva pel chirurgo Bruno Amantea or ora morto.» Ma vi si potè in breve tempo fabbricare una chiesa col nome di Santa Maria delle Grazie.
Morì il medico Domenico Cotugno, dotto, eloquente, chiaro per nuove dottrine. L’esequie fu magnifica quanto quella dell’Amantea, ma di altri onori, perciocchè l’accompagnarono i medici, i dotti, tutti i professori, tutti gli studenti della città. La sua effigie in busto di marmo fu posta con pietosa cerimonia nell’ospedale degl’incurabili, ed altra in bronzo sopra medaglia è meritamente riverita nelle accademie, nelle università, ne’ musei.
Tra le morti dolenti ed onorate che ho descritto, due ne seguirono di contraria fama: del cavalier Vecchioni e del marchese Circello; che, ministri del re, furono timidi ne’ pericoli, superbi nelle venture, sempre tristi. Furono pompose le esequie, ma comandate; crebbe di entrambo nel sepolcro la mala fama. E più fiera la morie fu verso i re, perocchè ne spense cinque, in quel solo anno 1824, tra’ quali ve n’ebbero due della casa de Borboni, Luigi XVIII re di Francia e Maria Luigia duchessa di Lucca già regina di Etruria.
XXIV. Tante morti e di re e di amici, tanti disastri di natura e tanto pubblico danno, scossero il petto del re Ferdinando, debole per natura, più abbattuto dall’età e da una religione ch’era in lui non d’altro che di paura; e benchè egli fosse sinceramente re, credendo sè di specie più che umana, i suoi popoli suoi schiavi, e sacre le sue ragioni nella vita e roba de’ soggetti, pure intimorendo sospettava, vicino al suo fine, severo giudizio innanzi a Dio. Si volse, più dell’usato, a’ facili ripari di devozione; comandò che doppiando fatica e spese fosse terminato il tempio di san Francesco, e prendendo giornaliero conto de’ lavori, spesso addolorandosi, diceva che non vedrebbe il compimento di quell’opera. E nol Vide.
Perciocchè al cader dell’anno 1824 egli ammalò, ma leggermente, così che ritornò a’ teatri e alle cacce. Nella sera de’ tre gennajo 1825, dopo il giuoco e le preghiere andò a dormire. Solito intorno alle otto della mattina chiamare un servo, nel dì 4 l’ora suonò, chiamava. Aspettarono, Chi vegliava alla sua custodia nelle vicine stanze accertava avere inteso, alle sei del mattino, tossire il re due volte. Scorreva il tempo; l’orecchio accostato all’uscio della camera nulla udiva; si fece consiglio de’ famigliari e de’ medici (presenti per uso di quella corte al destarsi del re), e fu deciso (erano le dieci ore) che anche non chiamati si entrasse. Ad ogni passo crescevano i sospetti, e furono viste le coltri ed i lenzuoli disordinati, e in essi avvolto il corpo del re così stranamente che pareva aver lottato lunga pezza; perciocchè un lenzuolo gli avvolgeva il capo, e quel viluppo sì nascondeva sotto al guanciale; le gambe, le braccia stravolte; la bocca aperta come a chiamare ajuto, o a raccogliere le aure della vita; livido viso e nero, occhi aperti e terribili. Si spande la nuova nella reggia; corre la famiglia, altri medici accorrono, non rimane dubbiezza o speranza: egli è morto di apoplessia, come più chiaramente fu visto all’aprire del cadavere.
La morte del re delle due Sicilie Ferdinando I fu bandita con editto del re delle due Sicilie Francesco I. Ma poco innanzi nella città, bisbigliata la nuova e creduto inganno della polizia per discoprire dalle risposte o dal gesto l’animo di chi l’udiva, tutti tremando e tacendo schivavano gl’incontri. Dipoi, rassicurati, si affollavano ne’ cantoni a legger l’editto, ritornavano a speranza di miglior governo; e taluno, sotto lo scritto, fra mille spettatori, baciò la terra, e ad alta voce ringraziò Iddio di quella morte come termine di universali sciagure. Ma subito punito, e punite altre allegrezze, e pubblicata dal nuovo re la vera o finta mestizia, il popolo si fe’ cauto e nella reggia si composero i volti e i discorsi a lutto. Era verace in alcuni, come nel principe di Ruoti vecchio amico del re, capitano delle sue guardie, nelle vicissitudini di regno consigliero di pace o taciturno; il quale nel deporre a’ piedi del nuovo re le insegne del comando, fu soffogato dal pianto.
II testamento del defunto re, olografo, fatto nell’anno 1822, accresciuto due mesi avanti al morire, confermava le successioni al trono stabilite da Carlo III suo genitore; chiamava erede al regno duca di Calabria. Francesco: accresceva all’altro la ricchezza, i doni alla moglie Floridia, gratificava i famigliari; concedeva somme grandi alla chiesa per celebrar messe, pregava il figlio a mantenere le limosine ch’egli faceva in vita. E perciò fu visto che in carità dispensava ventiquattromila ducati all’anno.
I funerali, gli stessi de’ re di Spagna rammentati nell’ottavo libro di questa istoria, furon sì lunghi che Ferdinando trapassato il dì 4, scese alla tomba de’ re di Napoli, nella chiesa di Santa Chiara, il dì 14. Scomparve affatto dalla scena del mondo il giorno stesso che quattro anni innanzi nel congresso di Laybach, compiendo lo spergiuro, preparò guerra al suo popolo.
Visse anni settantasei, regnò sessantacinque: rara felicità di principe, che nella sua vita può governar tre vite del suo popolo. E poichè dove governa re assoluto le qualità di lui diventano qualità de’ sottoposti, meno per la creduta forza degli esempii che per quella più potente delle ambizioni, potrò disegnare molti vizii o virtù della moltitudine, raccogliendo le cose più importanti di questo re o sparsamente narrate ne’ dieci libri, o non dette ancora per difetto di opportunità. E quindi m’ingegnerò di scrivere in altro luogo la vita di lui con quella più breve pienezza che saprò.
XXV. Sono dunque al termine della mia fatica, e la ano a scri vere le ultime carte mi trema dal dolore che io sento a separarmi da un’opera che mi è stata compagna nell’esilio, consolatrice delle mie pene, promettitrice (lusinghiera forse) di fama. Ella empiva gli ozii nuovi ad un’anima operosa; ella ne’ mali che mi venivano dalla prepotenza, suggeriva i lamenti e le vendette; ma se spinto da troppo sdegno io prorompeva oltre i confini del giusto, ella, consigliera di onore, mi richiamava al vero, all’onesto; e me fatto povero e morente confortava della povertà col presente patrimonio di buon nome, e del fato immaturo con la mercede di più lunga vita nella memoria degli avvenire. Io dunque benedico i lunghi studii e il pensiero che mi venne da Dio di scrivere le istorie.
Ma delle miserie narrate, tante e sì gravi, è acerba la memoria e sconsolata. Fra le quali mi rimane fissa nell’animo la ingiustizia de’ giudizii del mondo, e, con ispezialità della Italia, su’ fatti della mia patria. Cosicchè vo’ raccorre in una pagina, l’ultima de’ dieci libri, le opere onorevoli sparsamente discorse di quel popolo, che solo in Italia serba il seme delle sperate miglioranze civili.
Derivarono da ordinamenti napoletani le prime in Italia revendicate libertà dalla tirannia della chiesa, e il frenato sacerdozio. L’autorità di quello leggi venne dal re Carlo Borbone, il consiglio dal ministro Tanucci, la forza dal popolo.
Virtù di governo che più crebbero sotto il re Ferdinando. La chinea, le offerte, i tributi, tutte le note vergognose di vassallaggio, religioni degli avi nostri, furono sbandite da noi. Le dottrine libere di governo surte in Francia l’anno 1789, si videro in Napoli prima che altrove accolte e divolgate. Quanti perciò morissero di supplizii, o penassero in lunga prigionia, ho riferito nel terzo libro delle istorie.
E nel tempo stesso il popolo ubbidiente alle leggi, arricchiva l’erario, ingrossava l’esercito, illustrava le insegne napoletane nelle guerre di Lombardia e di mare. Diresti che spietato governo crucciava parte de’ soggetti, e nell’altra trovava ubbidienza ed ajuti.
Male augurata guerra in mal punto mossa sconvolse lo stato; delle colpe de’ capi fece penitenza l’esercito, ammenda il popolo, che guerreggiando co’ modi suoi rende mesta e breve la conquista. Le arti guerresche de’ popoli contro gli eserciti trovate negli Abruzzi, afforzate anni appresso nelle Calabrie, furano poscia imitate dagli Spagnuoli ed Alemanni, orrende perchè usate a sostegno di servitù, ma onorevoli quando combatteranno per buona causa.
Quelle arti nel 1799 non bastarono contro i Francesi, che, vinto il popolo napoletano, l’ordinarono a repubblica. La nazione più si armò per sostenere le patrie instituzioni; e solamente piccolo drappello difendeva la libertà. Combatterono per mire contrarie, gli uni sostenitori de’ diritti civili, gli altri delle proprie persuasioni che nei popoli sono diritti: errava una delle parti, ma in entrambe la causa era giusta, la guerra onorata.
I seguaci di libertà furono oppressi. Quanto e qual sangue fosse versato è noto al mondo.
Vennero i regni francesi. Le civili franchige, possibili a governo simile all’impero, furono dai Napoletani chieste, ottenute. Ebbero gloria in quei dieci anni le armi napoletane in Germania; in Russia, in Ispagna, in Italia.
Nel 1813 poco mancò che la Italia fosse unita, i destini impedirono l’unione, i Napoletani per arti ed armi l’avean tentata.
L’anno seguente, benchè alleati dell’Austria, estendevano in Italia impero italiano, spargevano semi d’indipendenza e di unione.
E l’anno appresso, con bandiera spiegata di libertà, esercito napoletano corse la Italia invitandola a rompere il giogo de’ forestieri, ed essere libera ed una. Temeraria impresa di un sol popolo; ragionevole e felice, se gli altri popoli sentivano la sete medesima di libertà. I Parmigiani, i Modenesi, i Toscani si unirono a’ Tedeschi, restarono cheti e servi dell’Austria gli altri popoli, la temerarià de’ Napoletani fu pagata col sangue.
Nella ristaurazione de’ vecchi governi, l’inno 1815, Napoli, sola della Italia, conservò codici, leggi, ordinanze francesi; non che l’antico re Ferdinando Borbone avesse rispetto al miglior governo dello stato, ma perchè temeva il disdegno del popolo.
Pure que’ codici non bastavano alla civiltà napoletana, e nel 1820 il popolo con ammirabile rivolgimento fece a sè stesso leggi migliori. Ingannato e tradito, non le difese; la sua caduta era inevitabile, gli fu colpa cader vilmente.
Del qual peccato pagò la pena, perchè a stato troppo libero successe tirannide; ma le tante morti, gl’infiniti martorii non bastarono ad assoggettarlo; egli è servo che freme, e fa tremare chi lo conculca.
Perciò in sei lustri centomila Napoletani perirono di varia morte. Tutti per causa di pubblica libertà o di amore d’Italia; e le altre italiche genti, oziose ed intere, serve a straniero impero, tacite o plaudenti, oltraggiano la miseria de’ vinti; nel quale dispregio, ingiusto e codardo, sta scolpita la durevole servitù. insino a tanto che braccio altrui, quasi a malgrado, le sollevi da quella bassezza. Infausto presagio che vorremmo fallace, ma discende dalle narrate istorie, e si farà manifesto agli avvenire; i quali ho fede che, imparando da’ vizii nostri le contrarie virtù, concederanno al popolo napoletano (misero ed operoso, irrequieto, ma di meglio) qualche sospiro di pietà e qualche lode: sterile mercede che i presenti gli negano
FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.