Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli (1920)/XX. Messer Niccolò Rosso

XX. Messer Niccolò Rosso

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XIX. Tenzone tra ser Luporo da Lucca e Castruccio degli Antelminelli XXI. Ser Marino Ceccoli
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XX

MESSER NICCOLÒ DEL ROSSO

I

La donna amata, col suo disdegno, lo fa soffrire assai.

Amor, quando sopra m’apresti l’arco,
l’anema mia scolorita e fiappa,
temente stretta sotto la tua cappa,
4ché non pò sostenere tanto carco,
ver’la sdegnosa fuzendo, fe’ varco
a la Morte, che’l tristo core aggrappa;
lo qual clamò quella, che da lui scappa:
8— Dolze sore, sai de che mi rimarco?
Tu ti starai cum nostra donna en tregua,
ni pesaratti di’ mei crudel urli:
11ch’ella mi scazza e non vói ch’eo la segua.
E, s’eo non trovo merzé, che mi burli
a lei, che m’ha za spinto en color nigro,
14questo fará zascun d’amarla pigro. —

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II

Pare invece alla donna di essere lei trascurata.

Un spirto per messazo me apparto,
e dissemi: — Amico, or mi favella;
contra la tua donna, ch’è tanto bella,
4credo che tu se’ molto enfellonio.
A lei gli pare che l’abbi ’n oblio,
però ch’unqua tu non andasti ad ella;
et ancor pezo: ché alcuna novella
8de ti non seppe, po’ che se pardo. —
Allora de pietá devenni smorto,
e si ’l pregai: — Amor, non mi gabbare
11ché sol quando la vezo mi conforto. —
Et él respose: — Non ti dubitare,
ch’eo non ti so’busadro né mai fui; —
14possa sparitte, ch’eo noi vidi plui.

III

Ella ritorna, e il cuor del poeta si rinfranca.

Lassomme i spirti mei, ch’eran fuziti,
lunga stasone quasi senza vita;
ma, possa che tornonno, spero aita:
4ch’i’ sento el cor chèder un: — Appariti
frategli, che da me fosti smarriti
sempre che nostra donna fu partita,
or serebb’ella ancor forsi redita?
8Ditelmi vui: ché si zogliosi siti. —
Rispose l’anema: — Oi dolze amico,
di e notte continuo stemmo sego,
11et ora ella è venuta, zò te dico.
Dunque, se vói vederla, vieni mego,
si che gli odi dolenti se conforti,
14che planzendo sono presso che morti. —

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IV

Vicino o lontano, Amore lo fa sempre penare.

Amor tanto me strinze, zentil donna,
sendo luntano, ch’ai cor non mi luze
cosa veruna, che gli renda luze,
4per gli odi, c’hanno manco de ti, donna.
Poi, quando so’ presente, dolze donna,
un fulgóre me fiere di tua luze,
vezendo ch’altri d’essa prende luze
8piu, che non si conviene, per ti, donna.
Unde lo spirto, che me tiene verde,
desidera non esser a quel tempo;
11ma pur consuma mirando nel verde.
E l’alma, che conosse ’l tristo tempo,
clama la Morte, che fenisca il corpo,
14si ch’ella abenti dissolta dal corpo.

V

E sempre lo terrá legato.

I fioretti e l’erbetta fresca e verde
e zascun árbore, che teme il freddo,
la sua vertute occultano per freddo,
4tanto che pèrdono lo color verde.
Ma questa zentil pola fatta verde
cum gli odi mi ha feruto a morte freddo,
azzendendomi ’l cor nel tempo freddo,
8si ch’è consunto e zá presso ch’ai verde.
Cusi, per caldo e zelo, piu, che marmo,
mi trovo fermo di servirla sempre,
11fin ch’eo mi colcarò sepolto in marmo.
Poi l’alma ennamorata stará sempre
denanti Amore come fusse donna,
14per martiro da man di bella donna.

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VI

Lamenta il suo vano affaticarsi per amore.

Questa gnuda d’Amore eo ammantai:
sic vos non vobis veliera fertis, oves;
e rúgida ne l’atto redrezzai:
4sic vos non vobis fertis aratro, boz es.
E lo core a pietate gli formai:
sic vos non vobis nidificati, aves;
poi cum dulci desiri l’allevai:
8sic vos non vobis mellificati, afies.
Unde, come il poeta d’esti versi,
mi lamento di zò, che m’è avvenuto,
11contra zascun, che mi pò dare aiuto.
Ché solo gli pensieri mei diversi
e l’umele parlar de le sue lode
14m’hanno depresso, et altri se ne gode.

VII

Dovrá sempre perseverare nella sua amorosa servitú.

Zentil desiro — mi venne nel core,
forte pregando — che él gli mostrasse
qual è ’l martiro — per forza d’Amore,
4che tormentando — a la fine lo trasse.
Allora quello — cum molto splendore
aperse le porte, — per che mirasse
lo bel zoello, — che, come signore,
8gli pò dar morte — se ver’lui fallasse.
Et a la dura, — quando ebbe veduta
la dolce figura, — e lei conossuta,
11clamommi: — Amico, —sai che ti conseglio?
Se tu il pòi fare, — che sempre la tegni,
ni, per penare, — za mai non ti sdegni:
14credi ch’eo dico — di fermo il tuo meglio. —

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VIII

Si raccomanda a Dio contro la disdegnosa.

In manus tuas. Domine, commendo
spiritum meum t ché nel core sento
gloriarsi la desdegnosa, c’ha vènto
4zascuna mia vertú, lor combattendo.
E, poi che sola se vede, ridendo
dice: — Oi Dio, quanto me contento
che non pò piú custui aver abento,
8a tanto è za condutto, mi servendo! —
L’alma, ch’entende le crudel minazze,
per gran téma de lei se ne vói zire;
11und’eo la recomando en le tue brazze:
ché troppo sostegno mazor martire
d’omo, che fusse decollato mai;
14ch’eo perdo il corpo, e ’l spirto traze guai.

IX

La crudele è cosí bella, che non può che amarla sempre.

Cotanto placente esser e zogliosa,
Amor, eo vidi, innamorato stando,
la tua crudele, et entrarmi amorosa,
4a’ spirti mei irata minazzando
de dar la morte, en loco di riposa,
a tutti, tutti insieme lei clamando;
ch’eo dico: — Questa m’è amica e pietosa, —
8ancor ne sia amaro zò pensando.
E non vi temo ormai nulla paura;
anzi mia vertú vale, se li plaze,
11per zascun modo, oltra che pò natura.
Aitime tu venir a sua paze:
ché la vita terrò onnora secura,
14amandola piú vertuoso e veraze.

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X

La sua donna gli sta chiusa nel cuore.

Sconossuto a modo di pellegrino,
un di’ mei spiriti, la barba lunga,
a fretta, che gli par tardi ch’él zunga,
4attorno il cor mi venne a capo clino.
E, quando vette Pusso, da vicino,
eluso, sol solo se gli mise a lunga,
forte planzendo: — Quel fie, che mi punga,
8dov’è culei, che mi mandò a topino! —
L’anema, che ’l cognobbe, corse a lui,
e disse: — Qui dentro è la donna nostra
11rimasa, poi che scazzò tutti vui.
Et ancor sdegnosa ver’me si mostra;
però ti prego che non facci motto,
14ché, s’ella il sente, ni uccidrá d; botto. —

XI

Ma un’altra bella creatura tenta di farsi amare da lui.

Donzella bianca, formosa e zentile
a mi apparve entro una nubeletta,
cum tal splendor purificata e netta,
4che Toclo mio smagato e fatto vile
non ebbe la vista tanto sottile,
che comprendesse donna si perfetta:
per che le creature, che Passetta,
8la conzedono solo a core umile.
Ma, per sua grazia, mi envitò soave,
ch’essa volea venire tra gli absolti
11spiriti mei, se gli dessen la clave.
E quigli, ch’eran d’altro amor envolti,
lei non conobbe, si ch’ella spario:
14und’eo remasi tristo et empendo.

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XII

Duro è il contrasto tra il vecchio e il nuovo amore.

Gli spiriti e’ deletti e gli pensieri
e’ sensibel movimenti cum igli
piglionno lo meo cor per gli capigli,
4forte battendolo come guerrieri.
E cridan:— Tristo, él fa pur mistieri
che tu zi mostri a che cosa ti appigli
per tua voglia, senza nostri consigli,
8e che desiri son gli toi si fieri. —
Unde per forza l’apèrsono dentro,
e vette quella, che l’occupa tutto,
11cum molti guai, standoli nel centro.
Allor gli comandonno che al postutto
la dovesse lassar, e si purgarvi,
14che questa donzella potesse entrarvi.

XIII

Né senza opposizione il nuovo viene trionfando.

L’anema planze per suspiri molti:
ché vede questa donzella, nel core,
pensosa, cum vergognoso colore,
4lamentarsi quando trova dissolti
gli spirti mei, che dovrian esser vólti
del tutto a lei, ponendo il suo amore,
e membrar si gli tempi del dolore,
8che per l’orgoiosa gli hanno za colti.
Unde però la lacremosa piglia
una sua spada per volergli anzire:
11se non che la zentile la repiglia;
e quella pur prega: — Lassa morire
gli forsennati, che non ti conosse
14in la tua gloria, ni l’altrui angosse! —

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XIV

Ma infine la novella fiamma prevale.

Poi ch’el cor mi remase senza affanno
per questa bianca donna, che vi venne,
onni meo spirto beato si tenne,
4e tutti en croce denanti lei stanno.
E zascun mostra quant’angossa e danno
cuna l’orgoiosa scazzata sostenne;
qual planze ’l tempo, qual doglie, qual penne,
8e qual, feruti, ancor Tassati vanno.
Cusi tra loro lieta zonse l’anema,
e, tenendosi a lato stretto Amore,
11disse: — Mirati custui, che per mánema,
per vostra campa, vói pregar quel fiore,
che vui vedéti qui tanto zogliosa,
14adorna e bella: e mai non fu sdegnosa. —

XV

Il cuore del poeta è ormai preso.

Pietate, a cui spesso me comando,
che erette l’alma dal meo corpo sciolta,
venne per farmi onor cum zente molta
4e preti, «Requiem eternavi» cantando.
Allor smaritti, ch’i’era solo quando
vidi cotanta turba insieme accolta;
a lei piacque che non mi trovò tolta
8la vita, come mostrò mego stando.
Possa contommi: — Eo casonai a torto
Amor, che stretto portava il tuo core:
11per ch’eo pensai che él t’avesse morto. —
Et eo dissi: — Donna di tal valore
gliel diede, ch’él non pò rezever fitte. —
14linde, lieta di zò, da mi spartitte.

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XVI

Amore gli si è insediato dentro il cuore.

Zovene cavalier de senno antico
cum sua compagna mi venne nel core,
per albergarsi sego e farli onore,
4come a casa di lor fedele amico.
Ma lo spirito di vertú mendico,
che nel mezzo si posa et è segnore,
non recognobbe che él fosse Amore,
8e tutto si oscurò quasi nemico.
Se non che l’altra zente lo represe:
— Tristo, ché non receve tu custui,
11di tanta fama, zentil e cortese? —
Poi quello, più per vergogna d’altrui,
che per bontade, lo recolse e tène,
14si ch’ancor spero de lui alcun bene.

XVII

I benefici, che gli vengono dal novello affetto.

Ver’lo meo cor l’anima si rasona:
— Se per amor altra donna ti pigne,
che la zentil donzella, che ni strigne,
4considera primo la lor persona,
e poi quanta paze questa zi dona
cum le sue opre strenue e benigne
d’onore, di merto e di loda digne,
8e come di vertú porta corona.
E pénsati ch’en onne nostro adverso,
sempre che tu la rechèdi, ti porze
11valor e forza, ché seresti perso;
et anche senza toi preghi si accorze
di consolami, s’eo ben mi recordo. —
14Respose il cor: — Sorella, eo me ne accordo. —

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XVIII

La soave donzella placa l’agitato animo del poeta.

Vengono tra gli spirti mei piú volte
diverse fitte, che tutti gli squassa,
qual per disio, qual per fortuna bassa,
4secondo le varietá, ch’ènno molte.
E quigli cum le membra fiacche e sciolte,
come fosser morti, cader si lassa:
se non che l’anima, che linde passa,
8crida:— Che fate vui, oi zente stolte?
Or non vedete qui starsi nel core
questa donzella piena di vertute,
11matre e figliuola e sposa d’Amore?
Pregate lei, che vi può dar salute! —
Allor gli dolenti chèdono abento,
14e quella ognun di paze fa contento.

XIX

E gli assicura la beatitudine.

Lo core clama li spiriti, e crida:
— Venite ne la mente dentro al coro,
ché quine dèe esser lo consistoro,
4per mandato di questa, che zi guida. —
Unde l’alma lieta, che par che rida,
ad uno et altro dize di costoro:
— Vedrete za lo nobele tesoro,
8ch’Amor ni presta, tanto a nui se fida. —
Allor andonno al loco deputato,
e li trovón la donzella formosa,
11si splendida, ch’ognun vi fu abbagliato.
Poi quella, per la sua vertú pietosa,
gli fa beati di zò, che gli plaze;
14cusi denanti a lei vivono en paze.

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XX

Qualche pensiero colpevole è tosto soffocato...

Uno pensèro armato e ben fornito,
posto per guardia presso a la mia mente
da la donzella, per cui amor sente
4gli spirti paze, ver’lei ’nfellonito,
mostrava a quigli dove igli è ferito
da dui begli odi tanto fortemente,
che nulle arme li fu sufficiente;
8e ’l cor di zò quasi era za invilito.
Allora l’alma il pigliò per la gonna,
e disse: — Mal villan, eo ve desfido,
11ché vui parlati contra nostra donna.
E per poco lasso ch’eo non vi uccido; —
possa gli tolse lo coretto e ’l scudo,
14e, come traditor, lo scazzò gnudo.

XXI

... o ricondotto nella dritta via.

L’anema e la mente e li spirti mei
présono un desio dal cor sviato,
e menollo, le man drieto ligato,
4denanti a la donzella teso a’ pèi,
che’n él siede, clamando: — Tu dèi
uccidere custui, che ha tanto errato,
ch’él non remane per lo suo peccato
8che tutti nui non deventamo rei. —
E, quando la zentil sei vide appresso,
col capo clino, planzer di vergogna,
11de lui pietosa, lo disciolse adesso.
Poi disse: — Iusticia qui non besogna;
und’eo ti perdono, e si ti prego
14che tu non falli piu: e statte mego. —

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XXII

Una seconda e piú perfetta Beatrice è scesa in terra.

Se’ tu Dante, oi anima beata,
che vai cherendo la tua Beatrize?
Ben so che fusti a la Mente felize,
4sol per trovarla en cielo coronata.
Ma vee che Deo zi l’ha qua zu mandata
cum anzelica forma, en sua vize;
tu non la conosserai, zò me dize
8lo core meo, tanto è purificata.
Or vieni mego, e, quando cernerai
una onestate vestita di nero,
11negli atti soi tu te ne accorzerai,
per fermo, ch’essa è quella, di vero,
che sempre laldasti per cosa netta:
14salvo ch’or di beltá è piú perfetta.

XXIII

Il poeta si smarrisce per tanto eccesso di soavitá.

Tremano i spiriti mei di paora,
sentendo che suso lo cor mi scende
la nova donna, che tutti gli azzende
4si forte, che zascun de lei innamora.
Poi l’uno a l’altro dize: —Sa’tu ancora
chi sia custei, che quine tanto splende?
Ella pur ne saetta, e non entende
8gli nostri preghi, ma vói ch’ognun mòra. —
Cusi clamonno Amor, che vedea sego,
che fusse interprete digli affannati;
11et él respose: — Vui fate mal prego:
ché sol per sua beltá quasi cascáti;
pensáti ormai se bene la entendesti:
14ché di dolzezza ve s memori aresti. —

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XXIV

Vuol tacere le lodi della sua donna per non farla insuperbire.

Credetti, Amor, che si mostrasse acerba
questa crudele, s’el meo dir en rima
non la clamass’d’onn’altra donna cima,
4ponendo de te e lei una conserba;
si che però ver’me tanto è soperba,
udendo le lode, che la sublima,
che mi sottraze quel guardo, ch’en prima
8mi fo soave, et or mi spolpa e snerba.
Dunque, voglio tazer per non dar danno
agli altri amanti, ché non se casoni
11trovar nel bel viso veruno adanno.
Avvegna ch’el cor sempre mi rasoni:
— Tu farai canti e canzon per un doi,
14tosto che fie plazer digli odi soi. —

XXV

Ma non può fare ch’ella non gli dia grandi pene.

La bella donna, che nel cor mi sède,
lasso, mi dobla sempre gli martiri,
però che l’alma rotta da’ sospiri
4vie più se innamora, che la vede.
E quella, che l’altrui pene non crede,
per ch’essa non è stretta cum disiri,
ver’l’affannata par che gli odi ziri,
8mostrando paze, e poi nega mercede.
Amor, questo m’avvèn per tuo defetto:
ché, se nel punto, quando preso m’ebbe,
11gli aveste detto com’eo so’ sozetto,
Torsi che de pietá non m’uccidrebbe;
ma ora ella non sente gli mei guai:
14unde, s’eo mòro, tu casón vi dai.

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XXVI

Si stancherá di amare infruttuosamente.

Onni raeo millantar, e zò, ch’eo fiabbo,
d’aver la costancia del zusto Paolo,
madonna, ver’ti, non mi leva un cáolo:
4tanto mi strenze il grand’amor, ch’eo ti abbo
senza casone, ch’eo non so’ tuo babbo
ni figliuolo, marito, ciò o láolo;
ma quel core, che di questo fu gáolo,
8forsi noi tinira’ tosto per gabbo.
Ché sento za lo sospir sino al gòtto;
e, pria ch’él spiri, si convert’en piombo,
11che carga et empie l’alma come bòtto.
Di che per zascun osso, polpa e lombo
si sendica lo rotto di la solze:
14non, s’el frutto sera amaro o dolze.

XXVII

Il suo amore ha la radice in un caldo desiderio sensuale.

Per non usar era di polver lordo
lo core mio, e di rúzene sporco,
quando Amor gli scridò: —Se eo non torco
4la tua durezza, ben mi terrò gordo. —
E, pigliandolo quasi tutto stordo,
tagliollo per longo dicendo: —Eo corco
tego custei, e nel mezzo la inforco,
8si che ver’me piú non ti mostri sordo.
Se zò te displaze, reprendi gli odi,
che vólse pur mirar le belle gambe,
11unde lor frutto ormai tu l’adocli. —
Allora quel eluse le parte entrambe,
e rispose: —Signor, eo ti ringracio,
14poi che di star cum lei per ti me sacio. —

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XXVIII

Tutto lo turba e fa penare la vista della bella gola ignuda.

Sempre che la bella gola se sfíibba,
Amore lo meo cor pon’en deposito
appo lei: che tanto ve sta reposito,
4fin che l’adorna vesta se reflibba.
Di che l’angossa za mai non me libba:
però ch’eo torment’ho stando seposito;
poi, se l’urto digli odi viene opposito,
8non mi vai scudo ni lanza cum schibba,
ch’el colpo non senda dentro nel polmo
per la forza del dardo, che se vibra;
11und’eo mi trovo di gran pena colmo.
Né mi romane unza di carne o libra,
che rotta non si pesti come pévere;
14ma pur convienme tal calice bévere.

XXIX

È assai difficile trovare una femmina da bene.

La femmena, ch’è del tempo pupilla,
le piú parte si trova glotta e ladra;
e, quando viene en etate nubilla,
4sendo ben puita, allor se tien liz.adra.
Possa ch’è veglia, za mai non vacilla
ch’ella non sia ruffiana e trizadra;
et en decrepitá, che gli odi stilla,
8sortilega doventa e gran busadra.
Dunque, prima che Pomo a lei se pogna,
pensi di non tenerl a capitale,
11s’él vede ch’essa non tema vergogna:
per la qual sola talor schifa il male;
ché femmena sfazzata è, per natura,
14un diavole en umana figura.

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XXX

Tanto son malvagi gli uomini, ch’è una follia procrearne.

Eo caminai l’altrèr per un bel plano
tutto plen de femmene, che posava,
cum un diavole, ch’a loro parlava,
4dizendo ch’igli era mastro soprano
di far, qualunque foss’presso o luntano,
al suo volere, ch’ella s’empregnava;
e, per presio di questo, domandava
8omazo e fedeltá a mano a mano.
Possa me parve ch’elle consentia;
se non ch’eo dissi: — Donne, eo ve conseglio
11che ve guardate di tanta follia:
ch’el non engravedar è ’l vostro meglio,
però che gli omini nel mondo nati
14le piú parte son demoni encarnati! —

XXXI

Ogni vantaggio è dato dal denaro.

Denari fanno l’orno comparére;
denari el stolto fingono sienziato;
denari cómpreno zascun peccato;
4denari mostran spendere e tenere;
denari danno donne per godere;
denari tengon Pancino beato;
denari lo vile mantèn en stato;
8denari gli enemici fan cadere.
E senza loro onn’omo par assiso:
ch’igli reze lo mondo e la fortuna,
11e, se tu vói, te manda en paradiso.
linde sazo me par chi gli raúna:
ché quigli soli, piú d’altra vertute,
14contra melanconia rende salute.

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XXXII

Riprende dei suoi vizi un amico.

S’eo vidi mai zovene corpo umano
cum senno e valor, de vicio nemico,
eo me credea trovar cului, ch’eo dico:
4avvegna ch’el pensier di zò sia vano.
Per che vertú da sé lo fa luntano,
si come avaro di bontá mendico,
ché ne l’altrui adverso non è amico:
8anzi, s’él serve, spera a man a mano.
Sonetto, e’so che nuli’altro messo
a quel, de cui parlo, mi fa besogna,
11che udendoti saprá ben ch’igli è desso.
E forsi che fra si ne avrá vergogna:
possa li conta che più porto affanno
14del suo fallo, che di verun mio danno.

XXXIII

Spesso la ricchezza tocca a chi non la merita.

Donna Pecunia, posto che reziate
tutto lo mondo, ancor vi do a sapere
che tanto siete de piú vii valere,
4quanto contra natura piú fallate.
D’oro e d’arzento fabricarvi fate;
zoioso è quello, che vi può tenere:
per che spesso mostrate a comparére,
8nel corso uman, omo fuor di vertate.
Ma, se ve reputate di onor degna,
come ve lassate cader tra mani
11d’un áseno, che possa per vui regna?
Or non vergognate star cum villani?
Ché sublimate tal en sommo stato,
14se non fuss’ricco, seria lapidato.

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XXXIV

Non sa scrutare in certi decreti della Provvidenza.

Increata vertú, eo non contendo
ch’onni tuo zudicato non sia il meglio;
ma pur fra nui appar oscuro speglio,
4a l’umana natura troppo orrendo.
Ch’eo vezo omo en etate fiorendo,
cum senno, costumi e saldo conseglio,
morire ’nanzi ch’él doventi veglio,
8lassando tutto ’l mondo lui planzendo.
Unde seranno sconsolati molti;
viranno odi, lite e grande guerre;
11cadran i zusti, regnaranno i stolti;
rapine, furti, destruzion di terre:
e non conosco come tu il consenti:
14se non che di’ boni piú ti contenti.

XXXV

Al mondo è piú apprezzato chi meno è degno.

Quanto fra me piú penso, eo ne so meno
come si volga il mondo per ventura,
se non ch’eo lasso adoprar la natura;
4conosco ben ch’él non è om terreno
tanto di vertú, senno e gracia pieno,
che fazza a punto onni fatto a mesura:
per che talor neglettisse e non cura
8a zascun vicio en tutto poner freno.
Und’eo credo, qual ha, cui piú deletta
lo stato del proximo et ame lui,
11sia da lodare, e chi iusticia affetta.
Ma questo non addevène tra nui:
anzi si presia et è tenuto caro
14diletto qualunqu’è, che fa il contraro.

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XXXVI

Dio non punisce solo nell’altro mondo, ma anche nel presente.

A lo tempo de Moises e piò enanti,
fin che Cristo ne la Verzene venne,
Dio padre poche inzurie retenne,
4che vesibel non ponisse gli erranti.
Et ora dicono molt’ignoranti,
poi ch’esso passion per noi sostenne,
solo ne l’altro secol dare penne:
8non posson esser gli defetti tanti.
Ma questo è falso: ch’eo vezo nel mondo
alcun, che la fortuna tèn’en cima,
11per opre scunze ruinare a fondo;
e qual mendic’andò la vita prima,
far mala morte per un gran peccato.
14Mirate ormai se Tomo è qui sparmiato!

XXXVII

In nessuno stato l’uomo si sente soddisfatto.

Sol per poder vivere pena senti,
se povertate ti ha depresso al fondo;
e, se fortuna ti exalt’a segondo,
4quello, che ti è dezente, non contenti.
Poi, se piú d’altro rezi, ti lamenti,
per che vorresti lo secolo a tondo;
ancor se segnorezi tutto ’l mondo,
8suspicando cader, tu non abenti.
A sposar moglie l’anemo te cita,
e desideri nepoti e figlioli:
11e, quando gli hai, temi de la lor vita.
Or dunque, en onni stato tu ti dòli,
e non trovi mai ben quieta pace,
14fòr che servendo Cristo Deo verace.

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XXXVIII

Contro la malvagitá e presunzione di certi ricchi.

S’el mondo se partisse per bontade,
oh quanti sono ricchi, cui mancára!
Segnore mio, l’opra ti fora cara,
4per che tu vivi senza umanitade;
e non ti aggrada fée né lialtade,
ni servir altri, se non per bombara:
e quel, che piglia la tua mano avara,
8en corbonar se pò dir che zò cade.
De te presumi piú, che Salamone;
ma pénsati ben com’igli è il contraro:
11che, empoverito, seresti un briccone.
E, s’igli avvien ch’él te manchi el dinaro
o ver che la fortuna se revolga,
14tu non troverai om, che ti ricolga.

XXXIX

Chi vuol vivere in tranquillitá d’animo, non si occupi dei tieni mondani.

Se Tomo in perpetuo stesse vivo,
d’onni prosperitá pieno e iocondo,
certo lo nostro seria dolce mondo,
4e niuno lo devria tener a schivo.
Ma nui vedemo qual è più zolivo,
cui vengano tutt’i deletti a tondo,
che Morte di botto lo mette a fondo,
8di zascun bon terreno casso e privo.
Ancor en questa vita non abenta
piccolo e grande segondo il suo stato,
11per che za mai di cosa non contenta.
Unde chi vuol passar lieto e beato,
lor spene pona ne l’excelsa gloria,
14ni del presente far ulla memoria.

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XL

La morte distrugge i buoni, non i lor meriti.

Morte terribel, villana e soperba,
fine di posa, principio di doglia,
sfrenata lassiva d’onni rea voglia,
4cum pianto e sospir unita conserba;
contr’a qualunque natura reserba,
per piú bene, dii mondo onor e zoglia,
allor de lui, per mazor nostra voglia,
8ti fai peculio, perversa et acerba!
Non teme tu la dolorosa fama,
che per l’aire nel cielo sta di sopra;
11la voze, che de ti sempre riclama?
Et avvegna che la tua crudel opra
gli boni zi toglia, e di zò si gode,
14tu non removi però le lor lode.

XLI

In biasimo del vizio del giuoco.

Opra diabolica e fallo mortale
fu a far gli dadi cum sue false volte,
ché da lor scendeno inzurie molte,
4furti, mizidi: vertú non zi vale.
Ni dica omo: — Eo sono quel tale,
che zittar posso, ché assai ho recolte; —
ché, s’él gli fien le divizie tolte,
8cului piú tosto consente onni male.
Ancor del zuoco vien mazor follia:
ché lo perdente si stesso ha en oblio,
11blastema Cristo e la verzen Maria,
e cusi nega la gracia de Dio;
reman col domonio, ch’a tanto el guida,
14che si medesmo convèn che si uzzida.

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XLII

Procuri ognuno d’esser virtuoso.

Non dèe cessare l’omo en sua vita
di adoperar, quanto piú pò, vertute:
ché, quamvis molto siano isconossute
4per la tristicia del mondo infinita,
pur uno et altro, cui la mente cita
veritade, ni prendeno salute;
e dignamente vengon retribute,
8quando l’anima en cielo si marita.
Ancor ni scende glorioso merto:
che, qualunque le adopra, de lor gode,
11securo stando, benigno et aperto.
Poi l’aire si empie de si fatte lode:
ché piove sempre negli zentil cori
14frutto di tanti perfetti lavori.

XLIII

In lode della continenra.

Se eo avesse tanta continenza,
ch’eo proponesse metter en oblio
lo peccato carnale vile e rio,
4e dii tutto mi fermasse star senza;
possa mi reducesse a la coscienza,
ch’eo conossesse pur un’ora Dio:
segur’me rendo ch’onni fatto mio
8procederla cum grande provvidenza.
Ora, s’eo so* clamato, non so’ eletto,
e cusi perdo questo e l’altro mondo
11per molta colpa, pigrizia e difetto.
Verzen Maria, cavami di profondo:
impetr’a mi gracia di quel benigno,
14che m’ha concesso piu, ch’eo non so’digno.

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XLIV

A chi giovi ricorrere per difesa contro gli stimoli della carne.

Attorno la mente combatte forte
gli spiriti, che son remasi en fede,
vituperandola come non vede
4la fine lor attender mala sorte.
Poi dentro stanno, chi elude le porte
cum un desio carnale, che noi crede,
e, se’1 conosse, sperano mercede;
8cusi a poco a po’ zonze la Morte.
L’anema trista ver’lo core piagne,
e dize: — Fratei mio, or mi consiglia,
11ché sopra me sola cade la ragne. —
Et él responde: —A quella ti appiglia
Verzene, che portò lo bel figliuolo,
14ch’affreni el corpo, e te cavi de duolo! —

XLV

Cerca conforto e salute nel culto della Vergine.

Claro splendor ne la mente mi sende
cum una imazine adorna e bella,
la qual suave parla: — Eo sono quella,
4che dá conforto e pace a chi mi attende. —
Unde gli spirti affannati si rende,
— Merzé, — clamando — verzene donzella,
conducine a salute, o vera stella,
8e scazza questa, che tanto ni offende. —
Poi l’anema crosata ver’lei prega
che non consideri s’el cor è netto
11o pieno d’altro amor, quando la nega;
ma stiasi sego fin ch’él fíe costretto,
per conossenza del suo vii fallire,
14si, ch’él convirá per forza ubedire.

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XLVI

Si confessa ingrato verso Dio.

Cui Deo ha dato sane le sue membra
e l’uso del corpo saldo et entero,
et a conosser lo falso dal vero,
4s’igli è ingrato e non gli rimembra
quanto martiro ensieme vi assembra
le cinque plaghe, e ’l convicio osterò,
che Cristo en croce per nui ebbe fèro:
8degno di cruda morte quel mi sembra.
Per me lo dico, ch’i’ sono a tal punto,
che poco mi ricorda il beneficio:
11a tanto m’ha lo vii peccato zunto.
Und’eo temo lo devino zudicio,
s’él non me aita la verzen Maria,
14non per merto, ma per sua cortesia.

XLVII

La sua anima incita il corpo al pentimento.

Gli spiriti mei pieni di paura
errando vanno dentro ne la mente,
e zascaduno crida: — Oimè dolente,
4quanto mi par la nostra vita oscura!
Ché questa carne frazida non cura
offender Cristo, tanto è sconoscente:
ni per la gracia a lui è ubidiente,
8ni per la colpa meno si assegura. —
Poi l’anima cum loro dize: — Ognuno
signore o servo, solo ch’él potesse,
11corpo topino, se de mille l’uno
falli gli fésti, sai che ti uccidresse;
báttite dunque la bocca e le guanze! —
14Cusi il prega la trista, e possa planze.

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XLVIII

Ogni divina disposizione è giusta.

— Se tu pensi che Deo t’ha dato exenza,
e molti beni, che non meritasti,
e come quisti doni tu gli guasti,
4ingrato! senz’alcuna reverenza:
forte ti dèe strigner la coscienza,
pria ch’ai fallo l’error si cumulasti,
ch’onne cosa, che vedi, non laudasti,
8fatta per la divina Provvidenza.
Vói tu reprender, tu, zò, ch’essa vòle,
o morte o vita, o miseria o stato,
11o caldo o freddo, vento, ploza o sole?
Or non sai tu che zascun suo mandato
è zusto e pio, fuor de fraude et ira? —
14Cusi me dize l’alma, e poi sospira.

XLIX

Guai all’uomo, che vive nel peccato!

O tu, che non temi cosa veruna,
sappi che Dio piú, che te, è signore;
elude, fame, ferro, siemenlis more,
4vive ti te s vili morte trudit una.
E zò, che omo en suo tempo raúna,
di botto perde, grandezza et onore;
vis, etas, forma, fama cum furore
8subiacent hero, cui et sol et luna.
Poi l’avarezza, che ti dá divide,
e la soperba, che per lor te tira,
11faran vendetta de le tue nequicie.
Nam vox acerba cum sentenlia dira
strato felle iubet sficque finita
14te pati geennam infernali vita.

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L

In dispregio del corpo.

— Ricordati che tornarai en cenere,
corpo tiisto fabricato de limo,
che neglettisse lo tuo fattor primo,
4gloriandoti quando il pòi contènere.
Bacco tu siegui e ’l stimolo de Venere;
ocioso putessi piu, che fimo;
godi nel vicio, né ti plaze nimo,
8che l’opre scunze ti ardisca reprènere.
Da ti non viene altro, che vii fezza,
per gli odi, recle, naso e per la bocca:
11o misero quel, che tal vaso apprezza!
Questo ti ramment’eo per ch’él mi tocca.
Cusi me dize un di’pensèri eletti;
14l’anima ascolta e par che gli deletti.

LI

Deplora il cattivo reggimento di Treviso.

Non se reze questa nostra cittade
cum senno, cum vertú ni cum valore:
anzi si osserva grandissimo errore
4contra voler d’onn’omo, c’ha bontade.
Ché qual si mostra aver piú lialtade,
piu corrompe di botto el suo onore
per presio, per manazze, per amore,
8per non servare al Comun fedeltade.
E, s’alcun di mal fare vieti represo,
orgoglioso responde: — El tuo pensato
11come noi mostri, che seresti enteso? —
Poi, se quegli, che disira il buon stato,
lo fa sentir agli capi, che regna,
14senza guadagno lor, zascun lo sdegna.

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LII

Quali siano i mali, che guastano la sua cittá.

Agli altri mali de la nostra terra,
c’hanno deserta guelfi e ghibilini,
questo vi cumulano i cittadini:
4ch’onni di fanno ensieme nova guerra.
51 sdegno cum la envidia, che i afferra,
gli rende tanto miseri e topini,
che parlando detranno lor vicini;
8unde ferite e morte poi si sferra.
Ni pensano lo numer’di’ zentili,
ni quanta zente la cittade porta:
11ché sono tre pedoni e dui arfili.
Ma per la gran soperbia, che v’è orta,
zascun, ch’offende, piú se tien presato,
14che non fu Roma nel suo mazor stato.

LIII

Le passioni, che signoreggiano in Treviso.

Monna la Furia e monna la Violenza,
monna Incostanzia e monna la Socchezza
cum sua zente cavalcavano a frezza
4ver’la cittá vòita de provvidenza,
cridando: —Tosto a la terra, che, senza
vertude, di cattivitá si avvezza;
se nui pigliamo sopra lor baldezza,
8di botto avremo tutta la provénza. —
E, quando eo vitti queste, che venia
a zónzere afflizione agli afflitti,
11dissi: — Donne, vui fate villania! —
Et elle a me: — Va’, che sian maleditti
chi amano rasone, et anche tu! —
14E sprononno oltra, che non parlòn piú.

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LIV

Contro i cattivi reggitori della sua cittá.

Eo so ben la casón, per che non mòre
quigli, che rezeno questa cittade:
ch’eo ho veduto dir molte fiade,
4quanto che l’om è mazor peccatore,
micidáro, scarano e traditore
perverso, senz’alcuna caritade,
Cristo gli lassa vita e sanitade,
8sperando che él torni nel suo amore.
Dunque, costoro, che tal detto adempie
e fanno del Comune una spelunca
11de ladroni cum le lor opere empie,
et hanno a la rasón la testa tronca,
sono sazi, secundo il parer meo:
14ch’igli viviran piti, che Butadeo.

LV

Essi son tali, che neppur la Morte li vuole.

— Morte, che vói, che stai piti en pensèri?
Trove tu qui persona, che ti offenda?
— Amico, él mi vien voia ch’eo mi empenda,
4e per sopercla fame eo me disperi.
— Dèe trista, vee popoli e cavalèri;
piglia d’essi, ch’él non fie chi contenda.
— Frate, eo mi temo ch’él non gli defenda
8lor compagna, ch’i’ ’l farei volontèri.
— Cattiva, qual sono si forti tego,
en questa cittade, che a lo disotto
11non gli mettesti? Dimmel, ch’eo ten prego.
— Eo ti respondo ch’eo perdrei di botto:
ch’él gli sustène invidia e falsitate
14e crudeltá fòr d’onni umanitate. —

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LVI

Per la morte del conte Rambaldo Vili di Collabo

Scalza, spernata a modo d’un ribaldo,
entra molti diavoli, che planzia,
trovai la Morte, che de lor redia,
4dizendo: — Per leticia mi risbaldo,
ch’eo ho spinto da vita il buon Rambaldo:
e, quando quisti demoni el volia,
scese dal cielo la vergen Maria
8cum gli anzeli, e portòssil netto e saldo. —
Et eo allor respusi: — Deh villana,
vee come tosto tu pòi consolarli:
11unzidi i rei, e’l mondo ni resana! —
Et ella a me: — Frate, quanto mal parli!
Eo so’ magra, possendo star ben fresca,
14sol per fastidio di tanta vii ésca. —

LVII

Ancora sullo stesso soggetto.

Senno e valor vediam da nui diviso
e le vertú morali sono scorte;
a cortesia stanno eluse le porte,
4e’l pover vergognoso reman siso;
e dritto conseglio e lial zudiso
e le vicine pazi vanno torte,
possa che piacque a la crudele Morte
8extinguerni il buon conte de Treviso.
Lo qual vivea cum onni vera lode,
ponendo, senza notabel difetto,
11persona e divicie en altrui prode.
Ma credo ben che Dio, per gran deletto,
de lui reintegrasse il cielo, tanto,
14che dé’ esser remedio al nostro pianto.

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LVIII

Lamenta la decadenza di Treviso.

Oi terra, ch’eri de delicie arca
e d’onni gran deletto dolze corte,
et or, di tutto bene vòita, forte
4porto di pianto, d’angossa se’ carca;
per ti l’exul e ’l pover se rimarca,
quando vengono dentro a le tue porte:
vezendo le zentil cortesie morte,
8lassano ti planzendo et oltra varca.
Cusi remani senza molte lode,
accunza sempre di pezo fenire,
11per condutta de quigli, che ti gode.
E, s’él m’è conceduto a dover dire,
poi ch’el parlare non mi para bello,
14tu se’ de vici un enorme bordello.

LIX

I ghibellini son concordi e trionfano, mentre i guelfi si dilaniano tra loro.

Chiunca da la Glesia se disparte,
punir si dèe come patarino;
non per dir omo: — Eo so’ ghibilino, —
4se a nostra fede non detraze ad arte.
Però che zascadun par lioparte,
cum ardir e valor, aver domino;
uniti ensieme tutti ad un camino,
8hanno levata l’emperiale parte.
Cusi non è di’ guelfi maleditti,
ma fanno de sé bianchi e maltraversi:
11lassando l’arme, leggon gli enterditti.
Oimè, ché, s’e’ non fosseno diversi,
l’aquila, che gremiss’esto paese,
14di plano seria umel e cortese!

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LX

Non può sorprendere che i guelfi siano sempre soccombenti.

Maraveglia che gli segnor Visconti,
marchesi, Bonacossi e da la Scala
non extendono la sua possente ala
4per tutta Italia dezá dagli monti!
Ché, poi che gli guelfi de l’arme pronti
siano, arditi e forti per rigala,
vengon traditi sempre en ora mala:
8dalmazo degli ree dusi o conti!
Ancor: lor terre rezen populari,
dove nullo secreto sta coperto
11per l’encostancia digli merzenari.
Santo papa, mándazi il bon Roberto,
che strugga l’eresia digli lombardi,
14sfrenata sol per che tu troppo tardi.

LXI

Per qual motivo il poeta si schieri contro i ghibellini.

Io non so’ tanto guelfo ni crudele,
che per modo di parte eo volesse
che persona vergogna o danno avesse,
4foss’egli di santa Glesia fedele:
poi nel mio core panni abominèle
ch’erro dal sacro Emperio procedesse,
e ’l dolce frutto, che de le leze èsse,
8al mondo pullulasse amaro fèle.
Ma pur eo vezo che gli ghibilini
contr’al papa, ch’è vicario de Cristo,
11per forza tirannizan lor vicini.
Unde, s’él procazza che tal acquisto
per onni forma torni nel suo stato,
14questo dovria zascun tener a grato.

[p. 228 modifica]

LXII

Le colpe della fazione ghibellina.

Nel tempo ch’era Italia tutta d’oro,
e Saturno l’avia en un contesto,
sotto l’ombra di Zove, Enrico sesto
4occupolla e spugliò d’onni tesoro.
Allor sfrenò del laberinto il toro,
per cui fu il sisma ver’la Glesia desto;
e ’l guelfo cum pacifico protesto
8ebbe morte et exilio, angossa e ploro.
Di questo n’è rimaso crudel seme,
tanto del zusto sangue sitibundo,
11che la croce non cura né Deo teme.
«Nunc regnum meum non est de hoc mundo
pò dizer Cristo: cusi sono orrende
14l’opre, che lui e ’l suo vicario offende.

LXIII

In lode di papa Giovanni vigesimosecondo.

Servo di’servi de Cristo Zovanni,
quanto ch’un altro tu nassesti gnudo;
fosti creato papa e lermo scudo
4piú, ch’avesse la Glesia fa mill’anni.
Dunque, non ti curare spese e danni;
oro dispresia come vii paludo,
per consumare l’empio orgoglio crudo
8degli soperb’italici tiranni.
Tu se’ prudente, tu zusto e tu forte,
tu temperato, ch’orini onesto guardi;
11la simonia cazzasti di tua corte.
Sol compie tu ch’i popoli lombardi
e gli altri oppressi remangano franchi:
14ad esser santo non so che te manchi.

[p. 229 modifica]

LXIV

Lo supplica d’incoronar re d’Italia Roberto di Napoli.

O Zovanni apostolico benegno,
se nostra guerra vói vinzer per certo,
che gli lombardi conoscano aperto
4lor grande sisma e spirito malegno,
e ’l septro e la virga e l’onore degno,
ch’è ne la Glesia da Cristo comperto:
mándazi il tuo figliolo re Roberto
8coronato de l’italico regno.
Se tu noi fai, vedi che ne segue:
che gli tiranni ti crede invilito,
11e per sua forza trovar tego tregue;
e, poi che l’erro sia en infinito,
ancor è pezo la molta vergogna
14ch’el papa perda, dovunque si pogna.

LXV

Insiste sul medesimo argomento.

Za, padre santo, crede bene e sente
onni crestian, ch’abbi pura rasone,
verso color, che trovaron casone
4a contrastarti molto crudelmente.
Non far dunque cli’a forza doni possente
italiani cum le lor dissensione,
zentil papa, per manco di persone,
8vengano presi strutti tra vii zente.
Entèndime, ché grande e netta laude
doventará la tua, quanto piú guardi
11tener iudicio dritto senza fraude.
Niun fie timido digli lombardi;
remove tu l’error ormai scoperto,
14mettendo re fra nui il buon Roberto.

Zovanni zusto, temperato, forte,

prudente, manda agli tiranni morte. [p. 230 modifica]

LXVI

Incita il pontefice contro i ghibellini.

Zentil padre, se tu temporalmente
ognuna vói conzar oppenione,
ama il iudisio dandogli rasone:
4non ti gravi pruna tanto cozente.
E si ti afferma dentro cum la mente
per certo starte avvisto cum’leone:
a cui za molti forman dissensione,
8prova contra te tenendo sovente.
Terror assai, per lor mentita laude,
ensieme nacque, presto, di montare,
11domando gli sciolti cum dura fraude.
Ni te convène su l’opra mancare:
regna, rompi, bussa i stolti superbi,
14c’onnor ti sono mordenti et acerbi.

LXVII

Prega Dio che suggerisca al papa maggior energia contro i suoi avversari.

O vero Deo, che gli omini universi
governi secundo il suo meritato,
non consentire per alcun peccato
4che la fede crestiana se summersi.
Tu vedi quanto c’hanno gli perversi
eretici lombardi dispresiato
lo tuo vicario col zusto mandato,
8di punto a punto standogli reversi.
Dunque, poi che ostinati sono tanto,
che sdegnano ubedire per concordia,
11ispira contra loro il padre santo,
che non attenda piú misericordia:
e zò, ch’él vói che sia fin mill’anni,
14fázzal di botto, e strugga gli tiranni.

[p. 231 modifica]

LXVIII

Quale missione sia stata assegnata da Dio a Giovanni vigesimosecondo

Tri gerarchie credemo che assista
a servir la magèsta una e trina,
la qual mandò en terra disciplina
4per dodece apostoli et un battista,
et oltra costoro dui vangelista,
che descrivessen l’opera devina;
quattro dottor, che dessen la dottrina
8de Cristo, di’ profeti e del salmista.
Iacobo, Deo ti solo elesse al mondo
loco de quisti, ch’ènno vintidui,
11papa Zován vigesimosecondo,
per ch’a sua lode tu zovasti altrui
cum pace di’ fedeli, morte e danni
14degl’italici eretici tiranni.

LXIX

Contro i ribelli della Chiesa proclamati eretici.

Croze digna, merzé, ch’él non si atterre
la nostra fede per lo molto sisma
di quigli, che vilipendono il crisma,
4forzandosi cum lor castella e serre
contra la Glesia, per sfrenate guerre,
struzer qualunque crede nel battisma,
dicendo cum orgoglio grand’e pisma:
8— Astiterunt principes reges terrae;
adversus Christian dirumpamus rincula,
poi che lo suo vicario ni contende
11di scorticare lo zusto per zintula. —
E non considerano quant’ofTende
l’anema e ’l corpo questa vii malicia.
14che, blasfemando Deo, lo mondo vicia.

[p. 232 modifica]

LXX

Dá l’allarme contro le mire di Cangrande della Scala.

Segnor, guardátive da messer Cane,
per ch’él porta sotto la cinta un sacco,
c mctteravvi entro zascun a stracco,
4che al suo conseglio non sona campane.
Le mazor alpe gli ènno tutte piane
e de l’arme mai non si vide fiacco;
presso Musone en posta ha miso il bracco,
8menando sempre d’intorno le mane.
Serravalle, Fregona e Cavolano,
Castello Reghenzòlo e Formeniga
11e Brusaporco quisti ebbe di plano.
Poi non si teme che faziamo liga
cum Padova, furlani ni todeschi:
14anzi però piú ver’nui par che treschi.

LXXI

Perché lo vede avviato ad insignorirsi di tutta l’Italia.

Che ze fa a nui se dentro questa terra
e le castella del nostro destretto
sono molti soldati, zò fi’ cretto,
4a piedi et a cavallo, per far guerra?
Ché, dovunque messer Cane disserra
solo cum deze sotto al pennon stretto,
zascun teme ch’él si arrappi sul tetto,
8e tutti ne le fortezze si serra.
Cusi reman signor de la campagna,
ch’él non gli ardisse contrastar persona,
11e, quant’él vói, la sua zente guadagna.
E, se valor, senno e fortuna bona,
come fin a qui, per lui opraranno,
14el será re d’Italia ennanzi un anno.

[p. 233 modifica]

LXXII

Contro Cangraude non vede difesa che nel pontefice.

Circumdederunt me doglie di morte,
vezendo questa cittade si sema
di provvidenza, ch’él par ch’onn’om tema
4póner remezo a l’opre scunze e torte.
E qual se mostra piú valente e forte,
cului piú tosto di paura trema:
de che il nostro contado tutto crema,
8e gli nemici vengon su le porte.
Padova non zi secorre ni segue;
ni anche il re da le vacche, quel ciego,
11che soda pace e ne mis’en tregue!
Dunque, Triviso, per merzé ti prego:
recomándati a la Glesia di Roma,
14che, quando vuole, onni sfrenato doma.

LXXIII

Implora aiuto dal papa per la sua cittá.

Digno papa Zovanni, nui siamo
Amor e Cortesia e Pietate
nel cospetto de la tua santitate:
4che tu zi secorri al nostro reclamo!
En tri canti Triviso edificamo
ad onor de la somma trinitate,
cum dolze sangue e molta puntate,
8secondo la natura, che abbiamo.
Or è che messer Cane da la Scala,
di vero senza lo perché ni come,
11per sua forza par ch’onni di lo assala.
Poi, padre, sèrbati il dato nome:
e cum la forte virga de iusticia
14campa gli oppressi di tanta nequicia.

[p. 234 modifica]

LXXIV

Espone alcune sue speranze vane.

Oh fuss’él vero, cum’igli è busia,
la fama, ch’ebb’el cavalier francesco:
ché tutta Italia terria lo tedesco
4solo en sua ampia dolze segnoria.
Lo prinze degli uzzelli viviria
di poco pasto col bissone a desco,
e il bianco cesno canteria piú fresco,
8se non quanto v’è ’l meno ’n lor follia.
Ma pur eo spero en cotal fole vane:
vulgo di popol, iudicio divino;
11quel, che non è ozi, sera domane.
E, se Morte mi fazess’endivino,
d’onni mia offesa me doplaria paga,
14sendomi en loco, ch’eo toccass’la plaga.

LXXV

Ricevendo notizie contraddittorie dei fatti gí Toscana.

Al cor mi diedi l’altrier grande impiglio,
quando sonò di Toscana il falso eco:
se non che, contemplando il claro spleco,
4parvenT inmaculato el zentil ziglio.
Allor, posato, dissi: — Eo meraviglio
come l’aquila, sol battendo il beco,
tra’ soi subditi induga tanto greco,
8che fuor del buio parano a consiglio. —
Poi, lo secondo die o ver lo terzo,
si scoperse la lucana epidimia
11dii molto sangue, ch’el suolo fee lerzo.
Unde a’ fedeli fu leticia minia,
da che P insegne reali propinque
14metteno a morte chi ver’lor delinque.