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LIBRO SETTIMO — 1810. 83

idea di feudalità; ma le condizioni de’ popoli migliorarono per ciò che ho detto parlando del ducato di Benevento, e perchè i ministri del re nelle province impedivano le soperchianze de’ minori regoli. E di più, le gravezze feudali acquistando con l’uso e per la pazienza de’ sudditi la natura di stato civile, apparivano alla moltitudine legittime e comportabili. Si contentarono i nostri maggiori degli ordini fondati da Ruggero e da’ due Guglielmi come che fossero feudali e violenti. Giovarono ai popoli d’allora quelle forme governative, dalle quali la filosofia moderna rifugge.

Della stirpe sveva il primo Federigo ed Arrigo combatterono le civili istituzioni anzi che promuoverle. Federigo il secondo abbassò in doppio modo la feudalità, dettando contro lei provvide leggi, e migliorando la civiltà de’ popoli; che furono leggi di quel re l’abolizione di qualunque opera verso i baroni che offendesse ne’ sudditi la libertà personale, il bando che ad ogni Napoletano concedeva la giustizia comune e la piena libertà di richiamarsi al monarca delle baronali tirannidi, il divieto a’ baroni d’imporre nuove taglie, il disfacimento delle mura e torri baronali, ed altre provvidenze che leggonsi nelle costituzioni di quel monarca. Furono opere di lui le amministrazioni del municipio libere a’ comuni, la convocazione de’ rappresentanti di ogni comunità per negozii di pubblico interesse, l’ordinamento della giustizia e de’ magistrati, la visita da suoi ministri delle province a fin di conoscere del popolo i bisogni e i lamenti, l’obbligo dei tributi a’ baroni laici o ecclesiastici, l’abolizione de’ privilegi sino allora profusamente concessi alle terre e persone della chiesa. A questo re, miracolo de tempi suoi, successe brevemente Corrado e poi Manfredi re ultimo della casa sveva; e Manfredi sosteneva le leggi del padre con lo stesso cuore, ma con minor fortuna, trovandosi assai più travagliato da’ papi e dai soggetti. Ma i benefizii che ho adombrato della famiglia sveva, generati nella mente del riformatore, immaturi al popolo, immaturi al tempo, e non bastando a Federico la vita per convertire i suoi pensamenti ad uso e coscienza di tutti, caddero con la sua progenie.

Carlo I d’Angiò venuto al trono delle Sicilie per invito e ajuti del papa Clemente IV, guerreggiando contro l’esercito di Manfredi, parteggiando fra i baroni del regno, in ogni sua qualità trovò motivo a rinvigorire le feudali instituzioni: egli, Francese, portava gli usi di Francia; vassallo della chiesa, rendeva ed ingrandiva i privilegi ecclesiastici dalla casa sveva rivocati o ristretti; guerriero e vincitore, era prodigo di centosessanta città a’ commilitoni e di altri doni feudali, conformi alla conquista ed a’ tempi; partigiano, ristabiliva i baroni della sua parte al seggio donde erano discesi per le leggi dì Federico e di Manfredi; ed Angioino, pregiava e seguiva