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238 LIBRO NONO — 1820.

a compiere l’opera colla cominciata santa pace, che tanto onorerà i Napoletani. Avrei data innanzi la costituzione, se me ne fosse stata palesata l’utilità o l’universale desiderio; oggi ringrazio l’onnipotente Iddio per aver serbato alla mia vecchiezza di poter fare un gran bene al mio regno.» E ciò detto, licenziò col cenno gli astanti, porgendo al generale la destra, ma con tal alto che lo invitava a baciarla. Il generale la ribaciò e partì, sollecito di cogliere nelle sale del ministero le dolci primizie della fortuna e del comando.

Ma per foga di desiderio e per lo smarrimento che accompagna le subitanee altezze, fu smorta la comparsa, impedito e rotto il discorso, languida e taciturna l’accoglienza; troppo rapido era stato il passaggio dalla soggezione all’impero, troppo immeritata quella grandezza, troppo sentita la ingiustizia del caso. Le milizie assoldate, le civili e i settarii tennero nella città disciplina severissima; parevano genti anziane in tempi riposati, sotto robusta monarchia. Gli animi più timidi si rassicurarono, la rivoluzione venne in grazia dei più austeri. Le luminarie degli edifizii prolungarono nella notte il conversare e la festa, che solamente dalla stanchezza dei moti e del piacere fu chiusa.

X. A sostegno delle pubbliche speranze dicevasi che il re, debole per vecchiezza, sbattuto e stanco di vicende, propenso ai comodi ed ai piaceri, soffrirebbe l’abbandono di qualche regia facoltà in mercè di quiete; e che il duca di Calabria, nuovo ai barbari diletti del dispotismo, non avrebbe in odio la temperata libertà, quale in monarchia costituzionale. E perciò di quei principi si estimavano sincere le protestazioni e le promesse. Ma pure fra le speranze si affacciava l’istoria severa del passato, e versava sospetto nella mente del popolo; per lo che fu chiesto al re che solennemente giurasse la conceduta costituzione. Subito aderì; ed al mezzogiorno del 13 luglio, nel tempio del palazzo, al cospetto della giunta, del ministero, dei capi dell’esercito, dei grandi della corte e di alcuni del popolo, dopo il sacrifizio della messa salì sull’altare, stese la mano sicura sul Vangelo, e con ferma ed alta voce pronunciò: «Io Ferdinando Borbone, per la grazia di Dio e per la costituzione della monarchia napoletana, re, col nome di Ferdinando I, del regno delle due Sicilie, giuro in nome di Dio e sopra i santi Evangeli che difenderò e conserverò....» (Seguivano le basi della costituzione, poi diceva): «Se operassi contra il mio giuramento o contra qualunque articolo di esso, non dovrò essere ubbidito; ed ogni operazione con cui vi contravvenissi, sarà nulla e di nessun a valore. Così facendo, Iddio mi ajuti e mi protegga: altrimenti, me ne dimandi conto.»

Il profferito giuramento era scritto. Finito di leggerlo, il re alzò