Satiri alla caccia (Sofocle - Romagnoli)/Prefazione

Prefazione

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Sofocle - Satiri alla caccia (V secolo a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1926)
Prefazione
Satiri alla caccia (Sofocle - Romagnoli) Personaggi

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I Satiri alla caccia di Sofocle, da poco tempo ritrovati, in condizioni abbastanza buone, in un papiro egiziano1, piú che per l’intrinseco pregio, interessano perché offrono un secondo esempio di dramma satiresco, tipo d’arte che per noi moderni era finora rappresentato solamente dal Ciclope d’Euripide.

Il dramma satiresco seguiva, quasi come un farsa, le trilogie tragiche, che i poeti presentavano agli agoni annuali. Ma, sebbene relegato in posto secondario, esso offriva, piú che non i drammi della trilogia, una immagine, sia pure alterata e tecnicamente raffinata, della tragedia primordiale.

Per farsi un’idea di ciò che fu nella sua prima origine la tragedia, bisogna spogliare questo vocabolo del significato che esso è venuto assumendo via via nel corso dei secoli. Non vicende terribili e cruente, non cozzo di caratteri aspri ed elevati, non austerità né sublimità di loquela. La tragedia [p. 194 modifica]primitiva è una danza e un canto satiresco e burlesco. La parola trágos designava il capro, ed anche la creatura semicaprina detta satiro. E tragedia è il canto dei satiri in onore del loro signore Diòniso2.

Diòniso non era d’origine greca. Era, sembra, un nume tracio dell’ebbrezza: d’una ebbrezza, però, non volgare, e forse, in origine, neppur connessa col vino, bensí autogena e trascendente. Estasi meglio che ebbrezza. E Diòniso era immaginato giovane, bellissimo, vestito mollemente, coronato d’ellera, impugnante una ferula coronata di fiamma. Lo seguiva uno stuolo di Mènadi, giovani donne che erravano con lui per i monti e per i liberi campi, danzando, folleggiando, cacciando fiere, compiendo opere prodigiose. Emigrarono insieme, thíaso tumultuoso e gioioso, dalla Tracia, dalla Lidia, dalla Frigia natale, alla terra ellenica, dove introdussero ed imposero i riti loro meravigliosi. Trovarono fieri oppositori; ma anche proseliti entusiasti; e tra questi, in primissimo luogo, la numerosa famiglia dei satiri.

Che cosa furono i satiri? Sulle rozze ceramiche, dove, dissipata un po’ la fitta caligine del Medio evo ellenico, incomincia a brillare qualche fioco riverbero di vita, vediamo apparire innumerevoli bizzarri mostriciattoli semiequini, perpetuamente intesi a balli ed a giuochi. E un verso di Esiodo commenta quelle figure:

La progenie dei Satiri fannulloni ed inetti.

E sembrerebbero, dunque, anteriori all’avvento di Diòniso. — Ma su che reali immagini la fantasia ellenica foggiò questi esseri grotteschi? — Alcuni additano la loro somiglianza con certe creature semiferine dell’arte egea, e da [p. 195 modifica]queste li fanno derivare, e, pel tramite loro, da mostruosi numi di religioni orientali. Altri li credono riflessi di popolazioni realmente esistite, che, per taluni caratteri etnici o del costume, sembrassero bizzarre e non umane. Ad ogni modo, il popolo greco sognò con essi l’eterno sogno delle genti oramai costrette fra mura e fra convenzioni sociali. E in quasi tutte le figurazioni satiresche, anche nelle meno sottili ed accurate, aleggia fresco il sentimento d’una vita libera gioconda, fra monti, acque e foreste.

Per questo, dunque, i satiri erano già come predisposti alla vita dionisiaca. Sicché, quando il Nume irruppe dalla Tracia nativa, e invase la Grecia, come un uragano vittorioso, lo seguirono entusiasti. Si gittarono anch’essi su le spalle un vello di daino, cinsero corone d’ellera, impugnarono il tirso, e divennero i piú fidi compagni del Nume: tanto che non si potè piú concepire Diòniso senza i satiri. Prendevano parte a tutti i riti; ma di due erano specialmente entusiasti: fabbricare vino e braccheggiare ninfe. La popolarità del corteggio bacchico fu immensa; e ne sono indice le innumerevoli figurazioni, specialmente ceramiche, giunte sino ai nostri tempi.

In certe epoche dell’anno si celebravano feste solenni in onore di Diòniso. Un sacerdote del Nume si travestiva, assumendo le forme che si attribuivano al Nume stesso, e saliva sur un carro. Altri si mascheravano da satiri, e, parte ascendevano anch’essi il carro, parte vi si aggiogavano e lo tiravano, o lo accompagnavano suonando flauti e lire. Andavano cosí in processione, e li seguiva gran turba di popolo, trascinando un toro destinato al sacrifizio. Una preziosa rappresentazione ceramica del Museo di Bologna ci mostra ancora questa scena con tutti i piú minuti particolari (Fig. I).

Arrivato a un certo punto, verisimilmente a qualche santuario, il carro si fermava, e i satiri, intrecciata una danza [p. 196 modifica]vivace, intonavano un inno, pregando il Dio di prender parte alle loro danze; e il Dio si alzava, rispondeva, narrava qualche sua ventura. Infine i satirelli, sbrigliandosi sempre di piú, si rivolgevano agli spettatori, e improvvisavano contro questo e quello beffe mordaci e salaci. Tale la primissima tragedia: quella specie di carro carnascialesco fu il prototipo del carro di Tespi3.

A poco a poco, qua e là, anche per amore del nuovo,Fig. 1. - Il carro di Diòniso. si introdussero mutamenti. Al posto di Diòniso si mise un altro nume o un altro eroe, alle improvvisazioni si sostituirono parti scritte in versi, il carattere buffonesco tramutò in serio, si aggiunse un secondo attore, si stremarono le parti cantate, e si fece primeggiare il dialogo. La nuova tragedia era sorta, e ben poco somigliava all’antica. Ad un certo momento, [p. 197 modifica]disparvero anche i satirelli, e furono sostituiti da un altro coro. Allora partí dalle file degli spettatori il famoso grido: Oudèn pròs tòn Diónyson: di Diòniso non c’è piú neppur l’ombra!

Si pensò allora, non sappiamo quando, né in quale circostanza, a ricondurre quello spettacolo, che rimaneva pur sempre ufficiale e sacro, alle sue prime origini. Ma l’arte raffinata non può tornare semplicemente agli incunaboli. Sicché si fece quello che con vocabolo moderno e francese si direbbe pastiche: si riprodusse l’antico dramma satiresco con la raffinata tecnica moderna. Ond’esso manteneva del prisco dramma tragico l’obbligatorio coro di satiri, e, pel suo tramite, aveva sempre attinenza piú o meno diretta con Diòniso; ma pel resto derivava forma e stile dai due tipi drammatici che intanto si venivano gloriosamente svolgendo: la commedia e la tragedia. Non è tuttavia senza interesse osservare che l’ingegnosissimo Euripide, meglio disposto dei suoi predecessori a sentire questo genere d’arte, riprese talora anche l’originario ritmo trocaico. Ecco due vaghissimi frammenti del suo Autolico satirico, oggi perduto:

283

E dal monte, entro panieri — legna portano i somieri.

284

E le briglie di corteccia — pei corsieri intanto intreccia.
Il primo compositore di drammi satireschi fu Pratina. A lui seguirono Aristia e i tre grandi tragici, e una folla di minori, sino ad alcune tarde reviviscenze bizzarre, una di Licofrone, una attribuita, e non è certo che l’attribuzione sia falsa, ad Alessandro Magno. [p. 198 modifica]

Ho detto che finora per noi il dramma satiresco era rappresentato solamente dal Ciclope d’Euripide. In realtà possedevamo anche un certo numero di frammenti: non moltissimi, ma piú significativi che non si soglia credere. E non ispiaccia che io traduca qui i principali, anche per fare un po’ di cornice, per creare un po’ di atmosfera intorno al nuovo drammetto di Sofocle.

Il posto d’onore spetta ad un canto leggiadrissimo di Pràtina. Sembra che i satiri, irrompendo nell’orchestra, la trovino ingombra da intrusi. E fanno valere i propri diritti ad esaltare il Nume. È il canto d’ingresso, la pàrodos: ricorda, nella movenza e nello spirito, la pàrodos, anch’essa vaghissima, del Ciclope d’Euripide.

Che è questo frastuono? Che è mai questa danza?
Qual tracotanza
ruppe su le sonore di Dioniso scene?
È mio, Bacco, mio solo! Solo a me s’appartiene
strepitare, e gran voci tra le Ninfe dei fonti
levar sui monti,
come cigno che spiega l’armonioso canto.
Alla voce, la diva pieria il regno die’:
in coda resti il flauto, ché servo egli sol è!
Sia fra l’orge soltanto
egli duce, e degli ebbri giovani fra le lotte!
Giú, bòtte
al rospo gracidante! Ardi quel calamo
garrulo, rozzo,
che va fuori di tempo, che di saliva è sozzo,
quel serpentello
forato col trivello!

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Incominciano a danzare.
Mira, per te la mano ed il piede, agili
leviamo a volta a volta:
questa dorica danza, o cinto d’ellera
Signore, o Re del ditirambo, ascolta.

Pochissimo ci rimane di Eschilo. Pare che nella suaFig. 2. - Satiro sbigottito dinanzi a una testa gigantesca che emerge dalla terra. Fuga di Sisifo, il protagonista, l’uomo piú fino del mcndo, riuscisse ad ingarbugliare lo stesso Dio dell’Averno, e, rotte le porte dell’Ade, tornasse alla luce. Da qualche frammento intravvediamo una scena. Sisifo sbuca dal suolo, tutto imbrattato di terra, e senza piú figura umana. Alla bella prima, i satiri lo pigliano per una talpa4: [p. 200 modifica]

227

È un topo campagnuolo... eh, com’è grosso!

Ma poi nasceva una discussione; e un altro dei satirelli credeva di poter ravvisare nel redivivo uno degli scarafaggi dell’Etna, celebri per favolosa grossezza, intento alla sua poco fragrante bisogna (Framm. 233).

Forse a Sisifo, appena uscito dalla terra, e mezzo tra vivo e morto, si riferivano le parole:

230

Né tu vigore hai piú, né corre sangue
per le tue vene.

Ancora. Orazio parla, in una sua satira famosa, d’un appassionato dilettante di anticaglie, che soleva andar cercando il catino di bronzo in cui quel furbacchione di Sisifo soleva lavarsi i piedi (II, 3, 21):

Quo vafer ille pedes lavisset Sisyphus aere.

E vien fatto di pensare che non sia espressione generica, e che nel mito di Sisifo qualche parte quel bacino l’avesse, quando vediamo che nel dramma di Eschilo un personaggio diceva:

225

Il bacile si rechi, ove si lavino
i pie’ divini. Ov’è la catinella
erta su zampe leonine bronzee?

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E per Eschilo non ci rimangono piú che briciole.

Nell’Amimone, Danao mandava le figliuole ad attingere acqua. Una di queste, Amimone, scagliava uno strale contro un cervo, e colpiva invece un satiro dormente, il quale, balzato su, voleva acciuffarla. E pare dicesse, e chi sa che vecchiaccio sarà stato:

13

Tu sei già da marito, io da sposina.

Ma giungeva Posidone, scacciava il satiro, e aveva lui la fanciulla.

Della trama dei Raccoglitori d’ossa (quei poveracci, pare, che andavano a raccattare gli avanzi dei sacrifici), non sapremmo dir proprio nulla. Ma ne possediamo per compenso due frammenti che, in tanta miseria, si possono dir notevoli. Vivaci e di sapor comico, fanno pensare ad una parodia della scena omerica fra Ulisse e i Proci. Qualcuno si lagna dei cattivi trattamenti inflittigli:

179

Eurìmaco, anche lui, non men che gli altri,
d’obbrobriosi oltraggi mi coperse;
e la mia testa eragli ognor bersaglio.

Bersaglio a poco nobili proiettili. Ecco infatti un’altra recriminazione, forse del medesimo personaggio:

180

Questi è colui che contro me scagliò
un ridicolo dardo, un orinale
puzzolente; né il colpo andò fallito.
Naüfragò, picchiando sul mio capo,
e, ridotto in frantumi, una fragranza
d’altro che mirra m’alitò sul viso. [p. 202 modifica]

E, finalmente, pare si debba attribuire a un dramma satiresco d’Eschilo la scenetta a cui allude Plutarco. Un satiro, vedendo il fuoco la prima volta, nella sua lascivia si lanciava per baciarlo. Onde Prometeo lo ammoniva:

207

Bada, ti brucerai, becco, la barba!

Passiamo a Sofocle, e al suo Convegno degli Achei. Prima che i Greci, mossi a vendicare il ratto d’Elena, sbarcassero nella Troade, Agamennone aveva dato un banchetto senza invitare Achille. Di qui le furie dell’eroe, che nel dramma satiresco avranno certo dato origine a scene burlesche ed a commenti dei satiri. Ne rimane un frammento, da cui si ricava che si ammanniva sulla scena un pranzetto:

138

Qui, portate, impastate, riempite
una tazza capace. È come un bove,
l’amico, qui. Non mangia? Non lavora.

Altri versi appartenevano certo ad Ulisse. Rimproverava Achille, dicendogli che la vera causa del suo sdegno contro Agamennone non era già il mancato invito, ma la paura di affrontare Ettore:

141

Appena viste le mura troiane
tremi di già.

E poi: [p. 203 modifica]

Perché sguisci, lo so: non per paura
che si sparli di te5; ma s’avvicina
Ettore: e rimanere non è comodo.

     Achille non stava zitto, e gli rimproverava la sua discendenza dal furbo Sisifo:

142

Come si vede in tutto, o scellerato,
che di tua madre Sisifo era padre.

Ulisse gli combinava una risposta ben piú maligna. Achille era giovanissimo, e, pare, azzimato e profumato: e lo chiamavano abitualmente il figlio di Tetide. Ulisse giustificava ironicamente questo uso:

139

Uno che pare un ragazzetto, e il mento
ha cosí profumato, ed è figliuolo
d’una tal madre, o come non chiamarlo
dal nome di mammà?6.

A Sofocle apparteneva anche un Salmoneo. Salmoneo era quello sbruffone, famoso presso gli antichi, che voleva tener testa a Giove. Trascinava legati al carro, dice Apollodoro, otri di cuoio indurito e gran bacili di bronzo rumoreggianti; e questi erano i suoi tuoni. Lanciava contro il cielo fiaccole accese; e queste erano le folgori. Giove, seccato, gli azzeccò una saetta sul serio, e la fece finita. [p. 204 modifica]

Che Apollodoro abbia tolte appunto dal dramma di Sofocle queste notizie, non lo giurerei. Certo il soggetto par fatto apposta per un dramma satiresco. E un paio di versi mi pare contengano una sconcia beffa dei satiri che non pigliavano troppo sul serio quei tuoni:

495

Or or ti coglie l’alito fulmineo
del tuono e della puzza.

Pochi altri frammentini possedevamo di Sofocle prima della nuova scoperta. Ma non crederei impossibile che a lui appartenesse un altro grazioso frammento, trovato anch’esso ad Ossirinco, e pubblicato nell’ottavo volume dei papiri. In esso vediamo i satirelli presentarsi ad un certo Oinèo, e chiedergli, non sappiamo perché né con qual diritto, che consegni ad essi una fanciulla. Oinèo li interroga prima su l'esser loro. Ed essi presentano il seguente biglietto da visita.

Te lo diremo. Zerbinotti siamo,
figli di Ninfe, famuli di Bacco,
casigliani dei Numi. E non c’è arte
che non si sappia: scherma con la lancia,
gare di lotta, gare di cavalli,
la corsa, il pugilato, il dente aguzzo,
comporre canti in musica: sappiamo
indovinare senza sbaglio quello
che già si sa: la medicina a prova:
le misure astronomiche: sappiamo
ballar, mettere il becco nei misteri
di sotterra: ti par tempo buttato?
Tanta grazia di Dio, chiedi ed avrai
quello che vuoi; ma dammi la ragazza. [p. 205 modifica]Il discorsetto, come si vede, fa proprio il paio con quello di Sileno, nei Satiri alla caccia.

Dei frammenti del Ciclope d’Euripide, parleremo nel volume che lo conterrà. Ma prima di procedere alla lettura dei Satiri alla caccia, diamo un’occhiaia ad alcuni monumentiFig. 3. - Satiri che aggrediscono Iride. figurati che servono assai bene a concretare l’immagine di questo singolar genere di drammi.

Il posto d’onore spetta al celebre vaso di Brygos. Le rappresentazioni che lo adornano risalgono senza dubbio a drammi satireschi.

Nella prima (Fig. 3) vediamo un’ara, e dietro ad essa un magnifico Diòniso, solennemente vestito, con una gran coppa nella sinistra, e uno scettro nella destra. Persona o idolo? Direi piuttosto idolo, per quanto sembri che segua con un certo interesse, quasi con meraviglia, la scena che si svolge sotto i suoi occhi. Iride, una bellissima ragazza con vesti ampie svolazzanti, con un magnifico paio d’ali, e le trecce raccolte in [p. 206 modifica]una cuffia, si lancia verso destra. Nella sinistra impugna un caduceo. Essa è venuta dunque in terra, messaggera di Giove. Ma è capitata male: fra una compagnia di satiri. Ne vediamo tre che le si precipitano addosso: due l’hanno già ghermita, e sembrano contendersela. Si salverà? Chi Fig. 4. - Satiri che aggrediscono Era.potrebbe dirlo? Negli Uccelli di Aristofane troviamo una scena analoga a questa; e la messaggera celeste se la cava con la paura. Ma i satiri eran certo piú pericolosi compagnoni che non il salace vecchietto Gabbacompagno.

Certo l’avrà scapolata Era, che vediamo nell’altra rappresentazione (Fig. 4). Anch’essa è accerchiata da satiri, che, senza un rispetto al mondo per la sposa di Giove, le fanno ressa contro. Ma Era trova difensori. Ermete, innanzi tutto, che, impugnando il suo bravo caduceo, sbarra la via, e, con un espressivo gesto della mano, li trattiene, e sembra perori e li dissuada con le buone dal nefando sacrilegio. Ma non [p. 207 modifica]tanto dal gesto ermetico i satiri saranno indotti alla titubanza, evidentissimamente espressa dai loro gesti, quanto dalla piú energica azione del secondo difensore, che è nientemeno Ercole. L’eroe si precipita contro la selvatica masnada, stringendo con la sinistra l’arco, con la destra la clava. La soluzione non sarà stata neppur qui troppo cruenta. Sappiamo bene quanto fosse il coraggio dei Satiri: e nessun dubbio Fig. 5. - Lamia martirizzata da Satiri.che di fronte all’indiscutibile eroe si saranno condotti con la massima prudenza.

Interessantissima è anche la scena d un vaso a figure nere (Fig. 5). Siamo, a giudicar dalla palma, in paese orientale. Quattro satiri hanno afferrata una vecchia negra, brutta e flaccida, l’hanno legata, mani e piedi, ad un albero, e la torturano. Uno la fustiga, uno le strappa la lingua con le tenaglie, un terzo sta per ghermirle e dilaniarle i seni, e infliggerle con una torcia una piú oscena tortura, un quarto accorre a percuoterla con un pestello gigantesco. A dritta, un ultimo satiro se ne sta tranquillamente appoggiato ad un bastone, e sembra fissi gli occhi verso ipotetici spettatori. Max Mayer, che [p. 208 modifica]pubblicò il vaso7, crede sia il corifeo, forse Sileno, che fa suoi grotteschi commenti alla macabra scena. È assai probabile. Certo sembra ad ogni modo che la scena sia ispirata ad un dramma satiresco.

A quale, di qual soggetto, non sapremmo dire. Ma vediamo, ed è interessante, che anche la Musa satiresca non isdegnò il tesoro di leggende e di superstizioni popolari a cui pure attingeva la commedia. Quella vecchia non è una vera e propria persona mitica. È una delle tante streghe, o Lamia, o Akkó, o Makkó, o Empusa, di cui ragionavano a veglia le donnicciuole d’Atene, imputando ad esse ogni sorta di ribalderie e malefizi8.

Qui la vediamo scontar la pena; e possiamo esser certi che il popolino d’Atene non si sarà troppo intenerito pel suo martirio. Che poi l’intrusione di simili creature nel regno dei satiri non fosse eccezionale, lo vediamo da un’altra rappresentazione vascolare, in cui un satiretto, armato di fiaccola e di tamburello, s’irrigidisce inorridito davanti ad una orribile Megera. Interessante è vedere che il popolino attribuiva a queste creature mostruose i lineamenti della razza negra. Anche per la nostra plebe, la romana, per esempio, o la siciliana, uno spauracchio è sempre un moro. E nelle nostre figure il carattere etnico appare cosí nettamente definito, che non so vederlo senza pensare alla mirabile pittura del Moretum virgiliano (v. 31 sg.):

Interdum clamat Scybalen. Erat unica custos,
afra genus, tota patriam testante figura:
torta comam, labroque tumens et fusca colore, [p. 209 modifica]
pectore lata, jacens mammis, compressior alvo,
cruribus exilis, spatiosa prodiga planta,
continuis rimis calcanea scissa rigebant.

Sileno ed i satiri avevano pure una pagina gloriosa nella loro vita fannullona: avevano, nella lotta dei Numi contro i Giganti, combattuto a fianco del loro nume Diòniso. Poi erano divenuti cosí sfiaccolati e svergognati, che il loro capo Fig. 6. - I Satiri contro i Giganti.Sileno, ripensando a quella sua gesta, si chiedeva se non l’avesse per avventura sognata (Ciclope, v. 9). Non fu sogno. E anche le opere d’arte serie e indipendenti dal dramma satiresco la glorificarono.

Ma, naturalmente, anche qualche dramma satiresco dove’ spesso esaltarla. Quello, per esempio, a cui probabilmente si ispirarono le due rappresentazioni pubblicate pure da Max Mayer9. Nella prima (Fig. 6) i satiri si lanciano intrepidi, con le lance fieramente brandite, dietro il loro Nume, che ha già rovesciato e trafigge il suo nemico. Nell’altra (Fig. 7), due di essi si sono aggiogati al cocchio, un loro compagno regge [p. 210 modifica]le redini, e un altro soffia con piglio eroico nella gran tromba di guerra.

Ed anche i monumenti figurati oramai ci abbandonano. Tra le infinite repliche di scene satiresche possiamo quasi certamente ritenere ispirate ad azioni sceniche quelle in cui satiri sbigottiscono dinanzi alla testa di Medusa presentata da Perseo (Fig. 8); o retrocedono sgomenti dinanzi a Diòniso e Cora emergenti improvvisi dal suolo; o approfittano del momento in

Fig. 7. - I Satiri contro i Giganti.cui Ercole dal rogo fatale ascende nel cocchio dell’apoteosi olimpica per rubargli le armi (Fig. 9). E ricordiamo infine il bel vaso in cui appare, entro cornice satiresca, l’episodio celeberrimo di Ulisse e Polifemo. Meno sicuri sono i rapporti col dramma satiresco della rappresentazione in cui un satiro ballonzola dinanzi al carro tirato da quattro centauri, che conduce Ercole all’Olimpo, e dell’altra, bellissima, in cui l’eroe, accompagnato da Satiri e da Menadi, s’è sdraiato sotto la finestra d’una bella, e una vecchia s’affaccia e gli rovescia addosso una brocca d’acqua10. [p. 211 modifica]

E prima di abbandonare i monumenti figurati, esaminiamo un vaso dipinto d’inestimabile valore11, forse dono votivo d’un corego, che ci pone sott’occhio con evidenza straordinaria l’allestimento scenico d’un dramma satiresco. Diòniso siede in fondo, su un lettuccio, e abbraccia la diletta Arianna.

Fig. 8. - Satiri sbigottiti dinanzi alla testa di Medusa. Non sono certo attori del dramma; ma il nume è tratto dalla olimpica sfera ideale al mondo reale, per presiedere il dramma, posto, come ogni altra rappresentazione scenica, sotto la sua protezione. Un attore riccamente vestito sta a sinistra del lettuccio, e regge con la destra una maschera giovanile.

È quasi certamente un re. E forse è una regina, certo una attrice e non una persona allegorica, come taluno vorrebbe12, [p. 212 modifica]la donna che siede sul lettuccio a destra, tenendo in mano anch’essa una maschera, di donna giovane e bella, con chiome prolisse. Ancora a destra, un altro attore indossa, sopra ricche vesti, il famoso vello di leone, e tiene appoggiata sulla spalla destra la clava. Con la sinistra regge anch’egli la maschera. Questi tre, un re dunque, una regina, ed Ercole, sono i tre personaggi eroici del dramma satiresco, che io credo Fig. 9. - Satiri che rubano le armi dal rogo di Ercole.fosse una Alcesti13. Nel vestito, e parrebbe, nel contegno, nulla distingue i nostri eroi da quelli della tragedia.

Ercole è rivolto, forse parla con un attore vestito da Sileno. Questo indossa un vestito attilato e interamente villoso, che lo fa somigliare ad uno scimmiotto. Sulla sua spalla sinistra è negligentemente gittata una pelle di pantera, la rituale nèbride. Con la sinistra leva all’altezza dei suoi occhi, e pare la fissi, una maschera da vecchione, inghirlandata di foglie. È proprio il Papposileno, il vecchio padre, il nonno dei satiri.

Intorno a questo gruppo centrale troviamo undici satirelli, [p. 213 modifica]quanti per l’appunto antiche notizie ne assegnano al dramma satiresco14; e con Sileno facevano la dozzina. Mentre gli attori principali sono uomini maturi, questi satirelli che formano il coro son giovanissimi. Non indossano altro vestimento che un paio di mutandine pelose, ornate sul di dietro della solita coda equina15. Del resto sono ignudi, ed uno (a destra) non ha ancora lasciate le sue vesti: forse questi coreuti non erano professionisti, e la rappresentazione eternata nel nostro vaso fu speciale ed insigne. Tutti meno uno hanno in mano la maschera satiresca: uno se l’è già adattata al viso, e già ballonzola. Tutte le maschere rappresentano satiri barbuti, di mezza età. Polluce distingue parecchie specie di satiri: il satiro canuto, il barbuto, lo sbarbato, il nonnosileno, il piú selvatico di tutti nell’aspetto16. Questi del coro appartengono alla seconda specie. Quelli del Ciclope euripideo, alla terza: sono, a quanto dice Sileno (v. 30), satirelli di primo pelo. I nomi, infine, scritti vicino ai satirelli del nostro vaso, Eunicos, Evapan, Dorotheos, Callias, Filinos, Dion, Nikokles, non mi sembrerebbero i nomi dei satiri, bensí degli attori. E il fatto che il ceramografo li ha ricordati, conferma nell’idea che la rappresentazione a cui presero parte fosse eccezionale. Certo sembra però strano che abbia taciuto il nome per l’appunto dei personaggi principali.

Ed eccoci alle ultime tre persone. Un uomo, piccolo di [p. 214 modifica]statura, e un po’ meschino, a quanto pare, siede su uno sgabello. È ignudo, inghirlandato, e tiene nella sinistra un rotolo. Sarà l’istruttore dei cori, se non forse l’autore stesso. Piú a destra, su una comoda scranna, siede una donna, elegantemente vestita, che suona il doppio flauto. Sta dinanzi a lei, e le fa cenno con la destra, un giovine ignudo, con un mantello gittato sulle spalle, e una cetera nella sinistra. Il flauto e la cetera: la piccola orchestra d’allora.

Eccoci, infine, ai «Satiri alla caccia».

In questo drammetto era rappresentata in forma drammatica la leggenda d’Ermète, narrata in un celebre Inno omerico. Ermète, nato da uno dei soliti amori illegittimi di Giove, era stato affidato dal padre alla ninfa Cillene, che dimorava sulla vetta del monte omonimo, fra l’Arcadia e l’Acaia. La Ninfa lo allevava tenendolo gelosamente custodito in casa, ché sfuggisse alla vigilanza della gelosissima Era. Ma il piccino, ancora di pochi giorni, avea fatto già piú d’una scappatella. Prima, trovato il guscio d’una testuggine, vi aveva applicate quattro corde di minugia, formando la prima lira.

Poi, rubate le greggi d’Apollo, le aveva condotte e rinchiuse entro la casa di Cillene. Sofocle immagina che Apollo lanci un bando, annunziando il furto, e promettendo una gran somma di denaro a chi farà sí ch’egli recuperi le sue greggi, misteriosamente sparite. I Satiri, famosi per l’acutezza dei loro occhi e del loro fiuto, si sobbarcano alla difficile impresa, e la spuntano.

E non sembri fuor di luogo, per un drammetto mutilo, e appartenente ad un tipo letterario cosí poco noto, un tentativo di valutazione estetica.

Sarebbe certo pessimo gusto sfoggiare acume e severità [p. 215 modifica]critica a proposito d’un drammetto tornato a luce dopo un sonno di venti secoli. Tuttavia, non possiamo nasconderci che anche questo, come, del resto, quasi tutti i nuovi doni del Nilo, ci lascia un po’ delusi. E, a giudicare almeno da questo saggio, il Sofocle satirografo rimaneva infinitamente inferiore al Sofocle trageda. La comicità delle parti dialogate, salvo, un po’, il discorsetto di Sileno, è povera e convenzionale. Alle parti liriche, si vede bene anche dai miseri frammenti, mancano slancio e calore: tanto che i tre versi immaginosi e poetici, in cui i satirelli descrivono l’effetto fantasmagorico della musica, in mezzo al terra terra di tutto il resto, sembrano quasi una stonatura. E poco felice è anche il motivo che potremmo dire predominante, la paura dei satiri pel suono della lira. I satiri, erano, sí, vigliacconi, e la loro paura era oggetto perpetuo di risa per gli spettatori. Ma fingerli sgomenti, essi fanatici della danza e d’ogni specie di musica, per un nuovo timbro armonico, e gracile e soave come quello della cétera, è inverisimiglianza che confina con la puerilità. Ridere non fa certo, come fa invece ridere, per esempio, la paura dei loro fratelli del Ciclope d’Euripide, quando, dopo tante smargiassate, dovrebbero sul serio piantare il palo nell’occhio al monocolo pastore etnese. E, poiché si presenta il confronto con Euripide, dobbiamo pur osservare che di fronte al Ciclope, cosí umoristico e indiavolato nelle parti drammatiche, cosí pittoresco e musicale nelle liriche, scàpitano per ogni verso questi Satiri alla caccia, cosí grigi e cosí lenti, e, innanzi tutto, cosí privi dello spirito dionisiaco, che pervade invece tutto il brioso lavoro d’Euripide. E forse nel dramma satiresco trovava migliore esplicazione la speciale piega ironica dello spirito di Euripide, che anche nel dramma tragico vedeva e segnava con manifesto compiacimento i lati meno eroici o addirittura comici dei miti e degli eroi.

Aggiungiamo però subito che il drammetto dove’ [p. 216 modifica]avvantaggiarsi molto dalla realizzazione scenica, e che perizia grande si svela nel modo come sono sfruttati alcuni elementi convenzionali e ineliminabili del dramma satiresco.

Assai felice è, per esempio, la danza, che, svolta, secondo abbiam visto, sul tema d’una ricerca, appare necessaria, e giustamente s’inquadra nell’azione. Le ripetute fughe e riprese dei satirelli danno legittima occasione ad una serie di evoluzioni di bell’effetto fra palcoscenico ed orchestra. E assai poetica è l’uscita della lira, della prima lira che abbia molcito l’orecchio umano. E vi troviamo lo strumento usato entro l’azione drammatica in funzione speciale: come, per esempio, nel Flauto magico di Mozart.

Del resto, se gli Ichneutái non intrecciano nuove frondi alla gloriosa ghirlanda di Sofocle, ci servono, come già dissi, a determinare meglio certi generici, e, parrebbe, obbligator i caratteri del dramma satiresco.

Noi sappiamo infatti che sull’antico teatro d’Atene si rappresentavano anche commedie mitiche, nelle quali apparivano dunque numi ed eroi, e talvolta anche satiri. Ora, quali rapporti intercedevano fra queste commedie mitiche e i drammi satireschi? In che somigliavano, in che differivano?

Anche in tanta scarsezza di materiale, possiamo fissare due punti principali, uno di divergenza, l’altro di convergenza.

Nelle commedie mitiche, eroi e numi scendevano a livello degli altri personaggi, ed usavano un linguaggio non meno scurrile: basti ricordare l’Ermete della Pace o l’Èrcole degli Uccelli o delle Rane d’Aristofane. Invece, nel Ciclope d’Euripide, Ulisse adopera sempre il linguaggio che si conviene ad un eroe; e non indulge, neppure parlando col Ciclope, a veruna di quelle buffonate tanto care all’Ulisse della omonima commedia di Cratino. Analogamente, nel nuovo drammetto di Sofocle, i personaggi dignitosi, Apollo e la Ninfa Cillene, non scendono mai a volgarità, bensí parlano ed [p. 217 modifica]
operano dignitosamente, solennemente: la parte buffonesca rimane tutta affidata ai satiri e a Sileno.

Così appunto ammonisce Orazio che deve comportarsi un buono scrittore di drammi satireschi:

Verum ita risores, ita commendare dicaces
conveniet Satyros, ita vertere seria ludo,
ne quicunque deus, quicunque adhibebitur heros,
regali conspectus in auro nuper et ostro,
migret in obscuras humili sermone tabernas.

La speciale tempra di questo buffonesco segna invece, qui come nel «Ciclope» d’Euripide, e come nei frammenti degli altri drammi satireschi, un punto di contatto fra questi e la commedia. Esso appartiene infatti ad un vecchissimo repertorio convenzionale e volgare, al quale attinse sempre a piene mani la commedia popolare, dai giorni d’Aristofane ai nostri. Anche negli Ichneutái è facile ritrovare i famosi lazzi della commedia dell’arte. La paura, per esempio, di cui fanno sfoggio i satirelli, con esagerazione inverisimile e puerile; le fanfaronate ond’è tutto intessuto il monologo di Sileno; e, innanzi tutto, il gran da fare e il frastuono di questo dinanzi all’uscio di Cillene. Quanti conoscono od han conosciuta, ché oramai non è piú tra i vivi, la commedia di Pulcinella, ricordano bene che questo negro e nasuto idolo del popolino, ogni qualvolta si trova dinanzi ad un uscio, non tralascia di sfoggiare tutto il suo repertorio di burlette, e di scalciare con violenza da centauro.

Note

  1. Furono pubblicati nel volume IX dei papiri d’Ossirinco (1912), poi riprodotti piú volte, e, ultimamente, nella edizione di Sofocle del Masqueray (Paris, Société d’édition «Les belles lettres»). Il titolo greco è Ἰχνευταί, che vorrebbe dire «I cercatori di piste».
  2. Vedi, in questa collezione, l’introduzione ad Eschilo.
  3. Non tengo conto di recenti studi che mirano a dissociare da Diòniso l’origine della tragedia e a toglier fede alla nota testimonianza di Aristotele. Questi studi provano, anche una volta, una cosa ben triste: cioè che materia unica delle ricerche filologiche sono ormai le opinioni e le teorie dei filologi, e non piú gli antichi testi. L’esame convenientemente approfondito delle tragedie superstiti dimostra che sostanzialmente Aristotele ha visto acuto e giusto.
  4. Mi confermano, nella ricostruzione di questa scena, parecchi vasi nei quali vediamo satiri sbigottiti dinanzi a una testa colossale (Cora) che erompe improvvisa dal suolo (Annali dell’Istituto, 1884; v. fig. 2). In tutte le commedie, e massime nella greca, si determinano certi motivi o anche schemi comici, sui quali i varî poeti ricamano infinite variazioni. Lo stesso dove’ avvenire per il dramma satiresco. E questa di Sisifo sarebbe dunque nuova variante d’un motivo solo.
  5. Per l’offesa che gli aveva latto Agamennone non invitandolo. Intendo cosí; ma non è l’unica interpretazione possibile.
  6. Pongo al fine dei versi un punto interrogativo. Espungo le ultime due parole, che mi sembrano un’aggiunta sforzata. Lasciandole, il contesto s’impesantisce, ma non diviene però sconnesso: pur essendo lecito chiamarlo col nome del padre (come s’usava abitualmente).
  7. Nelle Athenische Mittheilungen, 1891, tav. XX.
  8. Cfr. il mio lavoro Ninfe e Cabiri, nel volume: Musica e poesia dell’antica Grecia, Bari, Laterza. 1911.
  9. Die Giganten und Titanen, Tav. II, pag. 324.
  10. Vedi, in questa collezione, Aristofane, vol. 1, pag. LXXXIX.
  11. Del Museo di Napoli.
  12. Il Kuehner (in Roscher, Satyros) la chiama Musa del dramma. Il De Witte (A. d. I., 1841, pag. 305) Onfale (e Mida il re) che poi identifica con Afrodite: e con lui si accorda il Reinach. Ma, e la maschera?
  13. Un vaso fliacesco pubblicato dal Rizzo mostra come la parodia non si peritasse dinanzi alla nobile figura della eroina tessala.
  14. Tzetze, Proleg, in Licofr., 254: τὴν δὲ τραγῳδίαν καὶ τοὺς σατύρους ἐπίσης μὲν ἔχειν χορευτὰς ια´.
  15. Neppure accenno alla noτa quistione circa le differenze fra satiri e sileni. Da tutti i monumenti ricaviamo con sicurezza che nei drammi satireschi questi compagni di Diòniso ebbero coda equina e si chiamarono satiri.
  16. 4. 142: Σατυρικὰ δὲ πρόσωπα Σάτυρος πολιός, Σάτυρος γενειῶν, Σατυρος ἀγένειος, Σιληνὸς πάππος. Τἄλλα ὁμοια πρόσωπα πλὴν ὅσοις ἐκ τῶν ὀνομάτων αἱ παραλλαγαὶ, ὥσπερ καὶ ὁ πάππος Σιληνὸς τὴν ἰδέαν ἐτί θηριοδέστερος.