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298 LIBRO DECIMO — 1821.

comando per distruggere le libertà di nove mesi, e tornar vogliosi alle note e lunghe pratiche della servitù.

S’intesero condannati a morte, senza giudizio, per solo bando di polizia, i generali Rossaroll e Pepe, e promessa ricca mercede per lo arresto de più conti rivoluzionarii di Monteforte. Le quali condanne o proscrizioni rammentavano tempi ferocissimi. Si composero de’ più caldi partigiani della tirannide molte giunte, chiamate di scrutinio perchè destinate a scrutinare la vita di tutti gli uffiziali dello stato, e de’ più alti e più noti cittadini: giudizii e giudici spaventevoli.

E non vi era giorno che non si udisse la campana della giustizia ed il pubblico invito alle sacre preghiere, segni ed offici mesti e pietosi usati tra noi quando un misero è menato a morte per condanna; erano giudizii delle corti marziali per i portatori di alcun’arme, o i detentori di qualche segno di setta. In quel mezzo arrivò in città ministro di polizia il principe di Canosa, che volle al pubblico annunciarsi, prima che per editti o per fama, con spettacolo atroce, ormai scordato dal popolo, ignoto a’ più giovani, la frusta. A mezzo il giorno, nella popolosa via di Toledo, fu visto in militare ordinanza numeroso stuolo di soldati tedeschi, poi l’assistente del carnefice che ad intervalli dava fiato alla tromba, e poco indietro altri Tedeschi ed alcuni sgherri di polizia i quali accerchiavano un uomo, dalla cintura in basso coperto di ruvida tela, con piedi scalzi, dalla cintura in sopra nudo, con i polsi strettamente legati, portando in mano ed appesi al collo tutti i fregi settarii, ed in capo un berretto di tre colori, collo scritto a grandi note: Carbonaro. Quel misero, accavalcato sopra di un asino, aveva dietro il carnefice che ad ogni picchio di tromba con sferza di funi e chiodi gli flagellava le spalle; così che il sangue avea mutato colore alle carni, ed il volto, smorto e chino al petto, dimostrava il martirio. Seguiva plebe spietata, ma taciturna; gli onesti fuggivano, nascondendo per prudenza la pietà e l’orrore. Chi dimandò i particolari di quel supplicio udì che il flagellato era un settario gentiluomo di provincia (e gentiluomo appariva al volto e alla persona), che dopo la frusta penerebbe in galera quindici anni, non per giudizio di magistrato, ma per sentenza del ministro della polizia, principe di Canosa or ora giunto in città.

Ne’ seguenti giorni si videro altre due fruste, terribili come la prima, se non che mancavano i soldati d’Austria, non so se per ribrezzo o vergogna. Furono le ultime in città; ma in Salerno l’intendente Guarini, che volea somigliare al Canosa, fece frustare un sarto, per fama settario e liberale, attempato, padre di molti figli, reo questa volta di mancato rispetto all’intendente restando seduto a’ suoi lavori, mentre quel magistrato in abito di cerimonia e con pompa di sgherri e clienti gli passava dinanzi. Nella provincia di