Senso/Il collare di Budda

Il collare di Budda

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IL COLLARE DI BUDDA.


[p. 113 modifica]Gioacchino aveva certo qualcosa nella fantasia, che gli dava fastidio. Si metteva a sedere, piantando i gomiti sulla tavola e posando le guance scarne sulle mani stecchite, e abbassava le palpebre come se volesse meditare lungamente su qualche grave sciagura; ma, dopo un minuto, balzava in piedi, andava allo specchio appannato e piccolo che era posto sul cassettone, contemplava la sua triste imagine con lo sguardo stralunato, e vedendosi più giallo del solito (non aveva chiuso occhio in tutta la notte) sentiva un brivido scorrergli dalla testa ai piedi. Allora si tastava il polso e gli pareva di aver la febbre.

La finestra era spalancata, ma, benchè non fossero ancora le sette della mattina, faceva un caldo d’inferno. Il sole di luglio dardeggiava una luce spietata, che, seguendo in quel [p. 114 modifica]momento la direzione della stradicciuola larga un metro o poco più, andava a battere sul lastrico, diventato una striscia di fuoco bianco; sicchè, quando l’inquieto giovine s’affacciò alla finestra, gli parve di accecare. A poco a poco, assuefattosi alla luce, fermò lo sguardo all’estremità della calle, sul ponte storto e su quel caro verde dei rii veneziani, che riposa la vista. Gioacchino trovò infatti un istante di requie nel bel colore di smeraldo oscillante.

Giù nella calle, all’ombra di una tenda rossa a rappezzi, stava seduto Zaccaria, nella bottega del quale si vedeva un paio di scarpe rotte esposte accanto ad un bacile lustro di rame, tutto figure a sbalzo, simile ai piatti enormi che brillano nel negozio ambulante di Zamaria dalle fritole; accanto ad un paio di calzoni rattoppati e ad uno spiedo arrugginito stava una spada ad elsa dorata, eredità d’un consigliere aulico dell’Austria, ed una tabacchiera con certi amorini allegri, miniati un secolo fa da un pittore francese.

Gioacchino dal suo quarto piano chiamò: Zaccaria. — Zaccaria alzò le due punte della barba grigia. Il giovine gli chiese con voce rauca: — C’è stato nessuno? — L’altro si contentò di stringersi nelle spalle, e tornò a guardare per terra.

Il giovine, rientrato nella penombra della sua camera, s’era messo a guardare una specie di pesante monile di metallo bianco, largo quattro dita, sul quale stavano incise in [p. 115 modifica]carattere gotico le tre lettere F. A. Q. e con una pezzuola lo andava ripulendo. Gli venne una idea, che lo rallegrò: la collana poteva essere d’argento. Si vestì in fretta. Il goletto, i polsini posticci, bianchi di bucato, erano appiccati ad una camicia un po’ sudicia; ma il vestito nero pareva nuovo e fatto apposta per il corpo allampanato del nostro Gioacchino. Solo i calzoni leggeri lasciavano sconciamente intravvedere, appena sotto alle ginocchia, le trombe degli stivali. Certo quegli stivali, ereditati da uno zio, erano larghi per le gambe magre, e nei calori dell’estate dovevano dare gran noia. Insomma Gioacchino uscì tenendo in mano il monile, e a cento passi dalla sua casa entrò in una botteguccia piccola, bassa, che aveva nella vetrina qualche orologio d’ottone, qualche enorme cipolla d’argento, cinque o sei catenelle d’acciaio e alcune paia di orecchini d’oro sospetto.

Mettendo il piede sulla soglia non ci vide più nulla: bujo pesto. Ma un po’ alla volta cominciò a distinguere le cose. In un angolo, dove entrava un tantino di luce di riflesso pallida, stava un vecchio con gli occhiali sul naso, che guardava, attraverso ad una lente grossissima, la carcassa di un orologio sconquassato.

— Oh, signor Gioacchino! È un pezzo che non la si vede. C’è qualcosa da comprare?

— No, ho bisogno di un favore.

— Eccomi pronto, purchè non sieno denari. Potrebbero strapparmi sette denti, come per [p. 116 modifica]cavar soldi fece a un ebreo quel re d’Inghilterra, e all’ottavo non troverei una lira. È vero che non ne ho sette tra tutte due le mascelle; e d’altra parte lei, signor Gioacchino, n’ha tanti da prestarne a tutti, e denti e quattrini. In che cosa posso servirla?

— Veda questa roba. —

Il vecchio diede un’occhiata all’oggetto di metallo, e disse tosto: — È argento, argento massiccio e puro.

— Quanto potrebbe valere?

— Lo vuol vendere?

— No, glie l’ho detto.

— Allora pesiamo. Trenta lire, piuttosto meno che più. L’ha trovato, questo collare?

— Sì.

Pensavo bene io che non fosse il collare d’un suo cane. I cani — e guardava sardonicamente agli spropositati stivaloni del giovinotto — i cani le piacciono poco, mi pare, come alla buon’anima di suo zio. —

Mentre l’orefice e orologiaio, ridendo a squassi, borbottava queste ultime parole, passava un monello, che gridava con voce argentina: — L’Adriatico, l’Adriatico, col gran fatto accaduto.... —

Gioacchino disse un grazie rapido al vecchio, e corse dietro al monello per comperare il giornale, poi se lo portò su in camera, salendo a tre a tre gli scalini alti delle branche strettissime. Cercò alla fine della terza pagina, e trovò in carattere grosso l’avviso, [p. 117 modifica]che tutti i fogli del giorno innanzi avevano già pubblicato: Chi avesse smarrito un collare da cane con tre iniziali, la prima delle quali F, è pregato di recarsi a ricuperarlo il più presto possibile alla bottega portante l’insegna dello Scudo d’oro, in calle della Forca, numero 512. Il collare verrà consegnato sulla indicazione delle altre due lettere, senza esigere nessuna mancia. V’erano tre o quattro errori tipografici; ma, insomma, il testo appariva chiaro.

Suonarono le otto. Il giovine tornò ad uscire in gran fretta, spinse forte l’uscio due o tre volte per essere ben certo che fosse serrato, e, passando vicino alla bottega dello Scudo d’oro, disse a Zaccaria, il quale stava ancora seduto sotto la tenda rossa:

— Siamo intesi: se viene qualcuno a chiedere il collare, mandatelo al cassiere della Banca di Sicurtà commerciale. Va bene?

— Ho capito, ho capito. Me la ricantò ieri cento volte la solfa.

— Dunque mi fido. —

E Zaccaria, nell’ombra della calletta angusta, dove il sole non batteva più, mormorò tra i denti, sbirciando Gioacchino, che saliva il ponte quasi di corsa: — È curiosa! Che smania di restituire la roba gli è venuta d’un tratto. Anche questa s’ha da vedere! — Gioacchino dal canto suo pensava: — È d’argento, correranno a pigliarlo. —


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* * *


Bisogna sapere che Gioacchino non era punto avaro; ma l’antiquario dello Scudo d’oro non aveva torto: quella smania riesciva stravagante. Il giovine, come vedremo, spendeva tutto quello che guadagnava. La sua camera non si poteva dir sudicia, benchè la moglie borbottona di Zaccaria non togliesse la polvere dal cassettone, dallo specchio, dalle quattro scranne, dalla poltrona zoppa e dalla tavola tarlata se non una volta ogni due settimane. Codesti mobili erano assoluta proprietà di Gioacchino, il quale pagava cinque lire al mese la stanza vuota, e dava mensualmente per il servizio della degna sposa di Zaccaria una lira: molto più di quello che si meritasse. Ora mettiamo il mangiare, il vestire, i divertimenti, e giungeremo alle tre lire al giorno, nè più nè meno. Gioacchino aveva ereditato dallo zio, un sant’uomo, centomila lire o giù di lì, e gli affari della cassa alla Banca di Sicurtà gli avevano dato nell’ultimo bilancio un frutto netto di diecimila lire, che doveva crescere del doppio l’anno seguente; ma questo non era guadagno proprio suo, era guadagno del denaro suo: bisogna distinguere. Gioacchino, fra le altre virtù, aveva quella della modestia: valutava poco l’opera [p. 119 modifica]propria; e il lavoro di tredici ore, dalle otto della mattina alle sei e dalle otto della sera alle undici, gli era sembrato, dopo molti e profondi calcoli, degno di tre lire al giorno soltanto. L’entrata dunque e l’uscita si pareggiavano. Anzi, di quando in quando gli veniva il sospetto di essere un cervello sventato; e allora resecava un po’ sulle spese, sicchè del proprio guadagno effettivo aveva messo da parte un centinaio di lire, più qualche centesimo, destinate in casi straordinarii a certi matti dispendii. Non è male che un giovine previdente si prepari così un fondo di cassa disponibile agli ultimi estremi per una qualche pazzia.

Il momento della pazzia, una vera ed improvvisa pazzia, era venuto. Sulle donne Gioacchino aveva delle idee molto sentimentali. Non gli piacevano quelle che si fanno pagare; ma dall’altra parte a quelle che non si fanno pagare non sembra che Gioacchino piacesse troppo. Con le ragazze ci sono gl’impegni e spesso le noie de’ fratelli o del padre; quanto alle donne maritate, la moralità sua lo salvava dal pensarvi, e anche un poco la paura dei mariti bisbetici. Così dunque il nostro giovine, con la sua faccia d’un pallore giallastro, gli occhietti bigi, le labbra grosse violacee, il pizzo rado, le guance infossate, la testa quasi pelata, magro come uno stecchino, viveva in una castità molto impaziente.

[p. 120 modifica]Una sera, alle sei e mezzo, in Merceria di San Salvatore, mentre usciva dalla sua Cassa, ecco si imbatte in una fanciulla ammirabile. Alta, snella, con certi occhioni neri da far venire la pelle d’oca, e i capelli corvini, e la carnagione (si vedeva un poco più giù del collo) d’un bruno caldo, infiammato, che sembrava un riflesso d’incendio. Gioacchino sentì nel cuore un gran colpo, e, fatti due passi, voltò la testa. In quel punto voltava il capo anche la bella giovane, saettando con gli occhioni neri.

Gioacchino incerto, tremante, quando la ragazza fu lontana ebbe il coraggio di seguirla.

Alla svolta di una calle od alla discesa di un ponte, se la perdeva di vista, affrettava il passo, correva; poi, scopertala, si fermava di botto, e s’ella stava un minuto a guardare dinanzi alla mostra d’una bottega, egli andava a rifugiarsi vergognosamente in un sottoportico buio. Si studiava di camminare come se non fosse fatto suo, fischiettando, guardando in aria. Passava dalla paura all’ardire: tre o quattro volte gli venne l’impeto di accostarsi alla fanciulla; faceva due passi, e l’animo gli mancava. Così passarono da San Bartolomeo, poi dal ponte dell’Olio, poi dalla salizzada di San Giovanni Grisostomo, e finalmente dal campo de’ Santi Apostoli, dove la fanciulla incontrò una vecchia vestita di nero, con il cappellino a fiori color di rosa.

Il sole, splendente ancora nella vasta piazza, [p. 121 modifica]bruciava. Svoltato l’angolo della calle del Pistor, nel ramo delle Zotte, in fondo al quale si vedeva brillare il verde dell’acqua e passare il felse di una gondola nera, la fanciulla e la vecchia sparirono.

Per farla breve, cinque giorni dopo, la vecchia piccola, grassa, grinzosa, dal cappellino ornato di rose, aveva già con infinite astuzie cavato quaranta lire dal salvadanaio disponibile del nostro giovine cauto.

Irene era propriamente la Dea della seduzione. Quando stava ritta il suo mento ovale soverchiava in altezza il cocuzzolo mezzo pelato di Gioacchino, ma si piegava con tanta grazia! Nello slanciarsi, nell’incurvarsi, nell’ondeggiare aveva della pantera; aveva del serpente nell’attorcigliarsi, nell’aggomitolarsi, nello strisciare. E poi era tanto allegra. Il suo labbro superiore rimaneva naturalmente alzato, massime alle estremità in una curva adorabile, che faceva pensare a non so che di canino, e che lasciava sempre vedere i denti bianchissimi. Gl’incisivi dovevano essere arrotati come lame di coltello, ed i canini erano certo puntuti come pugnali. Il riso le stava tanto bene: gli occhi scintillavano e mandava un fremito di gaiezza, che pareva selvaggio.

Gioacchino aveva perso la testa. Andava in calle delle Zotte subito dopo il desinare e vi restava fino alle sette e tre quarti, l’ora di tornare alla Cassa. Vi sarebbe andato anche di giorno se avesse potuto scappare, non [p. 122 modifica]foss’altro per dieci minuti, dalla Banca di Sicurtà; vi sarebbe tornato la sera tardi, se la fanciulla e la vecchia mamma non glielo avessero proibito, dicendo che andavano sempre a dormire innanzi i polli, e che non intendevano mettere a repentaglio nel vicinato il loro nome di donne oneste. Fatto sta che il settimo giorno, a contare dal primo incontro, la vecchia strappò al giovinotto ancora trentacinque lire. Ma Irene gli voleva tanto bene, gli si buttava addosso con tanto furore, che era un incanto! Aveva anzi il caro costume di morsecchiare; e Gioacchino, la sera, spogliandosi, guardava con infinita compiacenza le lividure delle proprie carni.

Un dopo pranzo (si conoscevano da nove giorni) la fanciulla era più gaia e Gioacchino anche più acceso del solito.

Irene gridò improvvisamente:

— Voglio mostrarti d’un colpo tutto quanto il mio amore — e si avventò contro di lui e, afferrandolo per le spalle, lo girò, e sotto alla nuca gli diede un gran morso con que’ suoi denti taglienti e puntuti.

— Sangue, sangue! — ripeteva sghignazzando.

E Gioacchino, benchè gli facesse un poco male, e sopra tutto gli rincrescesse che il goletto e la cravatta avessero ad imbrattarsi, rideva anche lui con quella sua faccia sparuta e squallida, e si asciugava la ferita con la pezzuola.

Erano quasi le otto. Uscì felice, toccandosi [p. 123 modifica]a brevi intervalli col fazzoletto la nuca, dove le gocce di sangue si rinnovavano ad ogni tratto; ma, poichè il sangue non voleva stagnare, entrò in una farmacia a farsi mettere sulla ferita un pezzetto di cerotto giallo. Di notte sentì un pizzicore, che lo tenne svegliato.


La sera seguente Gioacchino spasimava d’amore, benchè durante la giornata si fosse sentito in tutte le membra una spossatezza grandissima. All’ora consueta la vecchia lo aspettava sulla porta di strada. Quando Gioacchino la vide bisbigliò: — Ci siamo! — La vecchia infatti lo tirò nella cucina, dove due pentole, un candelotto, cinque o sei tondi e qualche posata arrugginita ornavano la credenza. Principiò le lamentazioni. Irene non ne sapeva nulla, poveretta! ma certi impegni urgentissimi, gli ultimi creditori impertinenti da far tacere; bastavano trenta lire; era tanto buono, tanto gentile; non l’avrebbe seccato mai più, lo giurava sulla immagine di Santa Brigida. Gioacchino teneva duro. Allora la vecchia, piantandosi le mani ai fianchi, smessa la studiata dolcezza del volto grinzoso e la mellifluità della voce fessa, continuò ringhiando. Irene dipendeva da lei; non c’è amore che tenga; gli avrebbe dato un calcio da quella parte, e poi chiusa la porta in faccia in saecula saeculorum, una bella faccia davvero! Se voleva continuare a veder la ragazza doveva contribuire anche lui alle spese di casa; [p. 124 modifica]e poi una ragazza tutta per lui, così pura, così innocente; infine si trattava di poche lire; era una spilorceria, una sordidezza; o con chi credeva di aver da fare? le persone si devono apprezzare per quel che meritano, e lei e la figliuola volevano essere tenute in conto di donne dabbene; l’aveva intesa sì o no?

Gioacchino diede le ultime venticinque lire. Oramai dei risparmi sull’onorario, che aveva concesso a sè medesimo, gli restava qualche misero soldo; ma il giovine si sentiva tanti bollori addosso, che l’intaccare all’occorrenza d’un altro centinaio di lire le ventimila, che il suo danaro doveva in quell’anno fruttargli, non gli appariva la cosa più atroce di questa terra mortale.

Irene stava sdraiata sull’ottomana. Faceva un caldo grave umido, soffocante. Era vestita d’una sottana piuttosto corta e d’un casacchino, dal quale s’erano strappati quasi tutti i bottoni. Gioacchino, vedendola, si rasserenò: i suoi occhietti si spalancarono, il viso smorto pigliò un bel colore rosato. Bisbigliò nell’orecchio della fanciulla la eterna parola:

— Mi vuoi bene?

L’altra rispose a voce alta, ridendo:

— T’adoro.

— Ami me solo? Pensi sempre a me? Io, vedi, darei tutto il mio sangue per la mia cara Irene.

E le rimproverò dolcemente il morso della [p. 125 modifica]sera innanzi, dicendole che ancora la nuca gli pizzicava forte.

Aveva messo il capo sulle ginocchia di lei.

Immerso in una specie di sopore beato, guardava, senza pensare, alla polvere densa, che da più mesi non era stata disturbata sotto ai pochi mobili sconquassati, alle sporcizie del pavimento, delle quali si sarebbe scandalezzata persino la degna sposa di Zaccaria, ed alle tendine delle finestre rabescate di lordura. Dal canale quasi asciutto saliva un fetore acre. Qualcosa di bianchiccio, di lustro, dietro ad una delle gambette storte dell’armadio, fermò lo sguardo di Gioacchino.

— Guarda, che cosa c’è lì sotto? — chiese ad Irene, e senz’aspettar la risposta andò a pigliare l’oggetto. Era un collare col suo fermaglio e le tre lettere F. A. Q.

La faccia di Gioacchino diventò livida.

— Un cane, c’è stato un cane in questa casa. Rispondi. —

Irene rideva, mostrando i denti.

— C’è stato un cane e ha perduto il collare? Quando?

— Ieri mattina.

— Ieri?

— Sì, ieri; — e la donna ci pensò un attimo, poi soggiunse: — Entrò dall’uscio della scala, che la mamma con questi caldi tiene sempre aperto. Ma io non ho paura dei cani. Anzi guarda — e mostrò alla polpa della gamba destra due ferite vicine, lunghe, parallele, non ancora rimarginate.

[p. 126 modifica]— È stato il cane? — gridò Gioacchino con gli occhi fuori dalla testa.

— Sì, il cane. Non me ne rammentavo quasi più.

— E non hai fatto bruciare la piaga?

— Fossi matta! Perchè mi restasse il segno tutta la vita.

— E il cane dov’è?

— Lo so io! Non l’avevo mai visto. È scappato, e buon viaggio.

— Scappato subito?

— Subito, e tanto in furia che pareva arrabbiato.

— Arrabbiato, arrabbiato! — e si toccava la morsicatura della nuca, che da un minuto gli bruciava la carne come un tizzone ardente. Mise in tasca il collare e scappò, precipitando giù dalle scale, correndo nelle calli, sui ponti, lungo le fondamenta, dando degli spintoni a tutti quelli che incontrava, finchè giunse all’Ospedale maggiore, dove chiese del chirurgo di guardia. Voleva farsi medicare col ferro e col fuoco; ma il chirurgo disse che non si poteva tentare più nulla, giacchè la piaga era bell’e cicatrizzata. Del resto, saputo il caso, affermò dottrinariamente che la rabbia non si trasfonde da uomo ad uomo, eccitò Gioacchino a dormire quindi i suoi sonni tranquilli, e gli voltò le spalle.

Gioacchino pensava: — Menzogna, inganno pietoso. Voglio sapere la verità ad ogni costo — e nel correre verso casa, passando [p. 127 modifica]innanzi alla Farmacia di Santa Fosca, di cui conosceva il principale, vi entrò difilato. Giunto al banco starnutò. L’aria impregnata degli odori di droghe, di olii, di mantecche e di elettuarii, gli punzecchiava le papille del naso.


La Farmacia di Santa Fosca è celebre. Delle sue pillole miracolose si occupò più volte niente meno che il Gran Consiglio della Repubblica di Venezia. La sala, piuttosto vasta, appare molto solenne; un resto, perfettamente conservato, dell’arte barocca: grandi armadii tutt’intorno in legno massiccio, a pilastri, a cornicioni, a timpani, con riquadri arzigogolati e volute gobbe; sulla porta di mezzo, in faccia all’ingresso, il busto di un vecchio sapiente, in atto di consultare un librone enorme di farmacopea; sulla porta a destra il busto d’un giovine, che tiene una storta, e sulla porta a sinistra quello di un altro giovine, che pesta nel mortaio; all’alto dei frontespizii certe figure allegoriche di donne sdraiate e dorate; qua e là delfini e caducei. Il soppalco a travi regolari, dipinti in fiorami gialli, non ha una ragnatela; nelle scansie i vetri di maiolica, bianchi con gli ornati di fogliami celesti e le iscrizioni a lettere gotiche nere, i più grossi e panciuti nel palchetto più alto, in mezzo i mezzani e sotto i piccoli, stanno schierati l’uno accanto all’altro con una regolarità, dove s’indovina la mano avvezza agli scrupoli d’oncia.

Se la discorrevano insieme nella stanza [p. 128 modifica]vicina, intorno alla tavola tonda, quattro medici, mentre, dietro al banco, lo speziale attendeva a pesare e ad incartare non si sa quali polveri bianche.

Gioacchino, vergognandosi di parlare di sè, principiò a narrare allo speziale il caso di un amico suo, che era stato morsicato da una donna, la quale alla sua volta era stata morsicata da un cane, probabilmente rabbioso. Nell’andare innanzi, infervoratosi nei particolari della storia, alzò a poco a poco la voce, sicchè i medici, dall’uscio aperto, si posero ad ascoltare. Il punto sul quale Gioacchino voleva essere illuminato era questo: — L’idrofobia si può trasmettere dall’uomo all’uomo? — Il farmacista non sapeva che cosa rispondere; ma intanto entrò una vecchietta a chiedere tre once di olio di ricino, e il farmacista, conducendo Gioacchino nella stanza attigua, espose ai medici la domanda di lui, mentre la vecchietta gli tirava la falda dell’abito perchè si sbrigasse a darle quel purgante, il quale doveva servire a guarir dalla colica la sua nuora, un bel pezzo di giovinotta, che aveva mangiato, essendo giorno di magro, un subisso di baccalà.

I quattro medici, i quali stavano aspettando invano di essere chiamati da qualche cliente, e intanto non sapevano come ingannare il tempo, giudicarono la quistione bella, ma molto intricata. Uno, il più vecchio, si rammentava di avere letto nello Sperimentale di [p. 129 modifica]un caso d’idrofobia comunicata ad un fanciullo dalla morsicatura di una ragazza, innanzi che le si manifestasse la rabbia. Gioacchino allibì. Vero è che la notizia fu poi smentita nello stesso periodico. Gioacchino respirò.

Frattanto il secondo dottore, sbarbato, con i capelli biondi e lunghi e gli occhiali sul naso, era andato a frugare nella libreria, che pigliava tre lati della stanza (la più ricca libreria delle farmacie di Venezia) e ne aveva cavato il fascicolo del giugno 1880 del Giornale internazionale delle scienze mediche. Interrompendo senz’altro i discorsi dei colleghi si mise a leggere lentamente, gravemente alla pagina 488 questo articoletto: — “Sulla trasmissibilità della Rabbia, pel dottor Raynaud. Fino ad ora si teneva per indiscutibile che l’uomo rabido non sia atto a trasmettere ad altri la malattia; oggi pare che tale questione sia entrata in una fase tutt’altro che rassicurante. Da alcune esperienze è lecito dedurre che il virus rabido dell’uomo è contagioso. L’inoculazione fatta nei conigli della saliva o del detrito della glandula salivale di un uomo affetto da rabbia, per morso riportato da animale sospetto, diede luogo ai sintomi rabidi, indi alla morte. Da ciò si deduce la trasmissione della rabbia non solo dall’uomo agli animali, ma eziandio da uomo ad uomo; e, ciò ammesso, si comprende come bisogna guardarsi con scrupolosa attenzione così dai morsi degli infermi affetti da rabbia, come [p. 130 modifica]anche dalla loro saliva e dagli oggetti che ne fossero imbrattati, specialmente nel caso che nelle mani esista qualche taglio o scalfittura o piaga.„

Gioacchino era diventato verde e immobile come un cadavere: soltanto le sue labbra tremavano; ma i medici, incaloriti nella questione, non gli badavano affatto.

Uno di essi, il più giovane de’ quattro, piccoletto, gobbetto, tutto malizia negli occhi e nella bocca, osservò: — L’articolo non vuol dir nulla. Gli uomini, è vero, somigliano ai conigli nell’animo, ma non si possono confondere con i conigli nel fisico. Io in questa materia la so lunga, pur troppo! La mia tesi di laurea ebbe a tema l’idrofobia: ho dovuto consultare un monte di libri, e sono stato aiutato dal professore Lussana, che ha compiuto delle belle esperienze. Vi ricordate certo di quel povero dottore Agostino Marin, medico condotto di Cervarese Santa Croce, tanto buono, tanto amato da tutti, il quale, morsicato da un cane, sentendosi dopo tre mesi i primi sintomi dell’idrofobia, montò in carrettella e, guidando da sè, si recò all’Ospedale di Padova, dove al medico di guardia disse quietamente: — Vengo a finire qui, per non funestare con l’orrendo spettacolo della mia morte la mia moglie ed i miei figliuoli, che amo tanto. — Morì in fatti qualche giorno appresso; e il Lussana, avendo avuto un poco di sangue di quel disgraziato, lo iniettò nella [p. 131 modifica]vena femorale di due cani. Uno de’ cani poco dopo morì, l’altro fu ucciso: era stata comunicata a tutti e due la così detta idrofobia lipemaniaca o taciturna. —

Il medico biondo interruppe: — O dunque, se ai conigli e ai cani, con la saliva e col sangue la rabbia si trasmette, perchè non s’ha a trasmettere all’uomo?

— Caro dottore, o perchè i cavalli, i ciuchi ed i buoi vanno soggetti a malattie diverse da quelle della bestia umana? Non ci sono forse dei veleni che accoppano certi dati animali, non facendo agli altri nè caldo nè freddo? L’Hertwig dichiara che solo il quinto degli uomini addentati direttamente da cani idrofobi s’ammala; e il Giraud, il Bezard, il Parvisse, il Gauhier, il Vaughan....

— Basta, per carità! — gridò lo speziale dal suo banco.

— .... Il Giraud, il Babington praticarono l’innesto senza ottenere mai ombra d’idrofobia. Nessuno dei coraggiosi dissettori che, studiando i cadaveri di idrofobi, s’erano fatti alle mani o tagli o graffiature, ebbe a soffrire nulla, salvo uno, pare, se si deve credere all’Andry.

— La conclusione è questa — notò il medico vecchio — che non sappiamo nulla; ma non vorrei, lo confesso, neanche a ricoprirmi d’oro, sperimentare nella mia carne i denti di un uomo idrofobo.

Gioacchino era caduto sopra una seggiola: [p. 132 modifica]tendeva l’orecchio, ma non respirava più. Si fece coraggio, e chiese, balbettando, al medico gobbetto, che gli stava accanto: — La rabbia, scusi, negli uomini e nei cani si può sempre riconoscere dalle loro furie, dagli ululati, dalla bava, da qualche altro segno sicuro?

Il novello Esculapio, lietissimo di poter sciorinare la sua sapienza, rispose: — No. La rabbia non si manifesta con accessi di furore, anzi è una malattia, a prima giunta, di apparenza benigna; ma fino dal principio la saliva riesce virulenta, cioè contiene il germe inoculabile; ed il cane, o anche l’uomo, senza fallo, è allora più pericoloso per le carezze della sua lingua, che non per la tendenza a mordere.

La copia della bava non appare un indizio costante: talvolta la gola resta umida, talvolta secca. In una varietà particolare, che si denomina rabbia muta, la mascella inferiore si discosta assai dalla superiore, e si vede sino al fondo la gola nera. Sovente il cane cammina con il passo vacillante, con la coda rilassata, con la testa china e gli occhi spalancati e la lingua pendente fuori della bocca, lunga, azzurrastra. Alza il capo per mordere, e poi subito ripiglia il suo fatale cammino.

— E nei rimedii — chiese il medico vecchio, il quale non aveva più voglia di tenere dietro ai progressi dubbiosi della sua scienza — dopo il vano tentativo del curaro, hanno inventato altro?

[p. 133 modifica]— La tracheotomia — rispose il gobbetto.

— La tracheotomia — brontolò con un soffio di voce Gioacchino. — Che cosa è?

— È un taglio lungo la trachea — e il medico mostrava la gola più giù del colletto. — Il pathos eminens dell’idrofobia consiste in uno spasmo laringo-faringeo; non potendo dunque respirare di su, si spacca la gola e si respira più sotto.

Gioacchino inorridiva, ma il medico, senza guardarlo, continuava: — Vero è che alla stretta dei conti si muore ugualmente, strozzati, epilettici, furiosi, con la bava e il sangue alla bocca, ballando come nel delirium tremens il più orribile e infernale dei can-can. —

Il dottore biondo, quello con gli occhiali, mentre i colleghi suoi ragionavano, non aveva fatto altro che togliere dalla libreria dei volumi e scartabellarli e ammonticchiarli sulla tavola. Sfogliandone uno, dopo avere scorso una mezza pagina, si pose a ridere, dicendo: — Sentite, amici, niente meno che l’Encyclopédie, quella del Diderot e del d’Alembert, quella che ha illuminato il mondo. Ecco l’articolo Rage. Rabbia dunque ce n’è di sette sorte: quattro hanno rimedio: per le altre v’ha un riparo soltanto: tuer le chien enragé. E delle medicine questa è amena: “Pigliate il peso di sei scudi di sugo d’assenzio, il peso di due scudi di polvere d’aloe, il peso di due scudi di corno di cervo bruciato, due dramme [p. 134 modifica]di agarico e il peso di sei scudi di vino bianco: mèlez le tout ensemble, et les faites avaler.„

Qui scoppiò una lunga risata; ma il dottore biondo continuava imperterrito: — Farmaco per impedire che la rabbia si manifesti: “Pigliate del latte di vacca appena munto, mettetegli in fusione della pimpinella selvatica, e fatene bere tutte le mattine per nove giorni.„ —

Lo speziale, messo in curiosità dalle risa dei dottori, era andato ad ascoltare.

— Ha inteso? — disse a Gioacchino — basta bere per nove mattine il latte con la pimpinella. —

Ma il quarto medico, il quale non aveva mai aperto bocca, e pareva che sonnecchiasse, si alzò e, preso in disparte Gioacchino, gli bisbigliò con molta solennità in un orecchio:

— Lasci sbraitare questi signori. Il fatto è questo, che la trasmissione dell’idrofobia da uomo ad uomo è cosa oramai certissima. Se dunque il cane era idrofobo, l’amico è spacciato. Il punto sta qui: sapere se il cane era idrofobo; e, poichè i cani idrofobi non guariscono mai, sapere se il cane è vivo e sano.

Se il suo amico o lei o qualche conoscente avessero bisogno di un medico, eccole il mio biglietto da visita.

Gioacchino uscì sbalordito, mezzo tramortito, barcollando sulle magre gambe.

Sapere se il cane è vivo! Gioacchino si rammentò del collare che aveva in tasca. Gli venne [p. 135 modifica]una grande idea: corse la sera stessa agli uffici de’ giornali che si pubblicano la mattina, e la mattina seguente, per tempo, agli uffici de’ giornali che si pubblicano la sera; e fece stampare l’avviso che conosciamo.


* * *


Lo abbiamo lasciato che andava alla sua Cassa, dove giunse in ritardo, ruminando nel cervello cento storie terribili di cani arrabbiati, d’uomini morti negli spasimi più tremendi, quando meno se l’aspettavano, molte settimane, molti mesi, molti anni dopo morsicati. Vivere in tante ambasce! meglio buttarsi subito nel canale con una pietra al collo. E contava i biglietti di banca con la sicurezza meccanica della consuetudine lunga; e pensava intanto al suo povero zio, che, vedendo un cane, allibiva, sgattaiolava lungo i muri, si rannicchiava ne’ canti; al suo povero zio, quel sant’uomo, che, dopo avere mangiato pane e cipolle tutta la vita, gli aveva lasciato centomila lire, facendogli giurare solennemente di portare sempre gli stivali sino alle ginocchia, poichè i cani hanno l’usanza di addentare alle polpe.

Si presentò allo sportello della Cassa la testa unta di Zaccaria, e in atto di mistero disse:

— C’è quel signore.

[p. 136 modifica]— Chi?

— Quello del collare. —

Gioacchino scattò, e gli passò sulla fronte un lampo di gioia. Il proprietario del collare era un bel giovinotto, alto e robusto, tenente di fanteria marina, il quale, dette le due lettere che l’avviso chiedeva e ringraziato il cassiere, dichiarò di voler pagare, non foss’altro, le spese delle pubblicazioni; ma Gioacchino non rispondeva. Guardava intorno, cercando il cane:

— E il cane dov’è?

— Il cane è scappato.

— Quando?

— Ier l’altro. —

Gioacchino si sentì gelare, e, come parlasse a sè medesimo, con un accento di strazio mortale, bisbigliò:

— Il giorno in cui ha morsicato Irene!

— Appunto. È un cane mansueto come un agnello; ma non bisogna tirargli le orecchie. Irene gliele tirò, ed egli dentro coi denti nelle polpe. Allora gliene diedi tante e tante, che scappò giù dalle scale, e non l’ho più veduto. Ma tornerà, ne son certo; mi capiterà tra i piedi o al caffè, o in qualche casa dove ho per costume di andare. Non è la prima volta che mi fa questi scherzi.

— Era sano?

— Come un pesce, ma con questi calori non si sa mai. —

Gioacchino, alzando gli occhi e guardando [p. 137 modifica]il volto rotondo e gioviale del tenente, chiese tremando:

— Ella conosce Irene? —

L’altro si mise a ridere, come se volesse dire: e chi non la conosce?

— Scusi, ci andò ier l’altro per caso?

— Sono tre mesi che ci vado tre o quattro volte la settimana e le ho condotto quasi tutti gli ufficiali del battaglione.

— Irene in calle delle Zotte, numero 120, quella ragazza che abita con la madre?

— Una bella madre davvero!

— Ma insomma, Irene....?

— Non lo sapeva? —

Allora soltanto il bel giovine s’avvide che il disgraziato cassiere non si sentiva bene, e, poichè Gioacchino pregava di essere lasciato solo, il tenente, senza darsi la briga di capire codesto imbroglio, se ne andò via, intendendosela con l’antiquario dello Scudo d’oro, perchè, quando a quel matto del cassiere fosse piaciuto, gli portasse a casa il collare. Zaccaria s’inchinò tanto che toccò quasi il suolo con le due punte della barba grigia.

— E mi costa cento lire! — ripeteva Gioacchino, e, mentre contava i danari allo sportello, andava ripensando alla pietra da legarsi al collo e al canale ove affogarsi. Poi esclamava: — Voglio vendicarmi; voglio uccidere la vecchia prima e la giovane poi. — E tremava di paura.

[p. 138 modifica]Alle sette di sera, senza sapere quel che si facesse, entrò nel chiassuolo delle Zotte. La porta era aperta, salì e sul pianerottolo si fermò un istante: gli pareva di sentirsi strozzare, non poteva più inghiottir la saliva, aveva il granchio alle mani, il cuore con i suoi gran colpi voleva spezzargli il petto. — Ci siamo — pensò — mi restano poche ore di vita. — Mise il piede sulla soglia della camera d’Irene.

Irene, sdraiata come al solito sull’ottomana, scherzava con un cane. Gioacchino si voltò per fuggire, ma Irene gli gridò:

— Vieni, vieni, guarda com’è grazioso. —

Poi, parlando al cane:

— Non mi morderai più, non è vero? —

Era il cane che Gioacchino cercava, sano, allegro, saltellante. Gioacchino, trasformato, cavò di tasca il collare e s’avvicinò alla bestia, la quale, sentendo l’odore della roba sua, sbalzò ai piedi del giovinotto, e ballandogli intorno abbaiava di gioia. Gioacchino affibbiò al cane il collare, poi con un ginocchio a terra, si pose ad accarezzare il suo pelo nero, vellutato, morbido; e il cane s’avvoltolava, e con la pancia all’aria dimenava le zampe. Irene rideva a crepapelle. A un tratto Gioacchino s’alzò dignitosamente, e cercando di dare alla sua fisonomia squallida, a’ suoi occhietti piccoli e spenti una espressione terribile, disse con la sua voce stridula:

— Signora, vi lascio al tenente di fanteria marina ed al suo battaglione; vi lascio al [p. 139 modifica]padrone di questa bestia. So tutto, tutto — e s’avviò risoluto all’uscio.

L’ilarità di Irene non ebbe più freno; si sganasciava, e, battendo le mani, gridava al cane:

— Acchiappa, Budda, acchiappa il ladro, acchiappalo — e incitava il cane col gesto.

Budda, ringhiando, corse giù per le scale dietro a Gioacchino; ma questi era stato più lesto e aveva chiuso la porta. La vecchia infame gettò dalla finestra sul cappello del giovine, mentre usciva, una buccia di limone.


* * *


Il nostro cassiere tornò alla sua vita di prima, regolare e monotona; non s’attentò più di seguire nelle vie le belle brune; si rimise a’ risparmii, e comperò un paio di stivaloni nuovi, per proteggere anche le ginocchia.