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LIBRO NONO — 1820. 235


VIII. A’ dì 8 le genti costituzionali attenderono presso alla città nel campo di Marte. La disciplina ab antico e per cento errori non ben salda nell’esercito, cadde appieno dopo la comunanza di soldati colpevoli e settarii licenziosi; erano quindi gli ordini confusi, la voce dei capi non intesa, le pene impossibili, gli stessi Pepe, de Concili, Menichini, tra loro discordi, non obbediti, non obbedienti. Non vedevi in quella moltitudine alcun uomo che meritasse il primato, o che tollerasse di esser secondo, mancavano la modestia e la ben fondata ambizione, perciò i mezzi all’impero ed all’obbedienza. Così nel campo. Nella città, sazio e lasso il tripudio, sì alzarono i sospetti: diffidavasi dell’antica polizia, altra ne fu scelta; si temè dei comandanti dei forti e furono cambati, sospettavasi che il danaro pubblico fosse involato, ebbero i settarii la custodia del banco; si disse che il re fuggiva, furono sguarnite le navi, guardato il porto. Era la stessa carboneria numerosa, operosissima, dì e notte armata, che bisbigliava quelle voci, le volgeva in sospetti, provvedeva ai rimedii. La quiete pubblica serbavasi sotto apparenze terribili, perchè un popolo in armi nella pace mostra la sovversione degli ordini sociali. Per innalzare un potere nuovo, al quale il nuovo stato ubbidisse a simiglianza delle cose di Spagna, fu instituita una chiamata giunta di governo, che insieme al vicario, imperando e reggendo, governasse sino alla convocazione del parlamento. La componevano quindici membri, proposti nel campo, eletti dal principe, tutti per uso esperti a tenere il freno dei popoli, amanti di monarchia, onesti, onorati, nessuno di Monteforte, nessuno carbonaro. Delle quali maraviglie ho spiegato altrove le cagioni.

IX. Il giorno 9, trionfale per il campo e festivo al pubblico, mesto ai Borboni, dubbioso a molti, era diversamente aspettato: chi lo diceva termine, chi principio della rivoluzione; altri credeva sollevata l’autorità del re, altri appieno depressa; i timidi e i maligni spargevano esser finta la modestia dei carbonari per giungere facilmente dove larga materia troverebbero alla rapina ed alle stragi. Fra pensieri ed affetti così varii, venuto quel giorno e sonata l’ora prefissa, procedono le schiere dal campo alla città. N’è avvertita la reggia, il re si trattiene nei più remoti penetrali contigui al castello; il vicario in abito da ceremonia sta colla famiglia nella stanza del trono, e dietro a lui la giunta, i ministri, i cortigiani; mancano solamente, benchè gentiluomini di corte, Medici, Circello, Tommasi. I suoni militari avvisano l’arrivo della prima schiera, e subito per onorarla va la corte ai balconi, ed i reali, come in segno di gioja, fanno sventolare i lini che poco innanzi avevano rasciugato lacrime di tristezza.

Un drappello dello squadrone sacro (così chiamarono dopo il successo la compagnia disertata da Nola) precedeva la colonna,