Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro IX/Capo I

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LIBRO NONO.


REGNO DI FERDINANDO I. REGGIMENTO COSTITUZIONALE.


anno 1820 a 1821.





CAPO PRIMO.

Moti nel regno. La costituzione chiesta, data, giurata.


I. Agli albori del 2 luglio 1820, due sottotenenti, Morelli e Silvati, e centoventisette fra sergenti e soldati del reggimento reale Borbone cavalleria, disertarono dai quartieri di Nola secondati dal prete Menichini e da venti settarii carbonari, volgendo tutti ad Avellino per unirsi ad altri settarii giorni innanzi sbanditi da Salerno e riparati colà dove la setta era numerosa e potente. Da Nola ad Avellino si cammina dieci miglia fra città e sobborghi popolosi, essendo fertile il terreno, l’aere salubre, gli abitatori disposti alla fatica, d’animo industrioso ed avaro. In mezzo a tante genti quel drappello, fuggitivo non frettoloso, andava gridando: «Viva Dio, re, costituzione»; e poichè il senso della politica voce non era ben compreso dagli ascoltanti, e direi da’ promulgatori, ma per universali speranze i tributarii vi scorgevano la minorazion dei tributi, i liberali la libertà, i buoni il bene, gli ambiziosi il potere, ognuno il suo meglio, a quel grido dissennato dei disertori rispondevano gli evviva di affascinato popolo. Vogliono le rivoluzioni una parola, sebben falsa, lusingatrice degli universali interessi; perocchè le furie civili mostrate nude non troverebbero amatori o seguaci. Giunto il Morelli a Mercogliano, pose il campo, e scrisse lettere al tenente colonnello de Concili che stava in Avellino con autorità militare e potenza civile, essendogli patria quella città, ed egli ricco, nobile, audace. Le lettere dicevano ch’eglino, primi, non soli, promulgavano il comune voto di governo più libero; ajutasse l’impresa, desse gloria eterna al suo nome. Prima delle lettere la fama avea divolgato quelle mosse, e costernate le autorità, concitate le milizie, rallegrato il popolo: de Concili restava incerto tra il secondar Morelli o combatterlo; aveva il pensiero volto al governo.

II. Il re, quando in Napoli giunse nuova dei fatti di Nola, andava [p. 224 modifica]sopra ricca nave incontro al figlio duca di Calabria, che allora allora venendo di Sicilia entrava nel golfo. Erano ministri del re il cavalier Medici, il marchese Tommasi, il marchese Circello, il general Nugent, dei quali nelle opinioni del mondo e nel rispetto dei compagni era Medici il primo. Si congregarono, e come avviene sotto assoluto signore, consultavano, non del grave affare di stato, ma del come dirlo a lui senza indurgli timore o muoverlo a sdegno; avvegnachè le assai volte ricercati sulle cose di regno e sulla potenza della carboneria, gli avevano data sicurezza dell’amore dei popoli per le virtù del governo e per le felicità che spandeva; così nelle lodi del re lodavano sè medesimi. ed assonnando il signore, dominavano. Il cavaliere Medici nei regii consigli aveva rappresentata la carboneria come vaghezza o delirio di poche menti, ed accertando a re devoto (con astuta menzogna) che i missionarii pervenivano col santo mezzo delle confessioni a dissiparla. Ma da necessità vinto il ritegno, stabilirono verso il tardi del giorno di riferire al re quei successi, attenuando il pericolo per arte di racconto, e con la promessa di tenere in pronto i rimedii.

Intanto a quelle nuove il popolo della città bisbigliava, romoreggiavano i settarii, le autorità trepidavano, i novatori, gli ambiziosi rallegravansi, tutti presentendo non so quale fatalità nella diserzione di pochi uomini. Il re si voleva trattener sul mare, ma incorato dalle lettere dei ministri discese col figlio, e subitamente adunaronsi a consesso: timidi consiglieri di timidi principi, assuefatti a comandar popolo obbediente, non esperti alle rivoluzioni, costernati dalla mala coscienza, ondeggiavano, perdevano ciò che nei tumulti civili ha più forza, le ore. Altro consiglio di generali convocato dal Nugent deliberò che il generale Guglielmo Pepe, governator militare della ribellante provincia, andasse in Avellino a combattere i sollevati, e contenere quei moti. Nugent certo dello assenso del re, stretto dal tempo, chiamò Pepe, e con parole incitatrici gli impose partire fra quanti pochi momenti abbisognavano per informarne il re, e scrivere il foglio dei conceduti poteri. Il generale ne fu lieto, perchè, confidando di spegnere quei tumulti, ne aspettava în premio fama e favore; scrisse lettere al comandante militare di Avellino, diede comandi, ordinò movimenti di soldati e di milizie civili, annunziò che presto giungerebbe nella provincia.

Ma il Nugent, riferite nel consiglio del re le anzi dette cose, n’ebbe risposta che il governo sospettava la fede del general Pepe, facendosi più chiara con quello esempio la politica del quinquennale governo. Per la convenzione di Casalanza e i patti di Vienna mantenuti negli impieghi, i murattiani ottennero a poco a poco autorità, comando, potenza, e pur taluni le apparenze del favore. Ma gli abborriva il re, ne diffidavano i ministri, il governo pregiava i [p. 225 modifica]loro servigi, aveva in sospetto ed in odio le persone. Così del Pepe, così d’altri generali; Nugent non godeva egli stesso la piena fidanza del governo, e sì che ignorava i sospetti e gli argomenti contro il Pepe, e frattanto comandava in supremo l’esercito e dirigeva il ministero di guerra. E quel general Pepe tenuto nemico e traditore, al grado più alto della milizia, reggeva con poteri straordinarii due province, era spesso laudato, riceveva in premio di servigi la gran croce di San Giorgio, gli era affidata la composizione delle milizie civili. Altre mille mostruosità di governo potrei discorrere, se or ora non mi occorresse di rappresentarle tutte in un fatto.

Nugent dice a Pepe di non partire, e cuopre con varii non creduti pretesti il mutato comando: quegli sospetta il vero, teme di peggio, s’infinge e tace. Nel consiglio del re prevalsero le arti antiche neghittose: governare il presente, e il meglio sperare dalla fortuna o dalla stanchezza delle opinioni, usar ripieghi, e dove giovasse, mancamenti ed inganni. Non poteva inviare contro i sommossi lo stesso Nugent, mal tollerato dall’esercito perchè istromento di finanziera avarizia, e peggio visto dal popolo che rammentava le ingiurie venute per opera di stranieri dominatori; non poteva inviare alcuno de’ generali di Sicilia, privi di fama tra noi, spiacenti alle milizie, di cui erano maggior nerbo i murattisti; nè intanto si affidava a costoro, sospettandone, come ho già detto, la fedeltà. Misera e dispregevole condizione di governo, cui non bastarono lungo dominio, abbondanti ricchezze, cariche, onori, secolo avaro e corrotto per trarre a sè parte de’ sudditi, tanto soprastavano gli antichi errori e la presente incapacità. Ma quel consiglio, costretto ad ingrata scelta, elesse il general Carascosa, murattiano, chiaro nell’esercito, atto alle difficili pruove, sperimentato istromento di monarchia, ma non discaro al popolo per giovanili fatti di libertà, per manifestato amore di più libero reggimento, e perchè repubblica, napoleonismo e liberalità sembravano alla moltitudine opinioni compagne, vedendole dagli stessi uomini seguite, e dalla istessa borbonica famiglia combattute. Per fare ossequio al duca di Calabria, essendo circolo nella reggia, vedevasi confusa l’adulazione dei cortigiani tra la gioja di quello arrivo, la tristezza di quel giorno, i pericoli, le speranze, i timori. Ma il re si mostrò sereno, e quelli per seguirne l’esempio, che nella servitù delle corti è comando, simularono serenità.

III. Le ore, che in Napoli scorrevano fra dubbiezze e scioperaggini, procedevano per Morelli utilmente, imperciccehè la sommossa col grido e la impunità si spandeva. Nel giorno istesso invase il Principato Ulteriore cui è capo Avellino, invase parte del Citeriore, toccò ia Capitanata; tanti spazii corse quarti la fama. Ed allora de Concili, visto il suo meglio nella rivoluzione, quella elesse: [p. 226 modifica]ingannò, spaventò, sedusse, secondo i casi, le autorità della provincia; adunò milizie assoldate, milizie civili, e sotto specie di guardia le accampò incontro a Morelli; ebbe con esso secreto abboccamento nella notte, e fermarono entrare in città nel mattino seguente, colla pompa delle allettatrici parole, e dei colori della setta.

Così, allo spuntar del giorno 3 luglio, Morelli lietamente marciava da Mercogliano ad Avellino; e Carascosa in Napoli, aspettando le promesse istruzioni, agitava per l’animo pensieri varii: volea servire il governo per giuramento ed interesse; voleva non combattere i liberali, cittadini della stessa patria, de’ quali cresceva la possanza ed il nome, e tardi o presto era certo il trionfo; voleva non tradire la monarchia, non mostrarsi schivo di libertà: stava irresoluto ed afflitto. Ed il governo più sospettava della sua fede; temeva che la concedutagli autorità divenisse stimolo e mezzo d’irreparabile tradimento, indugiava e finalmente, all’uso degl’infingardi, prese partito mezzano, diede mandato libero al generale, ma non soldati. Quegli perciò dovette arrestarsi a Marigliano, indi a Nola, trovando impedita la strada di Avellino, perchè le schiere messe a campo, tutto il presidio della città, altre milizie civili, altri settarii, altri liberali erano corsi d’ogni parte per unirsi al Morelli, il quale, poderosamente afforzato, aveva accampato le sue genti sulle vette di Monteforte incontro Napoli, mentre slargava nelle opposte province la impresa. I magistrati di Avellino, l’intendente, il vescovo festosamente lo accolsero, e nella chiesa giurarono Dio, Re, Costituzione. Nella cerimonia del giuramento il Morelli dichiarò non essere sediziose le sue mosse, rimanere integri lo stato, la famiglia regnante, le leggi, gli ordini; ed avanzatosi verso l’intendente gli esibì foglio del sindaco di Mercogliano che certificava la schiera del sottotenente Morelli avere in quella terra serbato strettissima disciplina, e pagato le vettovaglie; era l’attestato prescritto dalle ordinanze nel cammino delle milizie per lo interno del regno. E dipoi voltossi a de Concili, gli porse altro foglio {il ruolo delle sue genti), e disse: io sotto-tenente obbedirò voi tenente- colonnello dello stesso esercito di S. M. Ferdinando I re costituzionale. E ciò detto, prese l’aspetto di subordinato, non più diè comandi, non alzò voce, sottomesso al de Concili, che assunse il grado supremo.

IV. Nello stesso giorno 3 la Capitanata, la Basilicata, gran parte del Principato Citeriore si alzarono a tumulto, perciocchè un foglio di de Concili, o un messaggiero, un segno, bastava a concitare numerosi popoli. Ma fra i moti e le armi erano sacre le leggi, mantenuti gli ordini, salve le vite, rispettate le proprietà, gli odii repressi, la rivoluzione convertita in festa pubblica; indizio [p. 227 modifica]d’irresistibile movimento. Il general Carascosa in Nola, più vicino a’ pericoli, stava più incerto; privo di soldati, esercitava autorità per lettere o esploratori, tentava i sollevati, protestava al governo, sentiva la difficoltà de’ suoi casi, d’ora in ora più discoravasi. Gli si affacciò speranza di indurre i capi a patteggiare per danaro la fuga dal regno, e poi quetare o vincere la sconcertata moltitudine dei seguaci. Manifestò il pensiero al governo che lietamente lo accolse, benchè il trattar co’ soggetti fosse dechinar d’impero; ma quel riuscire per arti oscure era mezzo antico, più d’ogni altro dicevole a’ ministri pusillanimi e scaltri. Il generale che propose l’accordo, bramando che alcun altro il maneggiasse, dimandò un magistrato, ne scrisse al duca d’Ascoli amico del re, ne pregò il ministro Medici; ma tutti negavano l’officio, però che certi del doppio pericolo verso il popolo, verso il re, scansavano i maneggi e le cure di stato; essendo giusta sorte dei re assoluti vedersi affollati d’importuni partigiani nelle prosperità, deserti nelle sventure.

Nella notte del 3 al 4 luglio il general Carascosa ebbe seicento soldati, mentre schiere più numerose reggeva il general Nunziante in Nocera, ed altre il general Campana in Salerno. Niuna delle tre colonne bastava ad espugnar Monteforte; le tre, unite, più che bastavano: ma era temuto l’unirle, sospettando la fede dei soldati, e che l’accordo dei generali si mutasse in congiura. Nella mattina del 4, all’impensata, il general Campana marciò da Salerno con fanti e cavalieri sopra Avellino, a mezzo il cammino scontrò il nemico: combatterono: ma il generale improvvisamente tornò alle stanze. La mattina del 5 move da Nocera il general Nunziante, e dopo breve cammino disertano a folla i soldati; il generale dissimula il pericolo, e riconduce le menomate schiere a Nocera. Le mosse di Campana non erano ajutate da Nunziante nè da Carascosa; le mosse di Nunziante non ajutavano Carascosa o Campana. Carascosa in quel tempo tentava i capi della sommossa, ma si perdevano le blandizie anzi apparivano inganni per gli assalti impensati delle altre colonne. Lo stesso governo (maraviglie a dirsi) dirigeva quelle opere dislegate e contrarie. All’aspetto del quale disordine, cresciuta la contumacia, un reggimento di cavalleria inobbediente al suo colonnello e sfrontato, nel mezzo del giorno, a stendardi aperti, disertò da Nocera; un battaglione della guardia reale, giunto al campo, palesò l’animo di non combattere, ed altro battaglione di fanti stanziato in Castellamare tumultuava.

Così nei campi. Dalle province non veniva notizia che non fosse ingrata: un reggimento alloggiato in Foggia erasi unito ai novatori; un’altra, Puglia e Molise levate in armi; la Terra di Lavoro si agitava: ignoravasi per le distanze lo stato degli Abruzzi e delle Calabrie; ma poichè gli uni più proclivi alla setta, le altre di continuo [p. 228 modifica]sfrenate, se ne presagiva la sorte, La reggia doppiò le guardie; le pattuglie in maggior numero esploravano la città; le milizie stavano nei quartieri a riserva e spiate. Nel qual tempo giunsero lettere al re del general Nunziante, che dopo breve racconto dell’animo avverso delle sue schiere, diceva: «Sire, la costituzione è desiderio universale del vostro popolo, il nostro opporre sarà vano; io prego V. M. di concederla.» Il re non sospettava la fede dello scrivente, che nato da parenti oscuri, e su levato fra le bruttare delle discordie civili, lo aveva seguitato costante nelle varie fortune, e per questo merito e per grazia era pervenuto agli alti gradi nell’esercito, agli onori ed alle ricchezze. Quel foglio aggiunse mestizia e sbigottimento; ma pure le assicurazioni del Carascosa, di sommettere i sollevati per accordi o per guerra, sostenevano le speranze del re, e si aspettava ansiando la mattina del 6, ultimo tempo prefisso alle trame o al combattere.

Nuove sventure precipitavano le dimore. Il generale Guglielmo Pepe, già insospettito come ho detto innanzi, fu indotto a credere, per industria di alcuni settarii e per foga del proprio ingegno, che il governo volesse stringerlo in carcere; ed egli non avesse scampo che in Monteforte: decise la fuga. Chiamò seguace o compagno il general Napoletani, e insieme, a notte piena, nei quartieri del Ponte della Maddalena assembrando uffiziali e soldati, col comando, colle lusinghe, spinsero a diserzione altro reggimento di cavalleria e parecchie compagnie di fanti. Se ne spande la nuova nella città e nella reggia. Ed allora cinque settarii andarono agli appartamenti del re, dicendo scopertamente ai custodi ed alle guardie essere ambasciatori di causa pubblica venuti a parlare al re o a qualche grande di corte. Altra volta quell’ora, quel discorso, e la sola audacia dell’ingresso sarebbero state colpe e punite, ma le cose eran mutate sì che un servo frettolosamente portò l’ambasciata, per la quale venne sollecito il duca d’Ascoli, e l’uno dei cinque gli disse: «Siamo delegati per dire al re che la quiete della città non può serbarsi (nè si vorrebbe) se S. M. non concede la bramata costituzione. E settarii e soldati e cittadini e popolo sono in armi, la setta è adunata, tutti attendono, per provvedere ai nostri casi, le risposte del re.» Andrò a prenderle, disse il duca; ed indi a poco tornato, volgendosi a quello istesso che sembrava il primo dell’ambasceria, disse: «S. M. visto il desiderio dei sudditi, avendo già deciso di concedere una costituzione, ora co’ suoi ministri ne consulta i termini per pubblicarla.» E quegli: «Quando sarà pubblicata?... Subito... Ossia?... In due ore.» Un altro dei cinque allora si mosse, e distesa la mano senza far motto al pendaglio dell’oriuolo del duca, inurbanamente glielo tirò di lasca, e volto il quadrante così ch’egli e ’l duca vedessero le ore, [p. 229 modifica]disse: «È un’ora dopo mezza notte, alle tre la costituzione sarà pubblicata.» Rese l’orologio e partirono. Quell’audace era il duca Piccoletti, genero dell’Ascoli.

V. Stavano a consiglio continuamente presso del re il suo figliuolo duca di Calabria, e tre ministri, però che il quarto, general Nugent, trattenevasi al campo di Carascosa per assistere alle conclusioni del mattino vegnente, sia di accordo, sia di guerra. Quei ministri avviliti, quanto già nelle sicurezze superbi, pregavano il re che cedesse alla necessità dei tempi, acconsentisse la voluta legge, sperasse nei futuri eventi; e quanto più il re, confidando nei divini ajuti, o per maggior senno e maggior animo resisteva, altrettanto quei paurosi ripregavano, lo intimorivano. Il marchese Circello, in odio al pubblico, e vecechissimo, ma per grossolane delizie di vita bramoso di più lungo vivere, piangendo gli disse: «Io amo Vostra Maestà come padre ama figlio, ascoltate e seguite il consiglio che viene da labbro fedele, concedete prontamente una costituzione, superate i pericoli di questo istante; che Iddio ajuterà principe religiosissimo ed innocente a ricuperare da popolo reo i diritti della corona.» Il re si arrese, e fu questo l’editto:

«Alla nazione del regno delle due Sicilie. Essendosi manifestato il voto generale della nazione del regno delle due Sicilie di volere un governo costituzionale, di piena nostra volontà consentiamo, e promettiamo nel corso di otto giorni di pubblicarne le basi. Sino alla pubblicazione della costituzione le leggi veglianti saranno in vigore.

Soddisfatto in questo modo al voto pubblico, ordiniamo che le truppe ritornino ai loro corpi, ed ogni altro alle sue ordinarie occupazioni.

Napoli, 6 luglio 1820.»

FERDINANDO.


VI. Per solleciti messi l’editto fu spedito ai campi di Nocera, Mugnano e Monteforte, ed al primo albore del dì 6 giunse a Carascosa e Nugent, mentre, disperando la pace, ordinavano le schiere agli assalti. I campi dell’una parte si sciolsero, e le milizie tornarono alla città festosamente, gridando Dio, Re, Costituzione; il campo di Monteforte stette saldo: ebbe pieno successo in quattro giorni la rivoluzione di un regno, la quale sotto saggio governo non nasceva, e sotto governo animoso, tosto nata, spegnevasi.

Per decreto di quel giorno il re designò nuovi ministri; e con lettere al figlio e pubblicate, dolendosi di salute inferma, debole alle nuove cure di regno, depose in sue mani la regia autorità. L’editto, il decreto, le lettere concitarono moti maggiori nel popolo, [p. 230 modifica]che diceva non bastare otto giorni per una costituzione che si ordisse dai suoi principii, ovvero esser troppi per alecn’altra che si prendesse fra le usate in Europa; e perciò quella offerta esser arte per assonnarli, sciogliere il campo di Monteforte, opprimerli alla spicciolata; desse il re, e bastava un momento ed un motto, la costituzione delle Cortes riconosciuta in Europa e giurata da lui stesso quale Infante di Spagna. Soggiungeva essere stato eletto ministero nuovo e migliore per presente necessità, non per mutato ingegno; citando in pruova i ricchi stipendii mal prodigati agli antichi ministri. Il vicariato del duca di Calabria, ricordando col nome gl’inganni usati in Sicilia, rinforzava il sospetto che il re covasse intenzioni maligne. Perciò i moti crebbero nel giorno 6; e tanto più che ne divenne capo il general Pepe, in mano al quale aveva de Concili deposto il comando supremo, così di grado come in mano a lui lo depose Morelli. Le quali spontanee sommissioni erano tenute modestie di civil popolo ed ammirate dal mondo, benchè fossero necessarie condizioni di troppo facile mutamento, che non costando nè fatiche, nè rischi, nè tempo; non avendo vittime, non eroi, era costretto di rispettare l’autorità dell’antico.

Col cadere del giorno aumentarono le grida nella città, gii spaventi nella reggia, tanto che il vicario adunò a consesso (così prestamente che la chiamata diceva, nello istante comunque vestito) pochi generali, alcuni antichi consiglieri di stato, i ministri nuovi; e lor disse: «Il re e noi, tutti della stessa patria, salviamo se bastano le forze umane, la madre comune dal presente pericolo. Sino a che la costituzione chiedevasi da pochi arditi mossi a tumulto, apparendo pensiere o pretesto di setta, il re dubitava di concederla. Egli poteva colle armi espugnar Monteforte, vincere e punire i costituzionali (così per la prima volta si dinotavano quei medesimi, che insino allora nei consessi regii furono chiamati ribelli); ma nol volle perchè abborriva il sangue civile, e voleva dare alle opinioni tempo e libertà di manifestarsi, onde conoscere le vere brame, il vero bisogno politico del suo popolo. E però il ritardo, che si credeva ripugnanza, era studio di re saggio e benigno.

E difatti, conoscendo appena il voto di tutti, ha promesso di soddisfarlo; ha levato i campi e inviato i soldati ai quartieri come nei tempi di pace; il cammino da Monteforte alla reggia è aperto; la casa intera e quindi la dinastia dei Borboni è in mano a’ popoli sommossi, e non fugge, e non teme. Ma se il desiderio trasmoda, e niega tempo alla difficile compilazione di uno statuto, o turba il consiglio a voi, destinati dal re a quell’opera, farete così imperfetta e sconvenevole; apparirà indi a poco il bisogno di riformarla, e poichè le riforme nei governi costituzionali portan seco [p. 231 modifica]il sospetto ed il moto delle rivoluzioni, ritorneremo presto alle presenti dubbiezze e pericoli.

A voi perciò, così amanti della patria quanto fedeli al trono, dimando un modo per attiepidire il pubblico fervore, ed aspettar quetamente, non più del prefisso tempo di otto giorni, la promessa legge. Incitando a parlare ciascun di voi rammento a tutti che nelle difficoltà di regno la sincerità del consigliero è bellissima fede al sovrano, e che, se inopportuno riguardo ritiene il vostro labbro, farete onta a voi stessi, tradimento al re, danno alla patria comune, offesa a Dio.»

Tacque, ciò detto: e tacevano per maraviglia o diffidenza i consiglieri adunati; però che varia era la fama del duca di Calabria, erudito nei penetrali di reggia infedele, amico del Canosa, sospettato nei tradimenti fatti alla Sicilia: ma in sino allora innocente, e (ciò che più il commeendava) tiranneggiato dal padre. Per questi pregi, per quel parlare onesto, per la gravità dei casi, dissipata la tema, uno di quei molti, dopo nuovo incitamento, così disse: «Nel «rispondere a V. A. io non guardo la importanza del subbietto, il pericoloso uffizio di consigliero, la mia stessa incapacità, ma solamente il debito di dire e oprare, nei difficili casi, come vogliono il proprio giudizio e la coscienza. Parlerò aperto, e troppo, stimolato dal comando di V. A. e dalla mia natura.

La costituzione è desiderio antico dei Napoletani, surto nei 30 scorsi anni di civili miserie; salito a speranza per la costituzione concessa dal re Ferdinando alla Sicilia, e l’altra dal re Luigi alla Francia, e l’altra a noi stessi (benchè tardi) dal re Gioacchino, e l’ullima data o presa in Ispagna. Ed oggi che di questa voce han fatto lor voto e pretesto numerosissimi carbonari, ella non è solamente desiderio e speranza, ma bisogno ed ansietà. L’opporsi al torrente degli universali voleri era già da tre anni vana fatica, ma facile prova il dirigerlo; l’ultimo ministero è stato cieco ai pericoli, sordo ai consigli, sperando che il turbine si disperdesse, o scoppiasse più tardi: per vanto di serbare illesa la monarchia, eccola colpita nè suoi maggiori nerbi, cioè nell’impero e nel prestigio. Si poteva il 2 luglio sottomettere Morelli e i suoi pochi, si poteva nei seguenti giorni espugnar Monteforte, si poteva render vano questo altro cimento della setta, e dilungare la rivoluzione, perocchè scansarla era impossibile, ove i modi del governare non mutassero. Si avevano rimedii di forza insino a jeri, oggi non più, la facile promessa di una costituzione, il richiamo delle milizie dai campi, la caduta del vecchio ministero, i romori attorno alla reggia non repressi, han fatto il governo men forte della rivoluzione; e nei conflitti civili la condizione dei deboli è la obbedienza o la rovina. [p. 232 modifica]

È pericoloso questo momento alla monarchia quanto al monarca: i costituzionali negano il tempo a comporre un nuovo statuto, e ne dimandano uno straniero, quello delle Cortes. Se il re oggi ricusa, vorrà dimani; e frattanto la continua ritrosia, da tumulti crescenti superata, più abbasserà l’autorità del re e delle leggi, più innalzerà i suoi nemici e la plebe: in quelle politiche sproporzioni risiedono, A. R., i gran delitti. Perciò son di avviso che debbasi avanzare le dimande, soddisfare in un punto tutti i desiderii presenti, dare al popolo sotto specie di concessioni quanto egli guadagnerebbe per via di forza.

Ma (disse il vicario rompendo il discorso) la costituzione delle Cortes è convenevole ai Napoletani? — Vano il cercarlo, rispose l’oratore: oggi trattasi del come chetare la rivoluzione, non del motivo di farla; essa è già fatta. Coloro che più altamente richiedono la costituzione di Spagna, non intendono il senso politico di questo atto: è un domanda per essi: ogni altra costituzione, ancorchè più adatta, ancorchè più libera, spiacerebbe.

È dolorosa necessità per un governo piegarsi alla forza dei soggetti; è doloroso per noi esortare alla pazienza, ma poichè siamo sì presso ai precipizii, è officio dei consiglieri la prudenza, come forse sarebbe virtù nel monarca correre le fortune per sostenere le sue ragioni. Perocchè l’ardire col proprio pericolo è valore, coll’altrui è arroganza.»

Mentre l’uno così parlava, uscivano segni e voci di approvazione dal gesto e dal labbro dei circostanti; ma pure il vicario chiese il voto aperto di ognuno, e tutti si unirono al proponente. Un solo suggerì d’introdurre nel decreto un motto di doppio senso, a fin di giovarsene quando, superate le attuali strettezze, rinvigorisse la monarchia; ma il principe opponendosi mostrò sdegno: disse che dagli inganni rifuggiva la religione del re e del vicario. E senza sciogliere il consiglio andò dal padre, tornò, riportò che il re confermava il parere dell’adunanza, e voleva che si riducesse a decreto. Furono sì brevi le dimore del principe che non bastavano a riferire gl’intesi discorsi; e però i consiglieri sospettavano che il re, non visto, fosse presente al consiglio. Il decreto subito scritto e nella notte istessa pubblicato, diceva: «La costituzione del regno delle due Sicilie sarà la stessa adottata per il regno delle Spagne nell’anno 1812, e sanzionata da S. M. Cattolica nel marzo di questo anno: salve le modificazioni che la rappresentanza nazionale, costituzionalmente convocata, crederà di proporci per adattarla alle circostanze particolari dei reali dominii.»

Francesco, vicario.


Ma non bastò, perocchè dicevano che non il vicario ma il re [p. 233 modifica]dovesse sottoscrivere una legge che mutava lo stato: nuovi tumulti circondarono la reggia, lo stesso decreto ricomparve firmato da Ferdinando; e così riempite tutte le voglie delle genti sommosse, la rivoluzione acchetò; altri moti di popolo si alzarono, Erano gridi festivi; erano applausi centuplicati al re. Altra città dicevi Napoli al 7 luglio: l’antica speranza compita nel popolo, la calma ritornata nella reggia; e così per conseguito bene, o per superati pericoli, universale contento. Nè macchia l’adombrava, perciocchè non erasi versata stilla di sangue, nè commesse offese, nè l’ordine delle cose perturbato: i negozii pubblici e i privati eransi trattali come in tempi di pace; il foro, la borsa, il banco, il corso, il teatro erano stati aperti alle faccende ed ai piaceri: i padri, i figliuoli dei giustiziati nel 99, quasi scordando la patite ingiurie, il versato sangue, il sentito dolore, partecipavano alle lodi del re, superbi nel pensiero che la presente libertà fosse effetto dell’antico martirio. Non era inteso dalla plebe, come innanzi ho detto, il significato politico della parola Costituzione; ma per accidental simiglianza di suono, il grossolano intelletto del popolo si scostava poco dal vero: nella gioja pubblica che ho descritto, un di coloro chiamati lazzari richiese ad altro della stessa classe, creduto di maggior senno, che mai significasse la voce festosa di costituzione; e quegli: «Sei solo a non saperlo? vuol dire la cauzione che il re dà a noi.» La parola cauzione, usatissima nei dieci anni del dominio francese, era intesa dal volgo.

VII. Furono ministri il conte Zurlo, il conte Ricciardi, il duca di Campochiaro, il general Carascosa, il cavaliere Macedonio; in parte gli stessi disegnati dal re fra le sollecitudini della rivoluzione, in parte mutati per volere del campo di Monteforte. Concordavano per cagioni diverse le scelte del re e dei novatori: il re credendo la rivoluzione opera dei murattiani, e volendo evitar le scosse e i pericoli, sceglieva tra loro i ministri: e gli altri, sino allora ultimi della società, non trovando in se stessi la fama e ’l merito dei primi impieghi, si volgevano ai nomi antichi, murattiani, non borbonici; perchè la monarchia di Murat era meno nemica di libertà che nol fosse stata in ogni tempo la monarchia dei Borboni, E tanto potè quel giudizio che il conte Zurlo, persecutore acerbissimo dei carbonari nel regno di Gioacchino, fu dai carbonari di Monteforte scelto ministro e commendato al re. Le nuove che di ora in ora giungevano dalle province sempre più dimostravano l’unità di quell’opera; ogni città, ogni terra, colle stesse voci, cogli stessi modi civili, erasi levata a tumulto; tutto il regno stava in armi ed in moto; ma poichè unica la volontà; unico il cammino, era immensa l’azione, nullo il disordine. Della quale uniformità fu cagione l’universale antico desiderio dei cittadini; fu mezzo operoso la [p. 234 modifica]carboneria, società vasta di possidenti, vaga di meglio e di quiete; fu ajuto la oziosa timidezza del governo. Le prime mosse erano dai carbonari e dal pubblico aspettate, ma non disposte; la rivoluzione quasi ad un punto invase il regno per celere progresso non per unico scoppio. Tanta civiltà fu nuova nei politici rivolgimenti; ed ora che ne vedemmo il fine debbe attristarci le condizioni della presente società, destinati a soffrire mal gradito governo, o a disordinarsi per sanguinose rivoluzioni, (giacchè i mutamenti civilmente fatti non durano) a peggiorare sotto il ritornato dispotismo.

Il generale Pepe accoglieva nei campi di Avellino e Salerno milizie, settarii, liberali delle vicine province; egli, non autore della rivoluzione, voleva ingrandirla per carpirne il frutto e la fama. E poi che radunò tanta gente, immaginò un trionfo. Scrisse lettere al vicario del regno, non preghevoli, non chiedenti, annunziatrici che in uno dei prossimi giorni avrebbe fatto ingresso nella città colle sue schiere militari e civiche, numerosissime, per argomento di universale assenso al mutato governo, e per maraviglia e terrore a coloro che pensassero di contrastarlo. Risvegliò quello annunzio le agitazioni della reggia, e subito il vicario spedì ambasciatori al campo per volgere o temperare i disegni del generale. Fu concordato che nella mattina del 9 la truppa costituzionale entrasse in città; che duemila e non più settarii o liberali seguissero le schiere ordinate; che da quel giorno il general Pepe assumesse il comando di tutte le forze militari della monarchia, e ’l ritenesse sino all’adunanza del parlamento; che quattro battaglioni di milizie civili restassero di presidio e di guardia nella reggia; che al dì seguente le genti soperchie partissero di città, le milizie per assegnate stanze, i cittadini per la loro patria. E non appena soddisfatto quel desiderio, altro ne surse. I costituzionali ai primi concitamenti, benchè si bandissero soggetto al re, avevan mutato lo stendardo borboniano, per vetustà venerato, ne’ colori nuovi e mistici della carboneria, e con quelle fogge volevano entrare trionfalmente in città. Ciò saputo, il governo inviò altri oratori, che per trattato fermarono di aggiungere all’antica bandiera del re (bizzarro innesto) la lista dei tre colori della setta.

In quel giorno 7 luglio andarono fogli circolari alle corti di Europa, nunzii del cambiamento politico di Napoli: il duca di Campochiaro gli scrisse. Vi stava adombrata la forza che il re pativa dai popolari tumulti; la quale sincerità, quando i fogli si palesarono, fu motivo di accusarne il ministro. Ma oltrachè le lettere del marchese Circello, scritte il giorno innanzi, avevano rapportato alle corti medesime lo stato delle cose e i pericoli, vedevasi la patita forza scolpita nella rapidità dei successi, nel vicariato, nel mutato ministero, nell’indole, nella storia del re. [p. 235 modifica]

VIII. A’ dì 8 le genti costituzionali attenderono presso alla città nel campo di Marte. La disciplina ab antico e per cento errori non ben salda nell’esercito, cadde appieno dopo la comunanza di soldati colpevoli e settarii licenziosi; erano quindi gli ordini confusi, la voce dei capi non intesa, le pene impossibili, gli stessi Pepe, de Concili, Menichini, tra loro discordi, non obbediti, non obbedienti. Non vedevi in quella moltitudine alcun uomo che meritasse il primato, o che tollerasse di esser secondo, mancavano la modestia e la ben fondata ambizione, perciò i mezzi all’impero ed all’obbedienza. Così nel campo. Nella città, sazio e lasso il tripudio, sì alzarono i sospetti: diffidavasi dell’antica polizia, altra ne fu scelta; si temè dei comandanti dei forti e furono cambati, sospettavasi che il danaro pubblico fosse involato, ebbero i settarii la custodia del banco; si disse che il re fuggiva, furono sguarnite le navi, guardato il porto. Era la stessa carboneria numerosa, operosissima, dì e notte armata, che bisbigliava quelle voci, le volgeva in sospetti, provvedeva ai rimedii. La quiete pubblica serbavasi sotto apparenze terribili, perchè un popolo in armi nella pace mostra la sovversione degli ordini sociali. Per innalzare un potere nuovo, al quale il nuovo stato ubbidisse a simiglianza delle cose di Spagna, fu instituita una chiamata giunta di governo, che insieme al vicario, imperando e reggendo, governasse sino alla convocazione del parlamento. La componevano quindici membri, proposti nel campo, eletti dal principe, tutti per uso esperti a tenere il freno dei popoli, amanti di monarchia, onesti, onorati, nessuno di Monteforte, nessuno carbonaro. Delle quali maraviglie ho spiegato altrove le cagioni.

IX. Il giorno 9, trionfale per il campo e festivo al pubblico, mesto ai Borboni, dubbioso a molti, era diversamente aspettato: chi lo diceva termine, chi principio della rivoluzione; altri credeva sollevata l’autorità del re, altri appieno depressa; i timidi e i maligni spargevano esser finta la modestia dei carbonari per giungere facilmente dove larga materia troverebbero alla rapina ed alle stragi. Fra pensieri ed affetti così varii, venuto quel giorno e sonata l’ora prefissa, procedono le schiere dal campo alla città. N’è avvertita la reggia, il re si trattiene nei più remoti penetrali contigui al castello; il vicario in abito da ceremonia sta colla famiglia nella stanza del trono, e dietro a lui la giunta, i ministri, i cortigiani; mancano solamente, benchè gentiluomini di corte, Medici, Circello, Tommasi. I suoni militari avvisano l’arrivo della prima schiera, e subito per onorarla va la corte ai balconi, ed i reali, come in segno di gioja, fanno sventolare i lini che poco innanzi avevano rasciugato lacrime di tristezza.

Un drappello dello squadrone sacro (così chiamarono dopo il successo la compagnia disertata da Nola) precedeva la colonna, [p. 236 modifica]seguivano le bande musicali, poscia il general Pepe che sconciamente imitava le fogge e il gesto del re Gioacchino; stavano a’ suoi fianchi il general Napoletani e de Concili: succedevano le schiere ordinate, tra le quali alcuni battaglioni che il giorno innanzi per vaghezza o comando rifuggirono al campo; l’ultima schiera dello prima mostra era il superbo reggimento dei dragoni. Profondo sentimento di alcun fallo pungeva la coscienza di queste genti, e la quasi universale riprovazione temperava gli applausi; si vedeva in quella pompa il giuramento mancato, calpestata la disciplina, trasfigurata la natura delle milizie, e di tante colpe non il castigo, ma il trionfo.

Alle schiere soldate succedevano le milizie civili: cittadini quei militi, e di cittadina causa sostenitori, sentivano allegrezza onesta e nei circostanti la spargevano, gridavano evviva alla costituzione ed al re; il pubblico rispondeva evviva ai militari; e quei saluti di onore, confusi insieme, si mutavano in suono festante, alto, universale, che non finì, se non quando nuovo spettacolo si offerse, l’abate Menichini e i suoi settarii. Egli vestito da prete, armato da guerriero, profusamente guernito dei fregi della setta, precedeva a cavallo sette migliaja di carbonari, plebei e nobili, chierici e frati, diffamati ed onesti, senza ordinanze, senza segno d’impero e di obbedienza, mescolati, confusi. La qual truppa, non curante degli applausi altrui, da sè applandivasi col grido: Viva i carbonari, tal che a vederla era brigata non militare o guerriera, nè veramente civile, bensì ebbra e festosa., Appena scoperta dai balconi della reggia, il vicario comandò che ognuno attaccasse al petto il segno di carboneria, ed egli e i principi della casa se ne ornarono i primi; fu seguito l’esempio, e se qualcuno non era sollecito a provvedere i tre nastri (rosso, nero, turchino) gli aveva nella reggia vaghissimi, figurati a stella, dalla mano della duchessa di Calabria. Tanto potea timore, o arte di regno, o già inganno.

Finita la rassegna ed avviate le schiere agli apprestati alloggiamenti, andarono alla reggia Pepe, Napoletani, de Concili, Morelli, Menichini, e subito, corteggiati, passarono alla gran sala delle cerimonie, dove il vicario gli attendeva. S’inchinarono sommessamente a lui che cortesemente gli accolse, e Pepe disse: «Quando giunsi al campo costituzionale, la rivoluzione era fatta, e però fu mio pensiero dirigerla per il bene dello stato e del trono. Gli «uomini armati, che ho mostrato a V. A. R., ed altri a mille, trattenuti nelle province o rinviati, non sono ribelli ma sudditi, e perciò quelle armi non si rivolgono a rovina del trono, ma in sostegno. Fu necessità per me durissima prendere a patto il comando supremo dell’esercito, perocchè, meno anziano e tanto meno meritevole dei miei colleghi, ripugno all’autorità quanto [p. 237 modifica]essi forse alla dipendenza; ora S. M. e V. A, possono accorciare (e le ne prego) la nostra comune inquietudine. convocando prestamente la rappresentanza nazionale. Io giuro al venerando cospetto di V. A. e di questi primi dello stato, che discenderò dal presente grado assai più lietamente di quel che oggi vi ascendo.»

Il vicario rispose: «S. M. il re, la nazione, noi tutti dobbiamo gratitudine all’ esercito costituzionale, ed a voi suoi degni capi. Il voto pubblico è manifesto per la natura istessa del seguito cambiamento: il governo oggi mutato non aveva il consenso dei soggetti, il trono non era saldo; ora è saldissimo che poggia sulle volontà e gli interessi del popolo. Il re, che nelle sue stanze vi attende, manifesterà egli stesso i suoi sentimenti, io qui i miei. Nato per i decreti della divina mente erede del trono, era mio debito lo studio della monarchia e dei popoli, sì che d’ assai tempo son persuaso essere riposta la stabilità di quella, la felicità di questi (per quanto lice alle cose mondane) nel governo costituzionale. La persuasione politica si convertì, come a principe cristiano si aspettava, in domma religioso, e pensai e penso che non potrei con calma di coscienza reggere un popolo per mio solo ingegno, e per atti della mia sola come che purissima volontà. Se dunque riconosco in voi la salute del regno, la durevole prosperità della mia stirpe, la pace dell’animo, doni sì grandi agguaglierà la mia gratitudine, che non sarà spenta o scemata per mutar di fortuna o di tempi.

Voi, general Pepe, acchetate le inquietudini prodotte da generosi pensieri, esercitate la suprema militare autorità senza ritegno; perocchè i generali han mostrato compiacimento della vostra elevazione da stupendi fatti e singolar merito giustificata, così che le opere han superato il camminar lento degli anni.

In quanto alla costituzione di Spagna, oggi ancor nostra, io giuro (e alzò la voce più di quel che importava l’essere udito) di serbarla illesa, ed all’uopo difenderla col sangue....» Ed altro forse dir voleva, ma la commozione degli astanti vinse rispetto, e da cento evviva il discorso fu rotto.

Poscia que’ cinque, guidati dal vicario, passarono alle stanze dove il re gli attendeva; mentre gli uffiziali di ogni grado si assembravano nel vasto edifizio del ministero di guerra per aspettare il generale e fare omaggio ed atto di obbedienza al nuovo impero. Il re stava disteso sul letto per infermità o infingimento: Pepe avvicinatosi piegò a terra il ginocchio, baciò la mano che da sessant’anni reggea lo scettro, e, sollevatosi, reiterò con più modesta voce le cose poco innanzi dette al figlio. E quei rispose: «Generale, avete reso gran servizio a me ed alla nazione, e però doppiamente ringrazio voi ed i vostri. Impiegate il supremo comando dell’esercito [p. 238 modifica]a compiere l’opera colla cominciata santa pace, che tanto onorerà i Napoletani. Avrei data innanzi la costituzione, se me ne fosse stata palesata l’utilità o l’universale desiderio; oggi ringrazio l’onnipotente Iddio per aver serbato alla mia vecchiezza di poter fare un gran bene al mio regno.» E ciò detto, licenziò col cenno gli astanti, porgendo al generale la destra, ma con tal alto che lo invitava a baciarla. Il generale la ribaciò e partì, sollecito di cogliere nelle sale del ministero le dolci primizie della fortuna e del comando.

Ma per foga di desiderio e per lo smarrimento che accompagna le subitanee altezze, fu smorta la comparsa, impedito e rotto il discorso, languida e taciturna l’accoglienza; troppo rapido era stato il passaggio dalla soggezione all’impero, troppo immeritata quella grandezza, troppo sentita la ingiustizia del caso. Le milizie assoldate, le civili e i settarii tennero nella città disciplina severissima; parevano genti anziane in tempi riposati, sotto robusta monarchia. Gli animi più timidi si rassicurarono, la rivoluzione venne in grazia dei più austeri. Le luminarie degli edifizii prolungarono nella notte il conversare e la festa, che solamente dalla stanchezza dei moti e del piacere fu chiusa.

X. A sostegno delle pubbliche speranze dicevasi che il re, debole per vecchiezza, sbattuto e stanco di vicende, propenso ai comodi ed ai piaceri, soffrirebbe l’abbandono di qualche regia facoltà in mercè di quiete; e che il duca di Calabria, nuovo ai barbari diletti del dispotismo, non avrebbe in odio la temperata libertà, quale in monarchia costituzionale. E perciò di quei principi si estimavano sincere le protestazioni e le promesse. Ma pure fra le speranze si affacciava l’istoria severa del passato, e versava sospetto nella mente del popolo; per lo che fu chiesto al re che solennemente giurasse la conceduta costituzione. Subito aderì; ed al mezzogiorno del 13 luglio, nel tempio del palazzo, al cospetto della giunta, del ministero, dei capi dell’esercito, dei grandi della corte e di alcuni del popolo, dopo il sacrifizio della messa salì sull’altare, stese la mano sicura sul Vangelo, e con ferma ed alta voce pronunciò: «Io Ferdinando Borbone, per la grazia di Dio e per la costituzione della monarchia napoletana, re, col nome di Ferdinando I, del regno delle due Sicilie, giuro in nome di Dio e sopra i santi Evangeli che difenderò e conserverò....» (Seguivano le basi della costituzione, poi diceva): «Se operassi contra il mio giuramento o contra qualunque articolo di esso, non dovrò essere ubbidito; ed ogni operazione con cui vi contravvenissi, sarà nulla e di nessun a valore. Così facendo, Iddio mi ajuti e mi protegga: altrimenti, me ne dimandi conto.»

Il profferito giuramento era scritto. Finito di leggerlo, il re alzò [p. 239 modifica]il capo ai cielo, fissò gli occhi alla croce, e spontaeco disse: «Onnipotente Iddio che collo sguardo infinito leggi nell’anima e nello avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, tu in questo istante dirigi sul mio capo i fulmini della tua vendetta.» E ribaciò il Vangelo. Aggiungevano fede la canizie, il vecchio volto. il pensiero ch’ei fosse il più anziano dei re di stirpe antichissima fra le regnanti. Giurarono, un dopo l’altro, il duca di Calabria e il principe di Salerno, che prostrati al vecchio re e padre, e da lui sollevati e benedetti, si abbracciarono lietamente; imperciocchè le lagrime che si vedevano sugli occhi al primo parevano di allegrezza. Nello stesso giorno e nei succedenti continuarono nella città e nel regno le cerimonie del giuramento: giurarono i timidi, i renitenti, gli avversi; si rassicurarono le coscienze per fino di Pepe, de Concili, Menichini, Morelli; e solamente allora nel giudizio del popolo, come già nel fatto, l’antico governo fu mutato.