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234 LIBRO NONO — 1820.

ria, società vasta di possidenti, vaga di meglio e di quiete; fu ajuto la oziosa timidezza del governo. Le prime mosse erano dai carbonari e dal pubblico aspettate, ma non disposte; la rivoluzione quasi ad un punto invase il regno per celere progresso non per unico scoppio. Tanta civiltà fu nuova nei politici rivolgimenti; ed ora che ne vedemmo il fine debbe attristarci le condizioni della presente società, destinati a soffrire mal gradito governo, o a disordinarsi per sanguinose rivoluzioni, (giacchè i mutamenti civilmente fatti non durano) a peggiorare sotto il ritornato dispotismo.

Il generale Pepe accoglieva nei campi di Avellino e Salerno milizie, settarii, liberali delle vicine province; egli, non autore della rivoluzione, voleva ingrandirla per carpirne il frutto e la fama. E poi che radunò tanta gente, immaginò un trionfo. Scrisse lettere al vicario del regno, non preghevoli, non chiedenti, annunziatrici che in uno dei prossimi giorni avrebbe fatto ingresso nella città colle sue schiere militari e civiche, numerosissime, per argomento di universale assenso al mutato governo, e per maraviglia e terrore a coloro che pensassero di contrastarlo. Risvegliò quello annunzio le agitazioni della reggia, e subito il vicario spedì ambasciatori al campo per volgere o temperare i disegni del generale. Fu concordato che nella mattina del 9 la truppa costituzionale entrasse in città; che duemila e non più settarii o liberali seguissero le schiere ordinate; che da quel giorno il general Pepe assumesse il comando di tutte le forze militari della monarchia, e ’l ritenesse sino all’adunanza del parlamento; che quattro battaglioni di milizie civili restassero di presidio e di guardia nella reggia; che al dì seguente le genti soperchie partissero di città, le milizie per assegnate stanze, i cittadini per la loro patria. E non appena soddisfatto quel desiderio, altro ne surse. I costituzionali ai primi concitamenti, benchè si bandissero soggetto al re, avevan mutato lo stendardo borboniano, per vetustà venerato, ne’ colori nuovi e mistici della carboneria, e con quelle fogge volevano entrare trionfalmente in città. Ciò saputo, il governo inviò altri oratori, che per trattato fermarono di aggiungere all’antica bandiera del re (bizzarro innesto) la lista dei tre colori della setta.

In quel giorno 7 luglio andarono fogli circolari alle corti di Europa, nunzii del cambiamento politico di Napoli: il duca di Campochiaro gli scrisse. Vi stava adombrata la forza che il re pativa dai popolari tumulti; la quale sincerità, quando i fogli si palesarono, fu motivo di accusarne il ministro. Ma oltrachè le lettere del marchese Circello, scritte il giorno innanzi, avevano rapportato alle corti medesime lo stato delle cose e i pericoli, vedevasi la patita forza scolpita nella rapidità dei successi, nel vicariato, nel mutato ministero, nell’indole, nella storia del re.