Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VII/Capo II
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CAPO SECONDO.
Fatti di guerra e di brigantaggio, poi distrutto. La feudalità abolita. Sdegni nella regia famiglia.
XXV. Il re, dopo aver provveduto, a molte cose di governo si partì nuovamente per assistere allo sposalizio dell’imperatore de’ Francesi, che preparavasi con pompa eguale al suo genio altiero, non che al decoro della real donzella che toglieva per moglie, ed alle soperchianze grate a coloro che da private sorti pervengono alle altissime. Si celebrarono le imperiali nozze il 1°. di aprile del 1810 e furono (come il volgo suol dire) cometa maligna a Napoleone ed ai Napoleonici. Avvegnachè da quel giorno egli andando incontro ad uomini e cose che lo respingevano, non osando rivolgersi, non potendo fidare in cose ed uomini che aveva schernito, divenne dubbioso, sforzato e minore di sè stesso. II consolato a vita era necessaria transazione fra’ due secoli, cioè tra le persuasioni della moltitudine amante ancora di monarchia, e le persuasioni di non piccolo numero, avido di libertà, avidissimo di eguaglianza; era il legamento degl’interessi e delle speranze della vecchia civiltà con le speranze e gl’interessi della nuova. Quando il consolato cadde nell’impero, la grandezza del consolo, togliendo nome di re antico, dechinò; ma seco portando la perpetuità di quel governo e la stabilità degl interessi presenti, giovò e piacque: egli parve il re di nuovi uomini e delle nuove cose, e le pompe di maestà, apparenza sconvenevole a’ sensi de’ popoli non alla ragione.
Dal mutato nome venne il divorzio, dal divorzio il novello matrimonio. Il genio del secolo e la natura di quello impero volevano che il seme della novella stirpe fosse di donzella francese, ma poi che il trasse per sè e per altri Napoleonici dalle case regnanti di Alemagna, si avvilupparono fra le condizioni de’ vecchi re, ne divennero uguali per decadimento, inferiori nelle opinioni del mondo perchè a loro mancava il prestigio e la coscienza degli antichi, e solamente si alzavano sopra loro per forza d’ingegno che il tempo consuma, e per memoria delle passate fortune che il primo infortunio distrugge. Egli dunque, Napoleone, agguagliato agli altri re, diede agl’interessi della rivoluzione luogo e speranza nella legittimità; e se per lo innanzi aveva annodato all’impero i partigiani dei re nemici, oggi portava sè stesso e i suoi seguaci nelle parti contrarie. Quello errore di Bonaparte ha spento innanzi tempo la instituzione politica de’ re nuovi, ch’ esser poteva un periodo nella vita delle società.
XXVI. Non appena finite le cerimonie di Parigi, il re tornò in Napoli e scortamente palesò il disegno di assaltar la Sicilia. La fama disse, ed è credibile, che l’altiera regina di quell’isola, sdegnata del dominio inglese, rianimando le speranze al trono di Napoli da che l’imperator dei Francesi aveva tolta per moglie una sua nipote, trattar facesse con Bonaparte secreti accordi, e concludesse: scacciar da Sicilia gl’Inglesi con le proprie milizie, non aver soccorso da’ Francesi se non chiesto da lei; ricuperare il regno di Napoli e governarlo alleato e dipendente della Francia con le leggi francesi. 1l qual disegno più che trattato, non pubblico, non scritto, piaceva alla fiera donna come speranza meno di regno che di vendetta, e giovava allo scaltro imperatore come guerra agl’Inglesi, ed occasione a lui di conquistare quell’ isola. Ma era difficile l’adempimento, dovendo ignorare lo scopo della impresa i medesimi che la operavano, il re di Sicilia, il re di Napoli e i due eserciti e i due popoli; ed avendo in animo, la regina e imperatore, di schernirsi l’un l’altro dopo il successo. Era un artifizio d’inganni, più atto alle civili discordie che a politici mutamenti.
Frattanto Gioacchino sempre pronto alla guerra, abbagliato e spinto da Bonaparte, si preparava all’impresa, quando un vascello raso inglese di cinquanta cannoni venne a navigare nel golfo di Napoli, ond’egli comandò che una sua flottiglia, composta di una fregata, una corbetta, un brick, un cutter e sei cannoniere lo assalissero. Non evitando quel vascello lo scontro, i moltissimi spettatori della città tenevano certa la vittoria; ma nel cominciare del combattimento il comandante napoletano perdè un braccio, il sotto capo ed altri uffiziali della fregata morirono, mancò l’arte ed il vento, tutti i nostri legni furono danneggiati, il brick affondato. Si fece segno di ritirata, e tornando in porto, si numerarono cinquanta morti, centodieci feriti. Quella sventura diede a Gioacchino stimolo e desiderio di vendetta in Sicilia, e però accelerati i preparamenti e preso il nome di luogotenente dell’imperatore, pose a campo nella estrema Calabria, su la riva del Faro, tra Scilla e Reggio, un esercito più francese che napoletano, aspettando, come l’imperatore avea prescritto, di condurlo in Sicilia; ma non muovere se non lo assentisse il generale Grenier, che Bonaparte aveva eletto comandante delle schiere francesi, con ordine in secreto (ciò fu sospettato) di non assaltare l’isola se non a dimanda di quella regina, o quando ei sapesse che combattevano tra loro soldati inglesi e siciliani, sì che il successo dei Francesi fosse certo.
Erano sedici migliaja i soldati di Gioacchino, e trecento i legni da guerra e trasporto. Sul colle chiamato del Piale, poco distante dal mare, fu alzata in mezzo al campo la magnifica tenda del re, e vi attendevano intorno i capi dell’esercito e della corte, i ministri, alcuni consiglieri di stato ed altri personaggi, impiegati alle cure presenti del regno, e riserbati alle future della Sicilia. Incontro a quelle schiere, su le rive del Faro da Messina alla Torre, aveva messo il campo l’esercito inglese, dodicimila soldati, e sopra i monti accampava in seconda linea l’esercito di Sicilia diecimila altri uomini; stavano nel porto di Messina, ancorati o mobili, vascelli, fregate, legni minori da guerra, mentre si affaticavano a fortificare la minacciata marina grande numero di soldati e di operai. Per adunare oste sì grande in quei luoghi gl’Inglesi sguarnirono le piccole isole (fuorchè Santa Maura) intorno a Corfù, e di parecchie navi slargarono la crociera, sì che quella città e le altre isole Ionie, guardate da Francesi ed oramai ridotte ad estrema penuria, furono abbondevolmente provvedute.
Nel giorno, nella notte, da Reggio a Scilla, da Torre di Faro a Messina, in mare, in terra era guerra continua, ma più a sdegno che ad effetto; le navi inglesi venivano a combattere le napoletane fin dentro alle cale del lito di Calabria; e poichè da questa parte era poco forte l’armata, andavano incontro su piccole barche velocemente remando i nostri soldati, all’arrembaggio, modo feroce in quella guerra, perchè pieno di danni e di morti senza scopo o benefizio. Nel campo di Gioacchino spesso disponevansi navi e soldati, che simulando il tragitto, apportavano al campo inglese ansietà e travagli. E molte volte sarebbesi passato dal finto al vero se gl’impeti di Murat non ratteneva Grenier, che non potendo palesare il segreto, lo copriva con la impossibilità della impresa, mentre Gioacchino ne dimostrava l’agevolezza; e sì che ne capi dell’esercito e dell’armata, divise le sentenze, voltarono in discordie le opinioni.
Cosi andarono le cose per cento giorni, e già passato il mezzo del settembre, gli equinozii agitando furiosamente il mare, bisognava a Gioacchino abbandonar con quei lidi la speranza della conquista. Ma volendo dar pruova che lo sbarco in Sicilia non era impossibile, preparate nella cala di Pentimele tante navi quante bastavano a mille seicento Napoletani, comandò che approdassero alla Scaletta i soldati, e per la via di Santo Stefano si mostrassero a tergo di Messina, promettendo che il resto dell’esercito e dell’armata assalirebbe tra Messina e la Torre. Il muovere dei Francesi da Grenier fu pedito; i Napoletani discesero al disegnato luogo, ma pochi e soli, contro schiere dieci volte maggiori combattendo, metà ritornò in Calabria, restarono gli altri prigioni. Gioacchino esaltò quel fatti; e pochi giorni appresso, levato il campo, partì, ed imbarcatosi al Pizzo tra popolari allegrezze (inganni della fortuna per ciò che nel suo fato stava scritto) fece in Napoli ritorno. Quella impresa, o direi meglio simulazione, oltre alle morti, alle ferite, alle prigionie, a’ guasti della guerra, costò gravi somme alla finanza napoletana, e fu incentivo a confiscare molte barche di America venute in Napoli con promessa di sicuro e libero commercio. Minori morti, ma danni e spese quasi eguali tollerò la Sicilia; e fu allora che la regina Carolina palesò più apertamente il suo sdegno contro gl’Inglesi, e si sparsero nuovi semi di nemicizia che nel seguente anno fruttarono tristezze alla siciliana corte e cangiamento politico a que’ popoli.
XXVII. Mentre il re stava in Calabria con molta parte dell’esercito, quelle stesse province e le altre del regno erano sempre mai travagliate dal brigantaggio; le provvigioni di guerra predate sul cammino, i soldati assaliti ed uccisi per fino intorno al campo. Un giorno nelle pianure di Palme il re incontrandosi ad uomo che i gendarmi menavano legato, dimandò chi fosse, e prima di ogni altro parlò il prigione e disse: «Maestà, sono un brigante, ma degno di perdono, perchè jeri mentre vostra maestà saliva i monti di Scilla ed io stava nascosto dietro un macigno poteva ucciderla; n’ebbi il pensiero, preparai le armi, e poi l’aspetto grande e regio mi trattenne. Ma se io jeri uccideva il re, oggi non sarei preso e vicino a morte.» Il re gli fece grazia, il brigante baciò il ginocchio del cavallo, partì libero e lieto, e da quel giorno visse onestamente nella sua patria.
Gioacchino, poi che vide possibile ogni delitto a’ briganti, fece legge che un generale avesse potere supremo nelle Calabrie su di ogni cosa militare o civile per la distruzione del brigantaggio. Il generale Manhes, a ciò eletto, passò il seguente ottobre in apparecchi, aspettando che le campagne s’impoverissero di frutta e foglie, ajuti a briganti per alimentarsi e nascondersi; e dipoi palesò i suoi disegni. Pubblicate in ogni comune le liste de banditi, imporre a’ cittadini di ucciderli o imprigionarli; armare e muovere tutti gli uomini atti alle armi; punire di morte ogni corrispondenza co’ briganti, non perdonata tra moglie e marito, tra madre e figlio; armare gli stessi pacifici genitori contro i figli briganti, i fratelli contro i fratelli, trasportare le gregge in certi guardati luoghi; impedire i lavori della campagna, o permetterli col divieto di portar cibo; stanziare gendarmi e soldati ne’ paesi, non a perseguire i briganti, a vigilare severamente sopra i cittadini. Nelle vaste Calabrie, da Rotonda a Reggio, cominciò simultanea ed universale la caccia al brigantaggio.
Erano quelle ordinanze tanto severe che parevano dettate a spavento; ma indi a poco per fatti, o visti o divolgati dalla fama e dal generale istesso, la incredulità disparve. Undici della città di Stilo, donne e fanciulli (poichè i giovani robusti stavano in armi perseguitando i briganti) recandosi per raccorre ulivi ad un podere lontano, portavano, ciascuno in tasca, poco pane, onde mangiare a mezzo del giorno e ristorare le forze alla falica. Incontrati da’ vigilatori gendarmi de’ quali era capo il tenente Gambacorta (ne serbi il nome la istoria), furono trattenuti, ricercati sulla persona, e poichè provvisti di quel poco cibo, nel luogo istesso, tutti gli undici uccisi. Non riferirò ciò che di miserevole disse e fece una delle prese donne per la speranza, che tornò vana, di salvare non sè stessa, ma un figliuolo di dodici anni.
In un bosco, presso a Cosenza, fu sorpreso uomo canuto per veechiezza, che ad altro uomo, giovine a vedersi, magro per fame ed armato, dava poco vitto; era questo un brigante fuggitivo, e quegli il padre. Arrestati entrambo e dannati a morte, furono giustiziati nella piazza di Cosenza; e per dare alla pietà del vecchio il maggiore supplizio, si fece morir secondo, ed assistente alla morte del figlio.
Nel bosco di San Biase nacque di donna, che fuggiva col marito brigante, un bambino; e perchè intoppo al fuggire, e con gl’innocenti vagiti denunziatore del luogo che nascondeva i genitori, la madre portatolo di notte nella città di Nicastro, destò un’amica, le consegnò piangendo il figliuolo, e tornò al bosco. Ne’ dì seguenti saputo il fatto, il generale Manhes prese del bambino provvida cura, ma la pietosa nutrice fu per castigo uccisa. E qui mi arresto, chè l’animo non basta a narrare altri fatti i quali certificarono delle orribili minacce del generale essere l’adempimento certo, inflessibile, maggiore.
XXVIII. Lo spavento in tutti gli ordini del popolo fu grande, e tale che sembravano sciolti i legami più teneri di natura, più stretti di società; parenti e amici dagli amici e parenti denunziati, perseguiti, uccisi; gli uomini ridotti come nel tremuoto, nel naufragio, nella peste, solleciti di sè medesimi, non curanti del resto dell’umanità. Per le quali opere ed esempii viepiù cadendo i costumi del popolo, le susseguenti ribellioni, le sventure pubbliche, le tirannidi derivarono in gran parte dal come nel regno surse, crebbe e fu spento il brigantaggio. Questa ultima violenza non fu durevole: tutti i Calabresi perseguitati o persecutori agirono disperatamente; e poichè i briganti erano degli altri di gran lunga minori, e spicciolati, traditi, sostenitori d’iniqua causa, furono oppressi. Sì che di tremila, che al cominciare di novembre le liste del bando nominavano, nè manco uno solo se ne leggeva al finire dell’anno; molti combattendo uccisi, altri morti per tormenti, ed altri di stento, alcuni rifuggiti in Sicilia, e pochi, fra tante vicissitudini di fortuna, rimasti ma chiusi in carcere.
Fra mille casi di morte molti ne furono e strani e grandi; ma due soli ne scelgo più atti a rappresentare l’indole del brigantaggio, e più degni per la maraviglia di racconto.
Benincasa capo di briganti, da’ suoi tradito, legato, mentre dormiva nel bosco di Cassano, fu menato in Cosenza, e ’l general Manhes comandò che gli si mozzassero ambe le mani, e, così monco, portato in San Giovanni in Fiore sua patria, fosse appeso alle forche; crudel sentenza che quel tristo intese sogghignando di sdegno. Gli fu prima recisa la destra, ed il moncone fasciato non per salute o pietà, ma perchè non tutto il sangue uscisse dalle troncate vene, essendo riserbato a più misera morte. Non diè lamento, e poi che vide compiuto il primo uffizio, adattò volontario il braccio sinistro su infame palco, e mirò freddamente il secondo martirio, e i due già suoi troncati membri lordi sul terreno, e poi legati assieme per le dita maggiori, appesigli sul petto. Spettacolo fiero e miserando. Ciò fu a Cosenza. Nel giorno istesso impreso a piede il cammino per San Giovanni in Fiore, le scorte tra via riposarono; e di esse una offrì cibo a quel sofferente, che accettò, ed imboccato mangiò e bevve, nè solo per istinto di vita ma con diletto. Giunse in patria, e nella succedente notte dormì: al di seguente, vicina lora del finale supplizio, ricusò a conforti di religione; salì alle forche non frettoloso nè lento, e per la brutale inlrepidezza morì ammirato.
Parafanti, altro capo di briganti, aveva di età oltre quarant’anni, ed era d’animo audace, d’indole atroce, di forme e forza gigante. Giovine appena, omicida e bandito, commise, per necessità di vita e difesa, altri furti e assassinii; ma nei rivolgimenti del 1806 singraziò ai Borboni abbracciando la loro parte, e per quattro anni guerreggiando con fortuna varia, più spesso felice. Nelle persecuzioni del gonerale Manhes, travagliato in ogni luogo, chiusagli la ritirata in Sicilia, circoscritto nel bosco di Nicastro, chi della banda morì combattendo, chi timido si diede al nemico; cinque soli restarongli seguaci ed una donna, moglie o compagna. Caduti nel bosco istesso in altri agguati, quattro morirono, uno fu preso, egli e la donna fuggendo salvaronsi. Ma numerosa schiera glinsegue, la donna cade uccisa al suo fianco, Parafanti è solo e resiste.
Colpo di fuoco gl’infrange losso di una gamba, e fu la prima percossa in tutti i suoi cimenti di bandito e brigante: non cade, ma non regge in piedi, appoggia l’infermo lato ad un albore e combatte. L’altissima e mala fama del suo coraggio tiene lontani gli assalitori, ma poi l’uno di questi, non più animoso ma industre, coprendosi delle folte piante del bosco, inosservato gli si avvicina, e gli dirige altro colpo che gli apre il petto. Cade Parafanti supino, cadono altrove abbandonate le armi: il feritore lo crede estinto, ed avido di preda corre sopra di lui, si china al corpo e ’l ricerca, Ma quegli era moribondo non morto, ed aveva ancor sane le robustissime braccia; afferra quindi il suo nemico e a sè lo tira; col sinistro braccio lo cinge e lo tiene, arma la destra di pugnale che ancora nascondeva tra le vesti, gliel punta ai reni, preme, il trapassa, incontra il proprio petto e il trafigge. Così per una morte trapassarono insieme le due anime avverse, nella mente degli uomini abbracciate in amplesso infame e terribile.
XXIX. I fatti della Calabria raccontati ed esagerati dalla fama agevolarono l’opera nelle altre province al general Manhes, ch’ebbe carico di esterminare il brigantaggio in tutto il regno. Ed in breve lo esterminò, e quella forse fu la prima volta nella vita del sempre inquieto e diviso popolo napoletano, che non briganti, non partigiani, non ladri infestassero le pubbliche strade e le campagne. La corte di Sicilia e gl’Inglesi, mancata materia agli incendii civili, più non lanciavano sopra noi le consuete fiaccole della discordia; la polizia potè abbandonare le pratiche severe ed arbitrarie; la giustizia vendicando le sue ragioni sciolse le commissioni militari, rivocò le squadre mobili, tolse a’ comandanti militari delle province ogni facoltà su le civili amministrazioni; le intraprese della industria rinvigorirono; e rianimato il commercio interno, i mercati e le fiere, per lo innanzi deserte, ripopolarono; il regno prese l’aspetto della civiltà e della sicurezza pubblica. Quindi le benefiche instituzioni dei due nuovi regni, sino allora per i disordini del brigantaggio ed i rigori della polizia ignote al popolo e dispregiate, furono palesi e gradite.
La quale immagine di felicità pubblica, nuova e inspirata generò lodi altissime al generale ed al governo. Ma dipoi satollo del bene, e come usa il popolo per leggerezza ed ingratitudine, andava rammentando le crudeltà delle Calabrie, ai fatti veri aggiungendo i falsi, inventati da maligno ingegno, creduti dalla moltitudine, registrati per fino nei libri che dicevano d’istoria. Perciò doppia, buona e pessima, è la fama del generale Manhes; ed io fra le opposte sentenze dirò la mia. Egli inumano, violento, ambizioso, corrotto dalla fortuna e dalle carezze del re, tenendo come principii di governo gli eccessi delle rivoluzioni, ma sommamente retto, operoso, infaticabile, tenace del proponimento, riguardava la morte dei briganti come giusta, e le crudeltà come forme al morire, che, poco aggiungendo al supplizio, giovano molto all’esempio. Credeva necessaria l’asprezza delle sue ordinanze, e poichè pubblicate, legittimo l’adempimento. La sua opera quale fosse per lo avvenire l’ho detto altrove, considerando i mali e i pericoli che derivano dallo sciogliere i legami di natura e di società, ma fu di presente utilissima. Il brigantaggio nel 1810 teneva il regno in foco, distruggitore d’uomini e di cose cittadine; senza fine politico, alimentato di vendette, di sdegni, o, più turpemente, d’invidia del nostro bene, e di furore. E perciò raccogliendo in breve le cose dette, il brigantaggio era enormità, ed il general Manhes fu istromento d’inflessibile giustizia, incapace, come sono i flagelli, di limite o di misura.
XXX. Ed altro benefizio universale men pronto ma più grande si spedì nello stesso anno 1810, atterrando alfine la tante volte vanamente scossa feudalità, nè solo per leggi, ma per possessi; avendo diviso le terre feudali tra le comunità e i baroni, e dipoi le comunali fra i cittadini. Le quali cose aggiunte agli aboliti privilegi operarono che di quella macchina immensa non rimanesse alcun vestigio nel regno. Onde il deseriverla, quanto saprò brevemente, dalle origini al fine, sarà pregio della mia fatica; per que’ tempi (se tanto viveranno queste pagine) che divenuta antica l’età nostra, la feudalità sarà più lontana dalla memoria e dal pensare degli uomini.
Il principio di lei suol trarsi dalle invasioni dei popoli barbari negli stati civili di Europa; ma ella più vetusta discende dalla guerra, dalla conquista e dal mantenimento delle regioni e genti conquistate. Sino a che le guerre si movevano per nemicizia tra popoli o temporanea rapina, il vincitore uccideva, predava, distruggeva e tornava alle sue terre: ma quando delle guerre fu obbietto la durevole conquista, l’esercito fortunato, dopo le prime licenze (per soggettare i servi e tirar guadagno dal paese vinto) dettava forme di obbedienza e di società, indi leggi ed ordini, magistrati e regole, premii e doni a’ commilitoni, e, con altri nomi, feudi e baroni. Ma le costituzioni di quei governi variavano come la politica dei conquistatori e la civiltà dei conquistati; perciocchè tra gli affatto barbari non potendo la conquista essere durevole, la feudalità vi è impossibile, e su popoli civili e virtuosi lo stato di conquista non dura, la feudalità vi è passeggiera: ella solamente alligna nella mezzana civiltà sopra popoli corrotti ed infingardi. E poichè varie le origini, pur varie e molte sono state in Europa le specie di feudalità; ma io tolgo a trattare di quella sola che afflsse il regno di Napoli del quale scrivo le istorie.
XXXI. Al decadere di Roma, al doppio passaggio per la Italia di Alarico re de’ Goti, alle incursioni ed a’ saccheggi di Attila e Genserico, tra miserie e vicissitudini di guerre barbare ed intestine, ogni città soggiacque a mille varietà di sorte e di caso; differente il modo di governarsi, differenti le amministrazioni, le magistrature, le milizie, differente la civiltà di ogni popolo. Così era l’Italia al V secolo quando spuntarono i primi germi della seconda feudalità, ed io chiamo seconda quella che venne compagna delle conquiste gotiche e longobarde, avendo or ora adombrata la prima. Se dunque diversa nel regno la civiltà de’ popoli, variamente la feudalità vi si apprese, e non fa maraviglia che fosse più acerba nelle Puglie, e delle Puglie negli stati d’Otranto.
La politica degl’invasori serbar doveva i caratteri della invasione, guerra, forza, preda, indipendenza, il più forte o il più fortunato più prendere di terra e d’uomini, e meno ubbidire al capo condottiero del popolo conquistatore; ma se dipoi il debole diveniva forte, se il già forte addebolivasi, scambiar le sorti, ed il primo togliere al secondo signoria e vita. Il quale brigantaggio feudale non poteva esercitarsi senza milizia, o la milizia sussistere senza tributi; e perciò il popolo diviso in soldati e vassalli, gli ordinamenti di società solamente militari e finanzieri, i capi delle tribù capitani e magistrati, non leggi stabili, non ordini certi, non sicurezza di persona o di proprietà, ma continue guerre, continue depredazioni, instabilità di ogni cosa. Questa guerra tra’ signori dominò il regno dal V al VII secolo.
Nell’VIII, IX e X molti avvenimenti mutarono l’aspetto della feudalità. Nel ducato di Benevento forte per dominii, afforzato delle leggi del saggio Rotari re longobardo, erano i regoli minori soggetti e mansueti, e sebbene il ducato fosse feudalità, la era gigante ed aveva le apparenze di stato; cosicchè i popoli soffrivano le gravezze, ma non i danni e gli sconvolgimenti delle discordie. Questo benchè duro riposo fu breve, da poi che gli successero le guerre, per le quali diviso il ducato, surti dalle sue spoglie i ducati di Salerno e di Capua, fondate da’ conti (sino allora soldati del duca) contee stabili ed ereditarie, una gran feudalità in cento piccole si divise. E tale di questa pianta è la natura che il minore de’ tralci è più velenoso del tronco.
Avvennero in quel tempo stesso le invasioni de’ Saraceni, e furono materia abbondante al brigantaggio ad alla feudalità; si murarono allora le terre, e mille rocche e castelli si fondarono, onde le guerre più lunghe, i regoli più forti, la condizione de’ popoli più miserevole.
Al cominciare dell’XI secolo le prime scorrerie normanne ne’ paesi di Napoli e di Sicilia arrecarono la feudalità più matura ed ordinata, e portando seco leggi feudali francesi, fu meno agitata, più potente. Così restarono le cose fino all’anno 1139, allorchè il primo Ruggero fondò il regno di Sicilia e di Napoli. Dal quale punto delineerò la feudalità per case regnanti, o per quei mirabili avvenimenti che mutano delle sociali instituzioni l’indole o l’aspetto.
XXXII. Ruggero fu il maggior barone del regno, che tale in quel tempo era l’idea di dominio che non poteva scompagnarsi dalla idea di feudalità; ma le condizioni de’ popoli migliorarono per ciò che ho detto parlando del ducato di Benevento, e perchè i ministri del re nelle province impedivano le soperchianze de’ minori regoli. E di più, le gravezze feudali acquistando con l’uso e per la pazienza de’ sudditi la natura di stato civile, apparivano alla moltitudine legittime e comportabili. Si contentarono i nostri maggiori degli ordini fondati da Ruggero e da’ due Guglielmi come che fossero feudali e violenti. Giovarono ai popoli d’allora quelle forme governative, dalle quali la filosofia moderna rifugge.
Della stirpe sveva il primo Federigo ed Arrigo combatterono le civili istituzioni anzi che promuoverle. Federigo il secondo abbassò in doppio modo la feudalità, dettando contro lei provvide leggi, e migliorando la civiltà de’ popoli; che furono leggi di quel re l’abolizione di qualunque opera verso i baroni che offendesse ne’ sudditi la libertà personale, il bando che ad ogni Napoletano concedeva la giustizia comune e la piena libertà di richiamarsi al monarca delle baronali tirannidi, il divieto a’ baroni d’imporre nuove taglie, il disfacimento delle mura e torri baronali, ed altre provvidenze che leggonsi nelle costituzioni di quel monarca. Furono opere di lui le amministrazioni del municipio libere a’ comuni, la convocazione de’ rappresentanti di ogni comunità per negozii di pubblico interesse, l’ordinamento della giustizia e de’ magistrati, la visita da suoi ministri delle province a fin di conoscere del popolo i bisogni e i lamenti, l’obbligo dei tributi a’ baroni laici o ecclesiastici, l’abolizione de’ privilegi sino allora profusamente concessi alle terre e persone della chiesa. A questo re, miracolo de tempi suoi, successe brevemente Corrado e poi Manfredi re ultimo della casa sveva; e Manfredi sosteneva le leggi del padre con lo stesso cuore, ma con minor fortuna, trovandosi assai più travagliato da’ papi e dai soggetti. Ma i benefizii che ho adombrato della famiglia sveva, generati nella mente del riformatore, immaturi al popolo, immaturi al tempo, e non bastando a Federico la vita per convertire i suoi pensamenti ad uso e coscienza di tutti, caddero con la sua progenie.
Carlo I d’Angiò venuto al trono delle Sicilie per invito e ajuti del papa Clemente IV, guerreggiando contro l’esercito di Manfredi, parteggiando fra i baroni del regno, in ogni sua qualità trovò motivo a rinvigorire le feudali instituzioni: egli, Francese, portava gli usi di Francia; vassallo della chiesa, rendeva ed ingrandiva i privilegi ecclesiastici dalla casa sveva rivocati o ristretti; guerriero e vincitore, era prodigo di centosessanta città a’ commilitoni e di altri doni feudali, conformi alla conquista ed a’ tempi; partigiano, ristabiliva i baroni della sua parte al seggio donde erano discesi per le leggi dì Federico e di Manfredi; ed Angioino, pregiava e seguiva regole di governo contrarie a quelle del nemico svevo. Ritornava la feudalità più che non mai fortunata e superba. Eppure di questo re e di altri re angioini la storia rammenta alcuni atti moderatori di certi eccessi feudali, ma che più dimostrano lo sdegno per alcune enormità che il proponimento di toglierne le cagioni o giovare a’ popoli. Così governò la stirpe angioina sino alla prima Giovanna; e poi costei e la seconda dello stesso nome ed il re Ladislao, tra lascivie e bisogni che ne derivano, venderono quasi tutto il demanio regio, diedero titoli di duca e principe riserbati sino allora a’ regali, concederono profusamente titoli minori, terre e privilegi; infeudarono, quasi direi, tutto il regno. Fra le concessioni più gravi alla sovranità e più dannose a’ soggetti fu quella che si disse del mero e misto imperio, cioè la giurisdizione a’ baroni su la giustizia criminale e civile.
Ma era serbato alla vergogna di Alfonso I di Aragona fecondare ed ingrandire questo mero e misto imperio, ossia prosternare la monarchia in quel tempo stesso che per la provvidenza di altri principi si rinforzava in Francia ed Alemagna. Dipoi le congiure de’ baroni contro Ferdinando I sdegnarono questo re, e furono cagione ad alcune leggi, che, avendo per concetto l’ira verso i signori non la carità per i popoli, rimasero ineseguite e spregiate. Della feudalità nel reame di Napoli l’età più altiera fu quella de’ regnanti aragonesi.
XXXIII. Non parlerò della momentanea comparsa di Carlo VIII, nè delle leggi non osservate che dettò Carlo V al suo passaggio di Napoli per Africa, commosso dalla miseria e dalle lamentanze delle nostre genti: dirò le miserie de’ governi vicereali cominciati ne primi anni del XVI secolo. Natura di quei governi fu la cupidigia fiscale, e suo mezzo primario la feudalità. Il parlamento dello stato, che da’ tempi di Alfonso di Aragona era composto di baroni, fissava nel viceregno i donativi alla corona pagabili da’ comuni; diminuiva l’adoa, tributo feudale, compensandone il fisco a più doppii sopra i vassalli; e molte altre eravezze immaginava, sotto nome di alloggi militari, di fortificazioni di marina, sopra le taglie ordinarie feudali o del fisco. Fu in breve tempo sì misera la sorte de’ vassalli che dimandarono in grazia di riscattarsi delle servitù baronali patteggiandone il prezzo co’ baroni, e dopo il riscatto far parte del demanio regio e pagare al fisco i tributi comuni: concessione di Carlo V non osservata allora ch’era benignità, confermata dipoi e seguita perchè trasformata in avarizia ed inganno.
A prezzo esorbitante, facendo prodigiosi sforzi, le comunità si ricomperavano; cd indi a poco (incredibile a dire) il governo regio le rivendeva, con le servitù di feudo, agli stessi o a nuovi baroni; sì che vedendone delle riscattate e vendute tre o quattro volte, niun’altra comunità dimandava il riscatto. E poichè giovava al governo accrescere senza sua spesa o danno il demanio regio, pattuiva (confessando obbrobriosamente le usate fraudi) che se mai riconcedesse in feudo, a prezzo o a dono, le comunità riscattate, resterebbero esse sciolte da ogni obbedienza verso il re, da ogni servitù verso il barone: scusava e legittimava la ribellione.
Altra vena di ricchezza fiscale fu il vendere titoli o privilegi, altra il transigere a prezzo la pena de’ misfatti; e perciò si leggono di quel tempo delitti orribili ed impuniti. Sotto il vicerè duca d’Arcos, il barone di Nardò, essendo in lite col capitolo del suo feudo, fece in un giorno troncare le teste a ventiquattro canonici che lo componevano, e tutte le espose in dì festivo, ad argomento di potenza e di vendetta, sopra i seggi sacerdotali della chiesa; nè fu castigato perchè si riscattò della pena. Non vi ha città o terra già baronale che non serbi memoria di fatti atroci, nè palagio o castello che non abbia i segni delle esercitate crudeltà.
E così i baroni (essendo Napoli governato per ministri di re lontani) non più de’ troni o sostegni o nemici, e smisuratamente cresciuti di numero e mescolati ad uomini sozzi innalzati per comprate onorificenze, ed avari, crudeli, ingiusti sopra le genti soggette, davano della feudalità idea spaventosa, ma bassa. E perciò, finito nel 1734 il vicereale governo, la stirpe de’ Borboni trovò piano il cammino alle riforme.
XXXIV. Ed era riformatore il secolo, riformatore ogni principe. La monarchia nei regni di Francia, di Spagna, della Germania rinvigoriva dal reprimere i baroni, e, sgravando il popolo di gran parte di pesi e delle servitù feudali, renderlo amante e sostenitore di un potere unico e supremo; l’esempio fu imitato da Carlo, primo re tra noi della stirpe borbonica. Si aggiungeva che i baroni nelle province, ricchi ma spregiati, dimentichi o non curati delle armi, molti ma piccoli e la più parte surti da plebe per favore de’ passati re o della fortuna, avidi perciò di fasto, vennero alla città volontarii o richiesti a sperar gli onori della nuova corte. Carlo li accolse, e avvincendoli delle vote ma tenacissime catene della boria e del lusso, li rese di emuli, servi; e di potenti a resistere, impotentissimi. E dopo ciò pubblicate parecchie leggi a danno della feudalità, e repressi non pochi abusi, dichiarò che per lunghezza di tempo non si acquista diritto sopra i popoli, e che le ingiustizie de’ prepotenti non si legittimano da prescrizione. Così palesava il proponimento di abbattere la feudalità. Su le tracce istesse più rapidamente camminò a’ primi anni del suo regno, il successore di Carlo, Ferdinando IV. E poi che fu vista la tendenza del governo, e che la filosofia e la ragione potevano mostrarsi a viso aperto; molti scritti erudivano i governanti, atterrivano i feudatarii, sollevavano i popoli, creavano quella universale opinione che dee precedere alle riforme, e qui cito ad onore le opere del Filangieri, del Galanti, del Signorelli, del Delfico. Preso animo, le popolazioni richiamandosi di molte gravezze baronali, il re prescrisse che i magistrati ne giudicassero; e questi, come voleva giustizia e genio di tempo, diedero sentenze favorevoli alle comunità litiganti, esempio alle altre ed incitamento a nuove liti. Fra quali provvedimenti furono i pedaggi aboliti; il decreto che i feudi devoluti al fisco non mai più si dessero a vendita o dono con le condizioni feudali; il mero e misto imperio ristretto; la divisione delle terre soggette a servitù d’uso, Ma il governo non aveva in quel tempo nè mente, nè animo, nè potenza per abbattere sino al piede quel superbo edifizio; e però inchinando quando a’ bisogni, quando al favore, rivendeva le terre, non più invero con le qualità di feudo, ma con diritti tali a’ compratori, e tali servitù de’ popoli che la feudalità vi stava impressa; la stessa giurisdizione fu talvolta ne’ contratti novelli concessa o patteggiata, Ed indi a poco per le rivoluzioni di Francia sopraggiunto il sospetto, parve pericolo abbassare i nobili, rialzare il popolo; incolpando a quella istessa filosofia che percoteva la feudalità, la caduta de’ troni. Si arrestarono quindi le operazioni del governo, e la macchina feudale fu vicino a ricomporsi.
XXXV. Innanzi di rammentare i provvedimenti di Giuseppe, e narrar quelli di Gioacchino, tre gravi obbietti trattengono ancora un poco sulla considerazione del passato me ed il lettore. Qual fu la nobiltà tra le vicende de’ feudi? E quale il popolo? Che rimaneva delle cose feudali nel 1806?
La nobiltà naturale e più antica viene dall’armi e dal consiglio; chè gran titolo alla chiarezza ed al rispetto pubblico debb’essere lo spender la vita in difesa della patria, o mantenerne la grandezza col senno e con le opere della mente. La società corrotta aggiunse altre origini alla nobiltà; ma se dopo le armi e le magistrature si cercavano titoli alla distinzione, si trovavano meritamente negli scienziati ed artisti, che intanto rimasero, benchè notissimi, ignobili. Perciò nobiltà vera fu ne’ primi feudi, e vi si mantenne sino a tanto che feudatario e guerriero fu il nome istesso; ed erano militari le investiture; militari i doveri de’ baroni: e decadevasi da’ conceduti privilegi rifiutando il combattere; non decadevasi, benchè nemico del re, ma nemico armato; la cordardia era più schifata della nemicizia. E però nel regno di Napoli (senza parlar de’ tempi anteriori a’ Normanni) furono case nobilissime per le armi sino ai regni degli Aragonesi.
Derivando dalle armi la nobiltà ed il feudo, e dal feudo i titoli, si confusero i nomi, e a tal si giunse che titolo e feudo senz’armi fu creduta nobiltà. Onde al tempo della prodiga razza Angioina, donati o a vilissimo prezzo venduti i titoli e i feudi, uomini abbietti ma ricchi salirono ai più alti seggi della nobiltà titolare; e peggio sotto gli avari governi vicereali; quando a poca ed incolta terra del demanio regio apponevasi titolo di baronia o più magnifico, e si concedeva all’offerente di maggior prezzo. Perciò la nuova stirpe borbonica trovò titoli moltissimi, che poscia i re Carlo e Ferdinando accrebbero per nuovi favori; così che nel 1806 la nobiltà napoletana consisteva in una moltitudine di titoli, senz’armi o potenza: nudo ed inutile nome.
XXXVI. Il popolo, a considerarlo oppresso dai feudatarii, si direbbe che aveva interessi contrarii agli oppressori, e che il meglio degli uni fosse il peggio degli altri. Ma così non era nel fatto; dappoichè sotto baroni potenti e guerrieri molti soggetti dedicavansi alla fortuna del capo, combattevano, soggiacevano a’ casi varii di guerra e di parte, avevano moti, opere, speranze, nelle quali vicissitudini risiede il sentimento e ’l diletto del viver politico. Ma quando la feudalità, non più guerriera, divenne incurante di parti e di milizia, il popolo non sentiva di lei fuorchè il peso e la superbia. E perciò a’ tempi del viceregno, col cadere dell’alta feudalità, il popolo decadeva.
Questa che ho detto era la condizione di ogni popolo in ogni feudo; ma il popolo unito di tutti i feudi, ossia lo stato, serbava qualità proprie a sè. Ne’ tempi della feudalità guerriera, baroni e popoli combattenti fra loro, non avevano interesse comune, non leggi universali, non conformità di azioni, non forza pubblica, non nazione; tutti i mezzi mancavano al progresso della civiltà e della indipendenza. Ed a’ tempi della feudalità corrotta, i vassalli oppressi da’ baroni, i baroni dal re, surso il brigantaggio armato; specie di conforto e di libertà nella universale abbiezione di genti che sentono de’ mali il peso ed il fastidio, ma divise per vizii o per abitudini non sanno prorompere in generose rivoluzioni. E così, ora più ora meno disordinato, sccondo il variare de’ tempi, restò il popolo sino all’anno 1806.
XXXVII. Nel qual tempo molto ancora restava di feudalità. I diritti (sia permesso anche a me invilir questa voce, che per molto uso è meglio intesa), i diritti feudali su le persone si mantenevano apertamente in alcuni feudi, ed in altri furono mutati a pagamento; parecchie angarie o perangarie, come il lavoro di contadini nelle terre baronali, l’officio di corriere, altri servigi domestici, duravano in molte comunità. I diritti su le cose erano esorbitante; le terre; le industrie, i boschi, i fiumi, le acque per fino le piovane, ogni prodotto, ogni entrata; gravate di taglie o prestazioni. Fra gli uni diritti e gli altri, su le persone e su le cose, l’onoratissimo magistrato Davide Winspeare, in un’opera meritamente laudata, ne enumera 1395 esistenti all’arrivo di Giuseppe nel 1806.
Oltracciò i baroni impedivano o restringevano a’ cittadini gli usi sopra le terre feudali che avevano uso comune; e con eccesso esercitavano le ragioni di cittadino su le terre della comunità. I costumi, la filosofia, il secolo avendo migliorato l’indole de’ feudatarii, tutte le violenze dell’antica feudalità erano per buon volere scomparse; ma ciò che produceva entrata, qualunque ne fosse la natura, si vedeva da quei signori desiderato e difeso: rinunziavano la potenza, nevolevano il frutto.
XXXVIII. Questi che ho descritti abbondanti resti di feudalità furono aboliti da leggi di Giuseppe; ma quel re, non misurando il peso e la mole degl’interessi che le sue leggi commovevano, prescrisse che le contese, surte in gran numero, andassero a’ tribunali ordinarii e a’ consigli d’intendenza con le comuni regole di procedimento, sì che gli anni e forse i secoli non sarieno bastanti alle liti; e per il vario ingegno de’ giudici, qua favorite le comunità, là i baroni, l’abolizione difforme, si sperdeva il maggiore benefizio politico di quell’opera, il celere ed ugual passaggio de’ possidenti, da’ pochi a’ molti: serbando le principali regole della universale giustizia, poichè le circostanze impedivano la matura tardità di codici. Visto l’errore, s’immaginò e compose un magistrato supremo inappellabile detto Commissione feudale; ma lasciata di solo nome sino a’ tempi del re Gioacchino che li diede il carico vero delle somme cose della feudalità, tal ch’ella decideva di ogni lite; da lei proposte, si facevano le nuove leggi; per lei erano gl’impedimenti agevolati, i dubbii sciolti. Mezzi alla commissione per giungere al proponimento furono: 1°. riconoscere i terreni di natura feudale; 2°. in quei terreni determinare le ragioni e gli usi della comunità; 3°. di ogni ragione, di ogni uso, estimare il valore in terre, così che apparisse ciò che spettava alla comunità, ciò che al barone; 4°. la rata della comunità confinaria inamovibilmente in presenza dei cittadini, assistendo, se volevano, i ministri del barone; 5°. quelle terre comuni, dividerle fra cittadini.
Stavano dunque dall’una parte gl’interessi di tutti i baroni, e del re che per alcuni privati dominii aveva le qualità baronali, e del fisco regio e della chiesa; stavano per l’altra parte i cittadini pur ora vassalli e tuttavia soggetti. E frattanto molte terre sino allora di pieno dominio baronale furono dichiarate delle comunità, o di uso pubblico; la valutazione di ogni diritto fu a maggior pro de’ comuni; la divisione tra comunità e baroni, o re o fisco o chiesa fu sempre a vantaggio delle comunità; e nella partizione delle terre fra cittadini fu prediletta la povertà: sì che donavano a più poveri, davano per piccolo prezzo a’ meno poveri, vendevano al giusto agli agiati, escludevano i ricchi. I miseri profittavano in tutti i modi, con offesa (convien dirlo) delle consuete forme di procedimento, e pur tal volta della giustizia; imperciocchè la feudalità (qui ripeterò ciò che poco indietro ho detto del brigantaggio) era misfatto antico ed enorme, che la giustizia del nuovo secolo punì co’ modi del flagello e della vendetta.
Per eseguire le sentenze della commissione feudale il re al finire del 1809 mandò, commissarii nelle province, parecchi magistrati di alto grado, di buono ingegno, di onorata fama, portando altri decreti di cui l’adempimento fosse veloce e forzato: l'opera stava al termine; il moto come al fine delle cadute era più celere. Per cura di que’ regii ministri, divise le terre e suddivise, videsi numero infinito di nuovi possidenti; franca la proprietà de’ già baroni, de’ già vassalli; tutte le servitù disciolte; quell’anno 1810, il primo di libertà prediale e industriale. Perciò il re, dal campo di Reggio dove stava a guerra contro la Sicilia, dichiarando compiuta l'abolizione della feudalità, bandì per editto irretrattabili le sentenze della commissione feudale; ed essa disciolta. Si videro indi a poco gli effetti maravigliosi di quell’opera nelle private ricchezze, nell’accresciuta finanza, nell’agricoltura, nelle arti. Era stata divisa tra ’l re ed il comune di Postiglione la valle del Calore, piccolo fiume che va nel Sele, la quale per lo innanzi foltamente boscosa era parte delle regie cacce di Persano: delle due pendici l'una, lasciata al re, è selvaggia come innanzi; l'altra, divisa fra cittadini, è coltivata a campi, a vigne, ad oliveti, sparsa di nuove case, alimentatrici di famiglie industriose e beate: così che in quelle due convalli stavano figurate ed espresse in natura la vivente feudalità e la distrutta. Età novella per la vita civile del popolo napoletano cominciò nel 1810.
XXXIX. Il primo giorno del seguente anno, tra le consuete feste della reggia, il re concesse con titolo e dote, ma senza diritti ed usi di feudo, alcune baronie a generali e colonnelli dell’esercito: liberalità che generando nobiltà nuova, armata, potente, partigiana degli ordini nuovi, provvedeva a molti bisogni della nascente casa de’ Napoleoni, e non aveva di sconcio che il nome. Il re Giuseppe, a pompa o prodigalità aveva fatto altri doni a’ ministri civili; Gioacchino istesso ne’ succedenti anni nominò ora per premio a’ servigi, ora per favore, altri baroni, conti e duchi, e concedè titoli senza terre o terre senza titoli a militari, a magistrati, ad artisti. Parvero, e tali erano in alcuni casi, dissipazioni dell’erario pubblico; ma non sì grandi e si vacue quanto la malignità divolgava; che nella storia di Napoli non vi ha nuova stirpe, per quanto avara, che avesse donato a’ partigiani suoi meno di ciò che donarono a nostro tempo i due re francesi; nè vi ha chi più di loro gli cercasse tra gli uomini meritevoli dello stato. Caddero con Giuseppe e Gioacchino i loro aderenti e affezionati, pochi non rimasero poverissimi, e niuno fu ricco per turpitudini. Gli uffiziali dell’esercito se non fossero stati mantenuti agl’impieghi dalla convenzione di Casalanza avrebbero accattato nel 1815, come accattarono anni appreso poichè per fedi spergiurate quella convenzione fu rotta.
Poco dopo videsi la insegna di Napoli, avendo usato sino allora in guerra, in mare e su le rocche, la bandiera francese: i colori nostri furono in campo turchino il bianco e l’amaranto. Nel giorno istesso fu prefissa la forza dell’esercito, ed era (benchè il decreto nol rivelasse) di sessanta mila uomini di milizia assoldati, quaranta mila delle civili; chiamarono i reggimenti, legioni; i generali di divisione, tenenti generali; e quei di brigata, marescialli di campo; molti altri nomi da’ nomi francesi variarono, che già sentivasi da Gioacchino e traspariva nel regno il desiderio della indipendenza. La nuova scuola politecnica ingrandì il già collegio militare; sursero nuove di artiglierie e del genio; in cento modi si provvide all’esercito napoletano, perocchè si divisava di congedare il francese; le coscrizioni si facevano quietamente e con prestezza, frutto del consolidato regno. E a tanti mezzi di forza si univano, per iscuotere il giogo della Francia, il comandar duro di Bonaparte e l’indole libera e presuntuosa di Gioacchino. Spuntò allora il primo sdegno fra i due cognati.
Nel qual tempo nacque all’imperatore de’ Francesi un figlio che appellò re di Roma; e Gioacchino, per impostagli riverenza, si recò a Parigi: e sebbene credevasi che vi si fermasse sino al battesimo a fine di accrescerne la pompa, inatteso tornò in Napoli molto innanzi della cerimonia. E giunto appena , congedò le schiere francesi, con decreto che nessun forestiero, se non prima dichiarato cittadino napoletano come prescriveva lo statuto di Bajona, potesse rimanere agli stipendii militari o civili. Spiacque l’ardito comando a Bonaparte, che in altro decreto disse: non bisognare ai compagni di patria e di fortuna di Gioacchino Murat, nato francese e asceso al trono di Napoli per opera dei Francesi, la qualità di cittadino napoletano per avere in quel reame uffizii civili o militari. Il re infuriò, la regina placava gli sdegni; pochi dei Napoletani timidi e servili biasimavano l’ardire di Gioacchino molti liberi, audaci, ambiziosi lo applaudivano; dei Francesi niuno, benchè cortigiano, si mostrava della sua parte. Nelle grandi contese di stato, in cui di ordinario primeggiano due opposte sentenze, capo dell’una si faceva il re, dell’altra la regina, e intorno a sè raccoglievano i sostenitori delle due parti: contendevano nel pubblico, accordavansi nel privato: pareva discordia, ma era scaltrezza in tanti moti e pericoli di regno nuovo. Eppure quella volta non per finzione ma per sentimento il re e la regina discordavano; ella fidando meno del giusto nel marito, e assai più del giusto nel fratello. Si accesero domestiche brighe: egli, impetuoso per natura, infermo; ed ella, benchè superba, fu palesemente mesta e addolorata.
Vinse il decreto di Bonaparte: l’esercito francese uscì dal regno; ma i Francesi che avevano in Napoli militare o civile impiego restarono. Nella plebe sursero e dicerie maligne e bugiarde su i motivi dello sdegno della casa; e scrittore seguace, poi nemico di que’ principi, non disdegnò di avvalorare quelle menzogne, adombrandole în alcune memorie chiamate istoriche. Indi a poco le domestiche contese quietarono, e il re, tornato sano, si volse alle cure dello stato.
XL. In Napoli, come in altre parti d’Italia, estirpati per furioso genio di coltura gli alberi su le montagne e messe a campo le terre, furono i primi ricolti abbondanti; ma scemavano d’anno in anno, perchè dall’acque trasportato il terreno, ingomberate le sottoposte pianure, solcato stranamente il dorso dei monti, e però nudato il colle, devastato il piano, lasciati i torrenti alle proprie licenze ed agli eventi dei turbini, l’agricoltura fu sovvertita. Una legge di Gioacchino riordinava quella parte di amministrazione pubblica; e non bastando i precetti nominò una direzione suprema in Napoli, altre minori nelle province; impiegati e vigilatori nelle comunità, guardie nelle campagne: che se tutto e troppo nel possesso dei boschi era stato libero, tutto e troppo dopo la legge fu ristretto da regole, proibizioni ed ammende: sursero grandi e giuste lamentanze accreditate dall’avarizia del fisco; si manifesta in quella legge che la severità delle pene appariva non già zelo di bene ma cupidigia. Ne derivò che provvida legge fosse male accolta dai soggetti e ritrosamente osservata.
Per altri decreti l’amministrazion provinciale e comunale migliorava in quanto alle regole, ma peggiorava nel fatto; e del peggioramento era principal cagione il ministro per lo interno conte Zurlo, ingegnoso, instancabile, desideroso di pubblico bene, e pure amico di libertà, ma per lunghe usanze così devoto alla monarchia e cieco amante del re (qualunque mai fosse di nome o d’indole) che per soccorrere la finanza, disordinata dalle troppe spese della milizia e della corte, imponeva al patrimonio dei comuni non pochi debiti del fisco, ed altre somme col nome di Volontario Donativo. Perciò quei patrimonii decadevano, il popolo insospettiva; gli spiaceva il risparmio, a vederlo convertito in doni menzogneri, più delle dissipazioni e delle frodi, le quali almeno giovavano ad alcuni della comunità.
Altra cagione di male era nella natura delle intendenze. L’intendente commissario del governo e tutore del popolo, con poteri grandi e certi, doveri indeterminati e talvolta opposti, non può a lungo serbare uffizio e fama. E poichè l’uffizio gli apporta comodo e fortuna, la fama sventure ed offese per fin da coloro a cui giova, la più parte degl’intendenti sono a pro del governo contro del popolo, cioè duri nelle pratiche di polizia, inflessibili nelle esigenze della finanza, proclivi e pronti a tutto ciò che profitti o piaccia al re come che a danno della provincia. Parecchi ne furono, nel tempo del quale scrivo, difensori arditi delle ragioni del popolo, dei quali citerei e fatti e nomi, se scrivessi commentarii e non istorie.
Nuovi provvedimenti migliorarono il sistema giudiziario, il qual cenno mi offre occasione di rammentare due cause trattate in quell’anno 1811, e degne di storia. Abbattuta ma non ancora impotente l’ira contro Gioacchino, fece ordire congiura per ucciderlo quando andasse a diporto di caccia nelle foreste di Mondragone, dove il luogo vicino al mare agevolasse a’ regicidi la fuga; capo de’ congiurati un tal frà Giusto, già frate, amministratore di vaste tenute presso al disegnato luogo del delitto, compagni altri ventotto venuti di Sicilia o arruolati in Napoli. Si ordinavano le insidie, quando l’un d’essi, a patto d’impunità, rivelò al governo il disegno; e quindi arrestati i congiurati, sorprese armi e fogli, fu comandato il giudizio, ma con le libere consuete forme, come non fosse causa di maestà. Per testimonii, documenti e confessioni venne in pubblico dibattimento dimostrata la colpa, ed il regio procuratore chiese condanna di morte per sette de’ congiurati, e di galera in vita per altri ventuno. Parlavano a difesa, con poca speranza, gli avvocati, quando il presidente ruppe il discorso per leggere al pubblico un foglio or ora pervenutogli, ed era del re, che diceva:
«Io sperava che gli accusati di congiura contro la mia persona fossero innocenti; ma con dolore ho inteso che il procurator generale abbia dimandato per tutti pene assai gravi. E forse vera la colpa, ed io volendo conservarmi un raggio di speranza della loro innocenza, prevengo il voto del tribunale, fo grazia agli accusati, e comando che al giungere di questo foglio si sciolga il giudizio e si facciano liberi quei miseri. E poichè trattasi d’insensato delitto contro di me, e non ancora è data la sentenza, io non offendo le leggi dello stato se, non inteso il consiglio di grazia, fo uso del maggiore e migliore diritto della sovranità. Gioacchino.»
Fu lieto il fine di quel giudizio quanto miserevole l’altro caso che narrerò. Era in Acerenza, città della Basilicata, un tal Rocco Sileo, bello e grande della persona ma per vecchiezza curvo e bianco, padre di figli e figliuole, con poca fortuna ed onesta fama.
De’ figli il primo, d’indole rea e malvagia, cominciò da giovinezza a commetter delitti, e l’amoroso padre, stando ancora in piedi le udienze e gli scrivani, ne redimeva la reità per danaro. Ma quegli continuo al male ritornava alle colpe, quanto l’altro sollecito e costante il difendeva, disperdendo il patrimonio della famiglia. Per grave misfatto commesso l’anno 1809, di già cambiati codici e magistrati, il tribunale della provincia il condannò a morte, da eseguirsi in patria innanzi alla propria casa. Ma la condanna restò sospesa dal ricorso in cassazione; ed il padre, dopo di aver profuso cure e denaro, lasciò in Napoli un più giovane figlio col carico di avvertirlo celerissimamente della sentenza. Questa fu avversa; il figliuolo in gran diligenza giunse apportatore della fatale condanna, e dal padre ebbe comando di segreto anche in famiglia.
Nel seguente giorno il vecchio ottenne per denaro dal custode del carcere di desinare col figlio: e fu la mensa non abbondevole nè scarsa, egli non lieto nè tristo; il figlio, per lungo uso avvezzo alla prigione, indifferente. Finito il desinare, il padre parlò in questi sensi: «Figliuol mio, il tribunale di cassazione ha rigettato il nostro ricorso, la condanna è confermata, fra poche ore sarà nota quella estrema sentenza, e tu dimani avrai cessato di vivere. In qual modo? infamemente, per mano del carnefice; ed in qual luogo? qui in patria, innanzi alla nostra casa. Il patrimonio ch’era mio e della famiglia, tutto è stato distrutto in tua difesa, piccola vigna che io piantai è stata venduta un mese fa. Se alla nostra povertà tu vuoi aggiungere infamia, troppo di male, o mio figlio, avrai arrecato ai tuoi vecchi genitori, a due fratelli, a tre sorelle, al nome, alla discendenza. Non vi ha che un mezzo, morir prima, morir oggi. Se hai pietà della famiglia e di me, prendi, questo è un veleno (cavò di tasca una carta ravvolta), bevilo. Se l’animo ti manca, io partirò maledicendoti; se beverai, le mie benedizioni accompagneranno il tuo spirito.» A questi ultimi detti qualche lacrima gli comparve agli occhi, e impietrì; e il figlio che inorridito ascoltava, prese la carta, senza dir motto, di man del padre, versò il veleno nel bicchiere, baciò la destra al venerando vecchio, e, fissamente guardandolo, beveva. Mentre l’altro levato in piedi, e per inusitato vigore scomparsa la curvità della persona, alzato il braccio in atto patriarcale, tre volte disegnando la croce il benedisse. E subito partì: il figlio mori in breve ora.
Seppesi nel giorno istesso la condanna, il pranzo, il veleno, la morte. Fu messo in carcere, accusato di parricidio il vecchio padre che nulla tacque de’ fatti. Il tribunale il condannò a morte, la cassazione pendeva incerta fra la legge e la coscienza; che pericolo alla giustizia era la scusa del misfatto, ma la condanna offendeva la virtù, l’onore e la pubblica ammirazione per la stupenda intrepidezza paterna. In quel dubbio interrogato il governo, rispose che i fatti si cuoprissero col silenzio, non bisognando autorità di legge per caso singolare, primo insino allora, e che forse non avrà secondo. Rocco Sileo, tornato in libertà, visse povero, afflitto ed onoratissimo.