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blicò il vaso1, crede sia il corifeo, forse Sileno, che fa suoi grotteschi commenti alla macabra scena. È assai probabile. Certo sembra ad ogni modo che la scena sia ispirata ad un dramma satiresco.

A quale, di qual soggetto, non sapremmo dire. Ma vediamo, ed è interessante, che anche la Musa satiresca non isdegnò il tesoro di leggende e di superstizioni popolari a cui pure attingeva la commedia. Quella vecchia non è una vera e propria persona mitica. È una delle tante streghe, o Lamia, o Akkó, o Makkó, o Empusa, di cui ragionavano a veglia le donnicciuole d’Atene, imputando ad esse ogni sorta di ribalderie e malefizi2.

Qui la vediamo scontar la pena; e possiamo esser certi che il popolino d’Atene non si sarà troppo intenerito pel suo martirio. Che poi l’intrusione di simili creature nel regno dei satiri non fosse eccezionale, lo vediamo da un’altra rappresentazione vascolare, in cui un satiretto, armato di fiaccola e di tamburello, s’irrigidisce inorridito davanti ad una orribile Megera. Interessante è vedere che il popolino attribuiva a queste creature mostruose i lineamenti della razza negra. Anche per la nostra plebe, la romana, per esempio, o la siciliana, uno spauracchio è sempre un moro. E nelle nostre figure il carattere etnico appare cosí nettamente definito, che non so vederlo senza pensare alla mirabile pittura del Moretum virgiliano (v. 31 sg.):

Interdum clamat Scybalen. Erat unica custos,
afra genus, tota patriam testante figura:
torta comam, labroque tumens et fusca colore,
  1. Nelle Athenische Mittheilungen, 1891, tav. XX.
  2. Cfr. il mio lavoro Ninfe e Cabiri, nel volume: Musica e poesia dell’antica Grecia, Bari, Laterza. 1911.