Saggi critici/Carattere di Dante e sua utopia
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CARATTERE DI DANTE E SUA UTOPIA
Chiamo poeta colui che sente confusamente agitarsi dentro di sé tutto un mondo di forme e d’immagini: forme dapprima fluttuanti, senza determinazioni precise, raggi di luce non ancora riflessa, non ancora graduata ne’ brillanti colori dell’iride, suoni sparsi che non rendono ancora armonia. Ciascuno ha un po’ del poeta, massime ne’ primi anni; ciascuno di noi ha sentito alcuna volta in sé del cavaliere errante, ha sognato le sue fate, i suoi palagi d’oro; ha avuto, come canta Goethe, qualche dama a proteggere, qualche tristo a castigare. Ma questo stato è transitorio; ben presto la realtá ci toglie a’ sogni dorati e incomincia la prosa della vita. Nel solo poeta quel mondo fantastico permane, e si fa signore della sua anima, e gli tumultua al di dentro, impaziente di uscir fuori. Ora, vi è nella vita un momento solenne, in cui l’uomo si rivela a sé stesso. Abbiamo bisogno del di fuori per avere questa divina rivelazione, per poterci dire un bel di’: — Ecco a che siamo nati! — . La vita di Dante comincia d’allora che i suoi occhi s’incontrarono negli occhi di Beatrice. E quando la vide una seconda volta, quando ricordò commosso la potente impressione che quella aveva fatto sul suo animo ancora fanciullo, l’arte gli si rivelò e si senti poeta.
Nell’amore può principalmente il poeta effettuare ed acquetare quel vago mondo di fantasmi che gli ferve al di dentro; perché la gloria, la libertá, la patria, tanto possenti sull’anima. tu non puoi rappresentarle, se loro non dai apparenza di persona; nel solo amore l’anima trova sé stessa in un’altra anima; nei solo amore è realtá quello che altrove è figura. Leggete la Vita nuova, primo racconto intimo de’ tempi moderni, leggete la lirica dantesca. Parecchie canzoni e sonetti hanno per fondamento un fatto reale, che, quasi focile, cava dalla sua anima vive scintille; un fatto di per sé insignificante e comune, ma di potentissimo effetto sul cuore degli amanti. Un saluto, un incontro, uno sguardo basta a destare in lui moti ineffabili, estasi, visioni, rapimenti, delirii. Né è maraviglia, perché il sentimento è infinito ed indivisibile, l’amante effettua nell’amato tutto sé stesso; un menomo nulla, un guanto, un fiore, un sorriso, fa risuonare tutte le corde dell’anima.
Beatrice mori, e, dopo di averla rimpianta e cantata alcun tempo, Dante prese un indirizzo pratico e politico. Ai tranquilli studi, all’amore sottentrarono le domestiche cure e le passioni della vita pubblica. A Dante artista succede Dante cittadino. E qui l’uomo suole rivelarsi a sé stesso come carattere, acquista coscienza della sua personalitá e sforzasi d’imporla altrui. La personalitá talora si fiacca contro gli ostacoli, talora vi si ritempra. In questa forza di resistenza è posto principalmente ciò che dicesi un gran carattere. Ma ci è grandezza e grandezza. Ci è uomini d’azione, nati a signoria, che sanno piegarsi, blandire per meglio trarre a sé gli altri, che, guardando inflessibili ad uno scopo, sanno pur prendere mille ingannevoli aspetti, incompresi dal volgo che li chiama mutabili, e consapevoli essi soli di esser sempre rimasi sé stessi. Dante non avea questa specie di grandezza; non era nato per essere un capo-parte, e tenea piú del Catone che del Cesare; gli uomini di questa tempra nascono sventurati, ammirati sempre, ascoltati mai.
Giusti son due, ma non vi sono intesi! |
Inflessibile e severo, fu uomo di passione e di convinzione, e non seppe comprendere né tollerare i vizi e gli errori de’ suoi contemporanei, né farne suo prò, né mescolarsi tra gli interessi e le ipocrisie e le violenze per trarre di male bene, com’è pur forza che facciano coloro che vogliono governare. Priore, si vide costretto a sbandire il suo migliore amico per ridurre a concordia impossibile le avverse parti; si lasciò sopraffare lui ed i suoi dalle arti e dalle violenze de’ Neri, e dava lor tempo di portare a maturitá i sinistri disegni, accettando una legazione insidiosa e inefficace; ambasciadore presso Bonifazio, non riuscí che a farsi abbindolare e addormentare, materia d’immortali ire, e vide a sé tolta la patria e le sostanze, e a Firenze la libertá, prima quasi ancora che il sapesse. Ramingo, non serbò lungamente nel suo partito quel luogo che si richiedeva alla sua virtú ed al suo ingegno, e non potè farvi accogliere le sue opinioni, né acconciarsi alle altrui. Ben tosto gli uomini gli vennero a noia, divenne feroce contro amici e nemici, e, come suole avvenire, a lungo andare rimase solo, «parte per sé stesso».
Il che alcuni gli attribuiscono a lode, immaginando non so quali riposte e magnanime intenzioni; non fu in lui elezione, ma necessitá di natura. Chi vuol vivere in mezzo agli uomini deve accettarli quali sono, e chi vuol reggerli, dee comprenderli. Dante era troppo sdegnoso d’ogni viltá, troppo intollerante; a questi esseri solitari fugge il presente, ma l’avvenire è loro.
Toltosi all’azione, rifuggitosi negli studi, rimettea mano alla Divina Commedia, la sola e vera sua azione, i cui effetti oltrepassano l’angusto giro de’ fini e degl’interessi di quel tempo, e non hanno per confine che l’uomo ed il mondo. Ivi legava in un volume, co; destini del genere umano, i suoi dolori, i suoi odii, le sue vendette, le sue speranze. E dissi odii e vendette, e dissi vero. Dante fu odiato ed odiò, fu offeso e si vendicò. Né io posso senza tristezza comparare il giovane lirico col maturo autore della Commedia. Nella sua lirica vedi un uomo a cui il mondo è ancora straniero, a cui tutto ride; il suo universo sono gli occhi di una donna, nella vergine anima non cape altro sentimento che amore, in tanti versi non trovi una parola d’odio, di rancore. Ed ora, quanto mutato!
Il suo orizzonte si è disteso; molte cittá, molti uomini ha conosciuto; corti, consigli, popoli, caratteri, passioni, costumi, tutta la realtá gli sta spiegata innanzi come un libro; ha potuto sinora scriver sonetti e canzoni; esperto della vita, può ora scrivere un poema. Ma il mondo, in cui mescolavasi, gittava nel suo animo una profonda turbazione: — Che cerchi? — , gli domandava un frate: e lo stanco vecchio rispondea: — Pace! — ; né la trovò se non per morte. L’uomo ha nel suo cuore il germe di tutte le passioni che giacciono in fondo sopite, in fino a che alla prima scintilla scoppian fuori con un impeto, di cui egli stesso si maraviglia. Le agitazioni civili svegliarono in Dante passioni prima ignote, e violentissime e fatte piú acri dalla sventura. Beati quei tempi, ne’ quali l’artista potea abbandonarsi serenamente alla contemplazione, senza che il grido profano d’interessi mondani venisse a turbarlo! Beato l’artista greco! Vi sono tempi, ne’ quali la penna del poeta è una spada tagliente. La poesia di Dante è una battaglia che dá a’ suoi avversarii: il suo mondo è un teatro dov’egli rappresenta una parte, e canta e milita insieme, nello stesso tempo Omero ed Achille. Ma l’uomo nuovo non cancellò l’antico, e grande tesoro di amore si nasconde sotto quelle ire, e grandi dolcezze sotto quella violenza. I biografi non ci rappresentano che un lato solo di questo carattere; i piú lo vogliono sdegnoso, vendicativo; altri, togliendo a difenderlo, ci mostrano ogni suo minimo detto conforme alla storica veritá ed alla giustizia; e quando leggo la sua vita dettata da Cesare Balbo, veggo di sotto la penna di questo scrittore, di una severitá tanto amabile e di una temperanza si dignitosa, uscire a poco a poco la figura di Dante come di una colomba tutt’amore e gentilezza. Dante non è stato né l’uno né l’altro, o per dir meglio, è stato l’uno e l’altro. Uomo di passione e d’impeto, natura schietta, che abbandona tutta la sua anima alla impressione fuggevole del momento, tanto terribile allor che si adira, quanto pietoso allor che s’intenerisce; coloro i quali si studiano di trovare una logica connessione nelle varie apostrofi e sentenze fuggitegli dalla penna, gittano via la fatica ed il tempo. E colui mi scriverá una verace vita di Dante, il quale, uscendo un tratto dalla polemica che ci sospinge nel punto opposto a quello scelto dal nostro avversario, ci ritragga Dante non obliquamente, ma di fronte, tutto intero qual è, in tutto quel suo doloroso alternare dall’amore all’odio, dall’ira alla disperazione, portando nell’amore tutta l’energia che porta nell’odio, concependo insieme Inferno e Paradiso, Francesca e Filippo Argenti, Farinata e Cavalcanti, oggi chiamando i suoi concittadini «bestie fiesolane», e dimani esclamando pietosamente: «popule mi, quid feci tibi?».
Noi siamo disposti a idealizzare gli uomini, e ce li figuriamo tutti d’un pezzo. Chi fa un atto di crudeltá, issofatto lo battezziamo per una tigre. Ma la natura è varia ne’ suoi procedimenti, e spesso si piace ne’ contrarii armonizzati da impercettibili gradazioni. Achille infierisce bestialmente sul corpo di Ettore, ed innanzi al vecchio padre di lui s’intenerisce fino al pianto. Dante è si pietoso, che vien meno a’ casi di Francesca e di Paolo, ed è si feroce che può concepire e descrivere con ispaventevole precisione il cranio d’un uomo sotto i denti di un altro uomo.
Nei tempi civili impariamo a studiare i gesti e le parole, a conservar sempre nell’aspetto un’aria di benevolenza; si che l’uomo, che chiamasi educato, ti fa men difficilmente un’azione ignobile che una scortesia. Dante è piú presso alla natura e si manifesta schiettamente.
È un personaggio essenzialmente poetico. Il suo tratto dominante è la forza che prorompe liberamente e con impeto. La sventura, non che invilirlo, lo fortifica e lo alza ancor piú su. Costretto a mangiare il pane altrui, ad accattar protezioni, a soggiacere ai motteggi del servidorame, nessuno si è piú di lui sentito superiore a’ suoi contemporanei, nessuno si è da sé posto sí alto al di sopra di loro. La famosa lettera, nella quale ricusa di ritornare in patria a scapito del suo onore, non solo rivela un animo non inchino mai a viltá, ma in ogni riga quasi ci trovi l’impronta di questo nobile orgoglio.
Non è questa la via del mio ritorno in patria;... ma se un’altra se ne trovi, che non sia contro la fama, contro l’onore di Dante, quella ben volentieri accetterò. Che se per nessuna via di tal fatta si entra in Firenze, in Firenze non entrerò io mai.
Non solo ci è qui il linguaggio della magnanimitá, ma dell’orgoglio; ci è la coscienza della propria grandezza; ci è: — Io, Dante Alighieri — . Dall’alto del suo piedistallo gira con disdegno lo sguardo su tutto ciò che è plebe e plebeo; perdona piú facilmente un delitto che una viltá. Le nature serie e ideali si conoscono assai meglio per i loro contrarii; il contrario di Dante è il plebeo. Diresti quasi che si sentiva di una razza superiore, per nobiltá non pure di sangue e d’ingegno, ma ancora d’animo. Né rimane giá in quest’attitudine di dignitá passiva; non è una natura freddamente stoica; il foco interiore divampa vivamente al di fuori. Ha la virtú dell’indignazione, ha l’eloquenza dell’ira. Tutte le potenze dell’anima erompono con l’impeto della passione. E quando nel suo stato di miseria lo vediamo rilevarsi di tutta la persona su’ potenti che lo calcano e far loro ferite immortali, è si bello di collera, che comprendiamo l’entusiasmo di Virgilio. Non ch’egli non abbia i suoi momenti di sconforto e di abbandono; ma al sentimento squisito del dolore succede subito l’energia della resistenza. Fu cosí sventurato, eppure non ci è una sua pagina, nella quale domini quel sentimento di prostrazione morale, quel non so che fosco e fiacco, cosí frequente ne’ moderni. Diresti che il dolore non ha tempo di uscir fuori senza trasformarsi in collera: tanto subita è la reazione della sua forte natura. Or, questo supremo disprezzo per tutto ciò che è ignobile, questo farsi egli stesso il suo piedistallo e incoronarsi con le proprie mani, questo interno dolore superbamente contenuto, si che, mentre il cuore sanguina, il volto minaccia, imprime sulla sua figura severa una grandezza morale, qualche cosa di colossale, che ci ricorda il suo Farinata.
Nella sua etá giovanile tutto suona di Beatrice. Appresso, entrato nelle pubbliche faccende, Firenze diviene il centro ove convergono i suoi pensieri. Da ultimo, datosi con piú acceso studio alla teologia ed alla filosofia, la vista si allarga. Esce dalla piccola Firenze, e si leva ad unitá non solo italiana, ma umana; diviene cosmopolita Guarda al di lá dei contemporanei, pensa alla posteritá; non gli basta la fama, vuole la gloria. L’amore di Beatrice si purifica della sua parte terrestre, e diviene l’amor del divino. Certo, quando noi invecchiamo, siamo soliti di generalizzare, e quello che era sentimento, si trasforma in massima e sentenza. Ma qui il particolare sopravvive in una forma piú alta. E sotto alla umanitá rimane pur sempre Firenze, che fa battere il cuore dell’esule, e ve ne accorgete dalle sue stesse imprecazioni. E sotto alla Beatrice del suo pensiero sentite la Beatrice del suo cuore. E quando si mostra solo pensoso della posteritá e si professa non timido amico del vero, non gli credete. Vi è troppa bile nella sua veritá, troppa passione nella sua giustizia. Col pensiero dei posteri si accompagna il desiderio della vendetta, l’odio dei nemici, l’amor di parte, la speranza del ritorno, tutti gl’interessi di quei tempi. Ond’è che la passione lo insegue alcuna volta anche in mezzo alle sue piú astratte speculazioni, e Firenze e il suo partito e i suoi avversari si mescolano co’ suoi sillogismi.
Pure, anche quando il suo torto è visibile, quando si lascia ire ad accuse, ad imprecazioni senza alcuna misura, voi non potete, non dirò disprezzarlo (Dante è sempre superiore al disprezzo), ma voi non potete, voi non sapete irritarvi contro di lui; perché vi accorgete che la sua passione è sempre sincera, che quegli impeti vengono diritto dal cuore, che opera e parla con la piú profonda convinzione. E se afferma di dire il vero, crede di dire il vero; e se accusa, crede all’accusa; e se esagera, non se ne accorge.
È il tipo del proscritto continuatosi insino a’ nostri giorni. Con tanto calore d’anima, con tanta forza di passioni, la vita attiva gli venne meno, quando dovea sentirne maggiore il bisogno. Eccolo sbandito. Il mondo cammina senza di lui e contro di lui. Dante non vi si rassegna. Ma il cospirare con una compagnia «malvagia e scempia» presto gli viene a noia. E le azioni di questo grand’uomo sono qualche lettera inutile che scrive talora a popoli e a principi, e trattati e negozi in servigio de’ suoi protettori. Resta fuori degli avvenimenti, spettatore sdegnoso. La passione, rimasta oziosa, si concentra, e con tanta piú violenza e amarezza scoppia nello scrivere. Ora egli prorompe romorosamente come una tempesta lungo tempo trattenuta; ora si gitta nel fantasticare, e si profonda nella piú astrusa mistica. Diviene taciturno, malinconico, irrequieto, impaziente. Lontano dall’azione, il campo del possibile e del reale gli fugge dinanzi, si fabbrica un mondo d’immaginazione, e vi dispone uomini e cose secondo il desiderio. Sono i sogni de’ proscritti, che i piú si portano nella tomba. Il sogno di Dante è rimaso immortale.
Quale fu questo sogno? Il che significa: quale fu il concetto che Dante si formò dell’universo? I nostri sogni, le nostre aspirazioni sono conseguenze delle nostre opinioni, del nostro sapere.
Dante fu dottissimo: abbracciò quasi tutto lo scibile. La dottrina era a quel tempo cosí rara, c’era mezzi si scarsi di acquistarla, che bastava essa sola a procacciar fama di grand’uomo. E Dante fu celebrato meno per la grandezza dell’ingegno, che per la copia e varietá delle sue cognizioni, perché ad estimar lo ingegno pochi hanno valore; laddove della dottrina, fatto materiale, tutti dar possono giudizio.
Teologia, filosofia, storia, mitologia, giurisprudenza, astronomia, fisica, matematica, rettorica, poetica, fece suo tutto il mondo intellettuale di quel tempo. E se vi aggiungi le peregrinazioni e le ambascerie, che gli porsero modo di conoscere tanta varietá di uomini e di cose, puoi senza esagerazione affermare che di esperienza e di sapere avanzò i contemporanei. Né di tutto questo avea giá notizia superficiale; perché non c’è idea ch’egli non esprima con chiarezza e con padronanza della materia.
La scienza era ancora un mondo nuovo, non del tutto scoverto; l’antichitá si levava appena sull’orizzonte, e gli spiriti intendevano piú a raccogliere che a discernere. Era il tempo dell’ammirazione. Rimanevano prostrati innanzi a’ grandi nomi, ed accoglievano con aviditá qualunque opinione a cui potevano attribuire una nobile prosapia. Cosi a poco a poco erasi formato un cumulo d’idee attinte da varie fonti; con quanta concordia nessuno se ne dava pénsiero, non vi si guardava tanto pel sottile. Bastava a’ piú una sintesi provvisoria nella quale entravano fatti diversi e contrarii. Ma non se ne contentavano i grandi pensatori, i quali, gittando uno sguardo acuto in quella confusa congerie, si studiarono alcuni di porre d’accordo filosofia e domma, altri di farne sentire il contrasto.
Dante fu uno spirito dominatico per eccellenza. La scienza di allora gli parve l’ultimo motto delle cose, e pose il suo studio meno in esaminare che in imparare. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un’orma del suo pensiero, e però non si può dire che sia stato propriamente un filosofo, un fisico, un matematico, ecc. Accolse con perfetta credulitá i farti piú assurdi e gran parte degli errori e de’ pregiudizi di quel tempo. Con che ingenua riverenza cita Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, messi del pari! Nella sua mente regna con eguale autoritá l’Etica e la Bibbia, Aristotele e san Tommaso. Per lui è un sottinteso che i grandi filosofi dell’antichitá sieno d’accordo con la fede, ed il loro torto è non nell’aver veduto male, ma nel non aver veduto tutto: la rivelazione non corregge, ma compie. Né so dove Kannegiesser, Witte, Wegele hanno trovato che Dante, smarrita la fede per il soverchio amore della filosofia e caduto nel vuoto dello scetticismo, abbia nel suo viaggio allegorico voluto esprimere la sua guarigione, il suo ritorno alla fede. È un giudicare altri tempi con le idee del nostro. La sua teologia non combatte la filosofia, ma la compie; Beatrice non è nemica di Virgilio, ma sta al di sopra di lui: tra Dante e Fausto ci sono secoli.
Dante adunque espone secondo la rivelazione le cose sopra ragione, e quanto al rimanente pone insieme scrittori pagani e cristiani. Una citazione è un argomento. Né vo’ giá dire che si contenti sempre di citare. Vuol dimostrare anche lui. Ma il suo filosofare non è superiore alla sua filosofia. Ha i soliti difetti del tempo. Dimostra tutto, anche il luogo comune: dá una eguale importanza a tutte le quistioni: mette insieme ogni specie di argomenti, ed accanto ad alcuni di un certo valore ne trovi di affatto puerili; spesso non sa vedere il netto della quistione, non guardarla da alto, sceverare gli accidenti dal sostanziale; si smarrisce in minuterie e sottigliezze, e ti affoga di distinzioni.
La filosofia non fu la vt>cazione di Dante, lo scopo della sua vita al quale volgesse tutte le forze dell’anima. Fu un sottinteso, un punto di partenza. Accettò la filosofia com’era insegnata nelle scuole, e ne acquistò una notizia esatta ed intera. Vista quella base, si travagliò a tirarne delle conseguenze politiche. Non fu dunque un uomo di pura speculazione. Trovatosi di buon’ora tra le pubbliche faccende, diventò uomo politico.
È notabile che la famosa contesa tra il papa e l’imperadore non partorí due filosofie diverse. Non ci fu una filosofia guelfa ed una ghibellina. Amendue i partiti supponevano la stessa base. Ben vi furono delle eccezioni individuali, de’ ghibellini che si spinsero audacemente di lá. dal cattolicismo. Ma anche in questo caso la dissensione cadeva sopra particolari piú o meno importanti, senza che l’insieme fosse negato da alcuno. Non si creò una nuova teologia e filosofia.
La quistione non fu dunque tra due filosofie. I due partiti ammettevano la stessa base, e vi fondavano un edilizio diverso.
Ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo e la preminenza di quello, fondamento della filosofia cristiana. E, come applicazione, ammettevano nella societá due poteri, lo spirituale e il temporale; il papa, l’imperatore.
Fin qui guelfi e ghibellini, Bonifacio VIII e Dante sono d’accordo. Ma vi fondavano un edilízio diverso.
S’egli è vero che lo spirito è superiore al corpo, Bonifazio VIII tirava la conseguenza, che dunque il papa è superiore all’imperatore. «Il potere spirituale, dice Bonifazio, ha perciò il diritto d’istituire il potere temporale e di giudicarlo, se non è buono... E chi resiste, resiste all’ordine stesso di Dio, a meno ch’egli non immagini, come i manichei, due principii, ciò che sentenziamo errore ed eresia... Adunque ogni uomo deve esser sottomesso al pontefice romano, e noi dichiariamo... che questa sottomissione è necessaria per la salute dell’anima1».
Dante ammetteva tutte le premesse, e per negare la conseguenza suppose che lo spirito e la materia fossero ciascuno con sua vita propria, senza ingerenza nell’altro, e ne inferi l’indipendenza de’ due poteri, spirituale e temporale. Una volta entrato per questa porta, si dá carriera e ti edifica a suo modo. Il popolo è corrotto ed usurpatore, la societá viziosa e discorde. Unica medicina, l’imperatore. Gli attribuisce tutt’i privilegi del papa, e, come il papa, lo fa immediatamente da Dio. Amendue organi di Dio sulla terra, «due soli», che c’indirizzano l’uno per la via di Dio, l’altro per la via del mondo; l’uno per la celeste, l’altro per la terrena felicitá. Amendue eguali, salvo la riverenza che l’imperatore dee al papa, sola concessione che Dante fa alla maggioranza dello spirito. Roma per diritto divino sará la capitale dell’impero e perciò del mondo. Le franchigie dei comuni e l’indipendenza delle nazioni rimarranno intatte. L’imperatore potrá tutto, e nella stessa sua onnipotenza troverá il suo freno. Fará trionfare sulla terra la giustizia e la pace. Ecco l’utopia dantesca.
Non è un semplice ritorno al passato, come pretende Wegele. Ci è del passato e del futuro, del progresso e del regresso. Ciò che ci è del passato non è bisogno ch’io il dica. Ma ci è in germe l’affrancamento del laicato e il cammino a piú larghe unitá. Intravvedi la nazione che succede al comune, e l’umanitá che succede alla nazione. È un sogno che in parte diventa storia.
Era in fondo il sogno de’ ghibellini. Il merito di Dante è di averlo allargato a sistema, di esserne stato il filosofo, di essersi alzato fino al concetto di umanitá. La base è fragile, ma l’edificio è bello per ampiezza di disegno e concordia di parti.
In un secolo vi ha due punti estremi rappresentati da individui o da partiti. Cercate Dante negli estremi e non ve lo troverete. Nondimeno, gli uomini di parte hanno voluto tirar Dante dalla loro, ciascuno con le sue buone ragioni. Chi ci trova il cattolico, chi l’eretico, chi l’esaltato, chi il moderato. Come hanno veduto il suo carattere da un punto solo, e cosí le sue opinioni. E un Dante spogliato d’una parte di sé e collocato ad un estremo.
Fu lo specchio della maggioranza. E come nella ranza si agitano confusamente il passato e l’avvenire, cosí in Dante troverete due uomini mescolati, l’uomo del passato e l’uomo dell’avvenire. D’intenzione cattolico, non fu né cattolico in tutto, né in tutto eretico. Col suo cattolicismo trovi congiunta una guerra appassionata contro la corruzione del papato e certe opinioni ardite che rivelano giá una vaga inquietudine, confuse aspirazioni, che piú tardi penetrarono nella coscienza. Del resto, la quistione per lui, come per i più, non è religiosa ma politica. E se bolle di sdegno, se minaccia, se riprende, se impreca, gli è perché ha dirimpetto a sé non una religione nemica, ma una politica nemica. Pure, nella stessa politica le sue opinioni si mantengono in un certo «medium», dove, se dominano le idee ghibelline, non sono cacciate via le idee care ai guelfi. Che se vuole il papato corretto, rispetta la sua indipendenza; se vuole i comuni ubbidienti all’impero, rispetta le loro libertá; se vuole le nazioni unificate, rispetta la loro autonomia. Ben comprendo che l’effettuazione del suo sistema avrebbe distrutte tutte queste cose. Ma Dante le voleva. Ed i guelfi fecero bene ad ubbidire piuttosto alla logica che a Dante.
Questo sistema non rimase una pura e serena speculazione, come la repubblica di Platone, ma s’impossessò di tutto intero l’uomo. Fu non solo la sua convinzione, ma la sua fede. E la fede è non solo credere, ma volere, amare, operare; è non solo pensiero, ma sentimento ed azione. Dante ebbe fede.
Ebbe fede in Dio, nella virtú, nella patria, nell’amore, nella gloria, ne’ destini del genere umano. La sua fede è si vivace che le sventure e i disinganni non possono affievolirla, nutre sino all’ultimo speranze di prossima redenzione, e muore in tutta la giovinezza delle sue illusioni e delle sue passioni. Chi mi sa dire quando Dante si è sentito vecchio; quando la penna gli si è illanguidita nella mano?
La fede è amore; è non solo sapienza, ma amore della sapienza; non solo sofia, ma filosofia. E la filosofia è amore di Dante, la sua seconda Beatrice, l’«amor che nella mente gli ragiona».
Filosofia è «amoroso uso di sapienza, figliuola di Dio, Regina del mondo»; quando Iddio mosse le sfere, ella era presente:
Costei pensò chi mosse l’universo. |
La filosofia fu dunque per Dante la scienza delle divine ed umane cose, la scienza del mondo, il contenuto universale, nel quale trovava determinati tutti gli oggetti della sua fede: Dio, virtú, umanitá, amore, ecc. Fu non solo speculazione di dolcissime veritá, ma fondamento della vita, e vi conformò le sue azioni. «Absit a viro philosophiae domestico temeraria terreni cordis humilitas... absit a viro praedicante justitiam... nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub coelo?» Questo «amico della filosofia», come con giusto orgoglio si chiama, non le crede solo in astratto, ma le consacra la vita tutta intera, e vi si appassiona, rapito in quella mistica esaltazione, che dicesi entusiasmo.
Chi vede con quanto ardore Dante s’immerge nelle piú profonde speculazioni, dirá: — Ci è in costui del mistico, dell’ascetico — . Ed è vero. Ma questo ascetico non rimane chiuso nella sua cella, solitario contemplatore. Appartiene alla chiesa militante, è un soldato della veritá. Ha innanzi un mondo filosofico, e a quella immagine si studia di condurre il mondo reale, e vi si travaglia, quando non può con l’opera, con la penna. Scrive lettere, fa trattati, compone poesie, sempre con quella immagine innanzi. Ma il mondo è troppo lontano dalla sua immagine. Questa discordia tra la sua idea e il fatto lo agita, lo inasprisce; senti in ogni sua pagina non il filosofo tranquillo, ma il guerriero, fatto piú feroce dalla resistenza.
La sua passione è sempre effetto del solo entusiasmo? Non vo’ giá fare del nostro eroe un santo; con la sua parte celeste ci è anche la creta.
L’entusiasmo è la poesia della passione. Togliete l’entusiasmo, e la passione rimane un istinto animale. Nelle nostre passioni ci entra, e spesso senza che ce ne accorgiamo, l’amor proprio, l’interesse, l’inimicizia, l’antipatia, la prevenzione; l’entusiasmo le purifica e le nobilita.
Dimmi pure: — Tu senti sdegno contro il tale perché ti ha oltraggiato — ; io non avrò da arrossire se potrò rispondere: — È vero, «homo sum»; ma sento sdegno ancora perché colui è un malvagio, perché è un nemico del mio paese — . Ecco ciò che Dante può rispondere sempre. È vero. Talora parla perché desidera di ritornare in patria, perché vuol vendicarsi, perché odia chi l’ha offeso. Ma in mezzo al limo troverai sempre la parte divina; troverai sempre un’anima santa, che ha innanzi a sé un mondo ideale, a cui crede, di cui si è innamorato, ed una parte di quegli impeti nascono da questa fede, una parte di quell’odio nasce da quest’amore.
Dante è una delle immagini piú poetiche del Medio evo e piú compiute. In quest’anima di fuoco si riverbera l’esistenza in tutta la sua ampiezza, da ciò che vi è di piú intellettuale a ciò che vi è di piú concreto. Quest’uomo andando nell’altro mondo si porta appresso tutta la terra.
[Nella «Rivista contemporanea», a. VI, i858, vol. XII, pp. 3-i5.]