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LIBRO NONO — 1820. 239

il capo ai cielo, fissò gli occhi alla croce, e spontaeco disse: «Onnipotente Iddio che collo sguardo infinito leggi nell’anima e nello avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, tu in questo istante dirigi sul mio capo i fulmini della tua vendetta.» E ribaciò il Vangelo. Aggiungevano fede la canizie, il vecchio volto. il pensiero ch’ei fosse il più anziano dei re di stirpe antichissima fra le regnanti. Giurarono, un dopo l’altro, il duca di Calabria e il principe di Salerno, che prostrati al vecchio re e padre, e da lui sollevati e benedetti, si abbracciarono lietamente; imperciocchè le lagrime che si vedevano sugli occhi al primo parevano di allegrezza. Nello stesso giorno e nei succedenti continuarono nella città e nel regno le cerimonie del giuramento: giurarono i timidi, i renitenti, gli avversi; si rassicurarono le coscienze per fino di Pepe, de Concili, Menichini, Morelli; e solamente allora nel giudizio del popolo, come già nel fatto, l’antico governo fu mutato.

CAPO SECONDO.

Discordie civili, e primi pericoli del novello reggimento.


XI. Compiuta quell’opera, e dall’universale creduta magnifica, onorevole, gli operatori misuravano il merito della impresa non più dalla pochezza dei travagli, ma dalla vastità dei successi; e però, vinta la modestia dei primi giorni, ambivano apertamente cariche ed onori. Ma già i ministri murattiani avevano messo ai più alti gradi della monarchia altri murattiani, e questi ancor altri; sì che le ambizioni di Monteforte salirono, si frammise dispetto e discordia fra due genti di vicina politica; e nelle opinioni del mondo acquistava peso il falso grido che la rivoluzione di Napoli fosse stata operata dai murattisti. Governavano i murattisti, che per età già matura, fortuna già compiuta, conoscenza dei popoli ed invecchiate abitudini piegavano all’antico della monarchia più che al nuovo della setta. Il solo general Pepe, benchè della stessa gente, aveva volontà e persuasioni da carbonaro; ma quel generale, buono al certo ed onesto, era di grosso ingegno, datosi alla rivoluzione, senza possederne le arti, per cupidigia di pubblico bene, non che di propria fama e potenza.

In alcune province (due Principati, Basilicata, Capitanata) si composero governi proprii, collegati da vicendevoli patti; e gli autori brigavano che le altre province imitassero l’esempio, acciò la costituzione del regno fosse la confederazione delle province. Ma quelle democratiche fantasie, non essendo nella volontà e nello interesse del maggior numero, ai primi provvedimenti del governo