Roma italiana, 1870-1895/Il 1888
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Il 1888.
All’alba del 1° gennaio 1888, quando nei lampioni del gaz brillava ancora una luce incerta, e mentre un vento gelato tagliava la faccia, una fitta fila di carrozze ingombrava le strade che conducono a S. Pietro: erano le pesanti e funeree berline dei monsignori e dei cardinali, quelle sfarzose dell’aristocrazia e del corpo diplomatico, che si confondevano con gli omnibus e con le botti sgangherate, ma tutte erano egualmente piene, e in tutte era gente egualmente ansiosa di giunger presto per assicurarsi un posticino nell’immensa Basilica Vaticana, ove il Papa doveva celebrare la sua Messa d’Oro.
La piazza di S. Pietro era occupata da due reggimenti di fanteria, da un battaglione di bersaglieri e tra la folla circolavano numerosi i carabinieri e le guardie.
All’obelisco la piazza era diametralmente sbarrata da un doppio cordone di fanteria, che si apriva di tanto in tanto per lasciar passare un limitato numero di persone, e le carrozze degli invitati.
L’ingresso per i pellegrini era a sinistra del tempio, dal portone di Carlomagno; quello degli invitati dalla Sagrestia.
Per varcare il portone di Carlomagno bisognava far uso dei gomiti e, benché i carabinieri predicassero calma, la folla urlava, piangeva e molti svennero in quella calca. Dal portone si penetra in un corridoio, che conduce sotto il porticato di S. Pietro, e quivi si circolava bene, ma gli spintoni e le gomitate ricominciavano quando si trattava di penetrare nella basilica e le parole di calma dei gendarmi pontificii mancavano l’effetto voluto, come erano state inutili le esortazioni dei carabinieri.
Alle 9 1/2 il Papa entrò in S. Pietro. Egli era preceduto dalla Guardia Palatina, dagli Svizzeri, dai Cardinali, dai Vescovi, dai Superiori degli ordini religiosi, dai Capi del pellegrinaggio e dalla Guardia Nobile. Ai lati del Papa si agitavano due flabelli, che non erano quelli che Napoleone I aveva donati a Pio VII, ma un presente dell’Africa a Leone XIII. Egli, in sedia gestatoria, circondata da quattro svizzeri rappresentanti i quattro cantoni cattolici, era interamente vestito di bianco; sulle spalle aveva un ricco piviale ricamato d’oro, in testa la mitria regalatagli dall’Imperatore di Germania e in dito un superbo anello, dono del Sultano.
Al suo apparire Leone XIII fu salutato dalle grida di giubilo e dallo sventolare dei fazzoletti di 50,000 persone, che tante si calcola ve ne fossero quel giorno in S. Pietro. Giunto all’altare il Papa vestì gli abiti prescritti per la messa, che disse lentamente e con voce appena intelligibile per i più vicini, e che fu seguita dal Te Deum cantato dai cantori della cappella Sistina. Quindi, dopo aver dato una solenne benedizione, Leone XIII risalì in sedia gestatoria, traverso la chiesa benedicendo a destra e a sinistra, e tra gli evviva scomparve dietro gli arazzi, che chiudevano l’ingresso della cappella della Pietà. Un momento dopo le porte ed i cancelli di S. Pietro erano spalancati e la folla si riversava nella piazza.
Mentre in Vaticano i pellegrini e l’aristocrazia nera acclamavano il Papa-re, in città si comentava il decreto reale che destituiva Don Leopoldo Torlonia dalle funzioni di Sindaco di Roma, perchè egli aveva fatto atto, che i liberali giudicavano di sottomissione a Leone XIII. La cosa appena conosciuta sollevò rumore e i pettegolezzi che intorno vi si fecero furono davvero straordinari, poichè nella questione si fece entrare anche la persona del Re.
Egli ricevendo la Giunta aveva pregato il Mazzino di assicurare, a malgrado degli ultimi incidenti, il duca Torlonia della sua amicizia, e qui i nemici del Crispi tesserono una specie di commedia, facendo quasi credere che il Re riprovasse il decreto di sospensione che aveva firmato, c che egli fosse schiavo del suo primo ministro. La Giunta stessa si mostrò in certo modo solidale col suo capo, ma gli assessori ebbero forse paura di perdere la carica, e votarono un ordine del giorno che non era nè bianco nė nero:
«Per effetto del decreto reale dei 30 dicembre 1887, che ha rimosso il duca Torlonia dalle funzioni di sindaco, la Giunta si trova priva del suo capo, al quale la legano saldi vincoli di stima e d’amicizia ed il ricordo del lavoro amministrativo compiuto sotto la sua direzione amorosa ed intelligente col solo scopo del pubblico bene.
«Sarebbe conforme all’uso che la Giunta presentasse al Consiglio le proprie dimissioni.
«Però, tenuto conto delle speciali e difficili condizioni dell’amministrazione comunale, e della imminente discussione del bilancio, la quale deve dare occasione ad ’un più ampio svolgimento del programma enunciato sommariamente, nella relazione che precede il bilancio istesso, ha sentito l’obbligo strettissimo di non isfuggire alla responsabilità che col suo programma ha assunto.
«La Giunta delibera per tanto di rimanere al suo posto per compiere un dovere e per evitare un turbamento nella amministrazione.
«Nella fiducia del Consiglio, che è persuasa di possedere piena ed intera, troverà la forza per continuare a promuovere con vigore il progresso della città e tutelare con fermezza la dignità della sua municipale rappresentanza», che consolandosi elesse a ff. sindaco il marchese Alessandro Guiccioli.
CORTILE DELLA PIGNA AL TEMPO DELL'ESPOSIZIONE VATICANA
Al principio del 1888, che segnala un cambiamento nella politica estera delle diverse nazioni d’Europa, sono aperti i negoziati del trattato di commercio italo-francese.
I delegati francesi erano, come ho detto precedentemente, Teisserenc du Bort e Marié; gli italiani gli on. Ellena, Luzzatti e Branca. Si può dire che i negoziati fossero cominciati sotto una cattiva stella, poichè a nulla valse la buona volontà che animava i delegati, e il trattato morì appena nato o meglio prima di nascere, e il 2 febbraio i signori Teisserene du Bort e Marié partirono per la Francia senza aver concluso nulla.
Il 4 a mezzo giorno, Leone XIII riceveva nella sala ducale, circondato dalla sua corte, le deputazioni diocesiane del pellegrinaggio italiano alle quali rivolgeva un discorso in cui ricordava i tesori di sapienza, di grandezza e di gloria che i Pontefici avevano in ogni tempo riversati sull’Italia; come non fossero mai mancati i figli ingrati, che disconoscendo i beneficii del Papato lo avevano combattuto, e come al presente fosse stata ordita una vera congiura contro di esso. Leone XIII lodò i pellegrini per non avere ascoltato le calunnie, smentite del resto dalla storia, ed aggiunse:
«Noi ben sappiamo che per questi doverosi sentimenti vi si rimprovera di non amare il vostro paese e di volerne anzi l’avvilimento e la rovina. Non vi commuova, miei cari, l’insana parola. La verità è che il Papato forma per l’Italia la più pura e la più splendida gloria».
Egli mostrò loro come il Giubileo avesse commosso il mondo, quale fosse la stoltezza degli italiani di voler rimpiccolire questa istituzione divina, e esortò i pellegrini a perseverare nei sentimenti, che li avevano spinti a venire a Roma per recargli i loro augurii in occasione del suo Giubileo Episcopale.
Il Comitato di quel Giubileo umiliava intanto ai piedi del Papa l’obolo per la Messa d’oro, che era d’oro veramente, poichè avevagli fruttato 2,500,000 lire; l’Italia sola ne aveva inviate 100,000.
Il 5 gennaio il Papa disse nuovamente messa in S. Pietro, e tra gli invitati la folla ebbe agio di ammirare in uno splendido costume il patriarca di Costantinopoli, monsignor Azarian, che aveva avuto dal Sultano il grato incarico di essere interprete presso i principi Torlonia dei sentimenti della Turchia. Monsignor Azarian si era recato il giorno avanti alla villa Torlonia per consegnare a donna Anna Maria il gran cordone di Chefakat, che il Sultano le conferiva per i suoi pregi di mente e di cuore, con le insegne in brillanti, e al duca di Ceri, suo consorte, la gran croce dell’ordine del Santo Sepolcro, e la commenda di questo stesso ordine al signor Colino Kambo, intendente della principessa.
Quella messa del 5 gennaio ebbe la solennità dell’altra e Leone XIII fu nuovamente e più calorosamente acclamato.
Mentre le acclamazioni si ripercuotevano ancora sotto le volte di S. Pietro, Roma italiana commemorava il X anniversario della morte del Re Galantuomo in modo veramente degno. Alla cerimonia ufficiale intervennero le LL. MM. il Re e la Regina e S. A. R. il Principe di Napoli, accompagnati dalle dame e dalle loro case civili e militari. Dopo la partenza dei Sovrani, visitarono la tomba del Gran Re le rappresentanze del Comune e della Provincia, e delle scuole, e tutte le società liberali, quindi il tempio fu aperto al pubblico, e fu la meta d’un pietoso pellegrinaggio da parte della popolazione, tra la quale non facevano punto difetto i pellegrini.
Nell’uscire dal Pantheon le associazioni si recarono al Quirinale, ove ebbe luogo una imponentissima dimostrazione al grido di «Evviva il Re!» «Evviva Roma intangibile!»; ma il Re, benchè commosso, non si affacciò, c la dimostrazione pacificamente si sciolse.
Le cariche dello Stato, gli ufficiali e le signore che si recavano al Pantheon si incrociarono con gli ufficiali dell’esercito pontificio, con le dame e i signori del patriziato fedele alla S. Sede, che si rendevano alla vicina chiesa della Maddalena per assistere ai funerali del general Kanzler, comandante supremo delle truppe pontificie, e sottoscrittore della capitolazione di Roma nel XX settembre 1870. La salma deposta sopra un carro di 2ª classe veniva trasportata a Campo Verano quando passarono i pompieri con la fanfara, ma la questura aveva provveduto in modo che questi inevitabili incontri non dessero luogo a nessun disordine.
Il 19 i Sovrani collocavano la prima pietra del Policlinico «Umberto I» fuori di Porta Pia. Il Re e la Regina erano accompagnati dal Principe di Napoli, dalle dame e dagli aiutanti di campo di servizio. Il Ministero era rappresentato dagli on. Crispi e Coppino; la commissione governativa dal prof. Baccelli, dal prof. Durante e dal dott. Bastianelli; il Municipio dal marchese Guiccioli e la Prefettura dal comm. Guaita.
L’on. G. Baccelli pronunziò un discorso pieno di patriottismo, nel quale disse che l’Italia ricordava il Gran Re e «anche voi, o Sire, nel quadrato di Villafranca» e terminò dicendo:
«A voi spetta dunque, o Sire, nè soltanto come Re, ma perché padre affettuoso, perchè eroe consacrato alla religione della carità, a Voi spetta porre la prima pietra di questo grande monumento, a Voi decorarlo del vostro nome, perchè qui verranno i derelitti della fortuna a sentire gli effetti benefici di quell’amplesso immortale, che si daranno nel Vostro nome augusto la scienza e la carità.
«E Voi, piissima Regina, che trepidaste sui pericoli del Re, bella d’ogni bellezza soave e santa, presentendo qui l’alleviamento dei dolori umani: gioite nell’intelletto dell’amore materno, sicura della provvidenza di Dio».
Molti applausi salutarono la fine di questo breve, ma efficace discorso, seguito da un altro brevissimo ed opportuno del Guiccioli; quindi le LL. MM. procedettero alla posa della prima pietra.
Il Policlinico doveva essere per gli operai una sorgente di lavoro, ma non fu principiato subito, e questo ritardo, e le sospensioni dei lavori del piano regolatore, dell’Ospedale militare, della piazza d’Armi, del ponte Garibaldi e del Lungo Tevere, e la minaccia che la ditta Moroni sospendesse pure i suoi lavori diedero luogo a dolorosi avvenimenti.
Alla fine del febbraio e al principio di marzo infatti Roma fu spettacolo di seri disordini e ribellioni da parte degli operai disoccupati. Il 27 febbraio si contentarono di pacifiche dimostrazioni, e conferirono con gli on. Costa e Odescalchi, perchè interessassero il Crispi alla causa loro; il 28 i disordini cominciarono con atti di violenza contro i cascherini, ai quali, a viva forza, fu rubato tutto il pane che avevano nelle ceste; la questura fece arresti e rimpatriò molti operai, ma la crise operaia, chiamiamola cosi, benchè molti le dessero il nome di sobillazione interessata, non accennava punto a diminuire, anzi, il 1° marzo si converti in aperta ribellione. Alle 11, due o trecento persone sulla piazza d’Aracoeli gridavano: «Vogliamo lavorare» – «Vogliamo passare per forza», alludendo al fatto che tutti i cancelli e portoni dei tre palazzi municipali erano stati chiusi per impedire che fossero invasi.
I dimostranti andavano sempre aumentando, e al tocco erano quasi un migliaio. L’ispettore della sezione di Campitelli, che dirigeva le operazioni, visto forse che le sue guardie e suoi carabinieri, stanchi di resistere a quella folla, avrebbero ceduto, chiamò in soccorso un battaglione di fanteria, allineato sotto i portici dei musei comunali. Alla vista della truppa, che si avanzava con baionetta innestata, il popolo si precipitò sui soldati per rompere i cordoni, e le guardie dovettero fare uso delle daghe; allora vi fu un fuggi fuggi e parecchi furono i contusi.
Una commissione di otto operai andò dal ff. di sindaco e gli fece le più strane proposte, ma egli, e l’assessore Mazzino calmarono questi operai, che se ne andarono soddisfatti. Quando la commissione apparve in cima alla gradinata nacque un tale disordine che fu necessario l’aiuto d’un’altra compagnia, accolta da alcuni al grido di «Viva l’esercito», da altri a quello di «Abbasso le baionette», «Morte agli sbirri»; e, mentre i sassi volavano, i soldati caricavano la folla e riescivano a sgombrare la piazza. Il resto della giornata passò abbastanza tranquillo. Ma il fatto strano che si verificò il domani è davvero degno d’esser notato: il ff. di sindaco, marchese Guiccioli, secondo le sue promesse fece subito cominciare i lavori del piano regolatore, ma... operai non se ne trovarono. L’impresa Frontini e Marotti ne cercò e non ne trovò, come pure il costruttore Cappi. Dunque? Coloro che dicevano che non trattavasi di crise operaia ma di sobillazione interessata avevano ragione, e aveva pure ragione il ministro dell’Interno, che rispondendo alla Camera ad una interrogazione dell’on. Cavallotti, diceva:
«Signori, denaro è corso per provocare i disordini, e non è solo denaro italiano!»
Furono ripresi molti lavori e fu dato mano a molti altri. Il Governo fece principiare quelli di sterro al Policlinico e della passeggiata Flaminia, e tra i lavori approvati, fu messo mano alla caserma d’artiglieria al Macao, a quella di fanteria a S. Marta, al ponte Umberto, e continuati quelli dell’Ospedale militare, della piazza d’Armi e del ponte Garibaldi.
Si credè che la crise della ditta Moroni fosse anche scongiurata con un aiuto di 2,500,000 di lire dategli dalla Società dell’Esquilino per far fronte agli impegni bancari pendenti, e ultimare le costruzioni. Invece il sussidio non servì a nulla. Quella ditta aveva affari per 48 milioni rappresentati da edifizi ultimati e da ultimare. Erano impegnate la Società dell’Esquilino per 24 milioni, la Tiberina per circa 6 e l’Immobiliare per la Banca Nazionale per 2, e diversi istituti e privati per altre somme minori; un aiuto largo per parte della Banca Nazionale avrebbe impedito il fallimento, che fu dichiarato qualche tempo dopo, invece non volle darlo altro che incompleto, e la ditta fallì travolgendo nel disastro la Tiberina.
Il 2 di febbraio comincia la demolizione dell’Apollo mentre s’inaugura l’Argentina, ampliata, ripulita, accomodata, da non riconoscere più, sotto quelle spoglie eleganti, la vecchia carcassa di pochi anni prima; e i romani facilmente dimenticano il loro Apollo, quel teatro nel quale avevano passate tante dolci serate, per gettarsi nelle braccia della ringiovanita Argentina. Che non se ne siano avuti a pentire gli ingrati?
Un voto del Senato contro il progetto per la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte, aveva fatto uscire dal gabinetto l’on. Coppino; egli fu molto pregato di rimanere perchè recentissimo era il trionfo riportato nella votazione della legge sull’insegnamento secondario, ma il deputato d’Alba rimase incrollabile ed a ministro della pubblica istruzione fu nominato l’on. Paolo Boselli. Questa nomina e quella del conte di Robilant all’ambasciata di Vienna si dissero incostituzionali.
Tra gli uomini che la bella Italia ospitava ve ne era uno specialmente caro a ogni buon patriotta, un principe la cui salute destava vive e serie apprensioni: Federico di Prussia, l’eroico soldato della guerra del 1870, che a San Remo lottava contro una malattia terribile, e gli italiani, memori della salda amicizia della Prussia per l’Italia, e i romani specialmente, che lo vedevano ancora presentare il piccolo Principe di Napoli al popolo dalla loggia del Quirinale, facevano voti perchè a lui fosse resa la salute per il bene della Germania.
Sydney Sonnino il 5 febbraio diceva alla Camera:
«Seguiamo tutti con commozione le notizie che il telegrafo ci comunica da S. Remo, dove da più mesi lotta stoicamente contro gli assalti d’una penosa malattia un nostro ospite illustre, il Principe di Germania, figura gentile di principe colto, illuminato, liberale, guerriero ed artista, tipo perfetto di gentiluomo, amico sincero dell’Italia. A Lui, alla Consorte augusta, agli augusti e venerandi Genitori, alla Germania tutta, che trepida per la salute del suo nobile figlio prediletto, sono certo che questa Camera, a nome dell’intero popolo italiano, vorrà mandare ex imo corde un saluto di schietta e salda simpatia, e vorrei pregare il nostro presidente a dar forma voce ai nostri sentimenti di solidarietà nel dolore che affligge oggi un popolo amico ed alleato, e di comune ansietà per la salute dell’illustre infermo, e di esprimere insieme i nostri voti per il suo completo ristabilimento».
Il Sonnino sapeva di esprimere un voto di tutti gli italiani, e infatti la Camera approvò alla unanimità la proposta.
Il principe di Bismarck telegrafa il domani a Crispi:
«Les veux que la Chambre italienne à émis hier touchant le rétablissement de la santé de monseigneur le Prince impérial et les paroles éloquentes que Votre Excellence å prononcées en cette occasion, produiront partout en Allemagne une impression profonde et sympathique. Cette noble manifestation trouvant son écho dans nos cœeurs livrés à l’heure qu’il est à des douloureuses préoccupations, prouve en même temps que l’amitié qui unit nos deux pays, tout en résultant de l’identité des intérêts des Gouvernements, repose sur la base solide et durable de la sympathie des sentiments réciproques des deux nations unies dans la grande pensée du maintien de l’ordre et de la paix.
«C’est à vous, illustre représentant du Gouvernement ami, que j’adresse mes plus vifs remerciements en priant Dieu d’exaucer les vœux formulés par la Chambre des députés».
Nello stesso tempo l’ambasciatore tedesco, conte di Solms, rimetteva al Governo italiano, a nome del suo Governo, un telegramma di ringraziamento.
Gli augurii della Camera italiana per il ristabilimento del Principe imperiale erano appena giunti a San Remo, che Biancheri telegrafava al nuovo imperatore Federico III:
- «Sire,
«La Camera dei deputati, la quale mandava ieri il suo voto per la conservazione della preziosa Vostra salute, oggi al crudele annunzio della morte del Vostro Gran Genitore, sospende, in atto di cordoglio, i suoi lavori.
«L’Italia, per mezzo mio, si unisce alla Germania in un comune dolore, e ripete al nuovo Imperatore quei voti che ieri mandava a S. A. il Principe imperiale.»
Guglielmo I era morto! Il vittorioso Guglielmo si era per sempre addormentato nel castello imperiale di Berlino alle 8.27 del 9 marzo, e il nostro ospite non era più il Principe imperiale di Prussia, ma S. M. l’Imperatore di Germania e Re di Prussia.
Roma, all’annunzio della morte di quel popolare sovrano, rimase costernata; le botteghe si chiusero, i teatri sospesero le rappresentazioni e le bandiere abbrunate sventolarono su tutti gli edifici; l’Italia sentiva d’aver perso un fedele amico. Il dolore della Corte fu grandissimo, e il Re, ubbidendo a un sentimento del suo generoso cuore, partiva la sera del giorno stesso per Genova a fine di abbracciare il suo migliore amico, il nuovo Imperatore, che abbandonava precipitosamente la calma di San Remo, per prendere le redini del governo.
I due Sovrani s’incontrarono a Sampierdarena, e il loro incontro fu quello di due amici che da molto tempo non si vedono e nella sventura trovano la loro fede immutata.
Il ff. sindaco telegrafò al Borgomastro di Berlino, che rispose:
«Nel profondo lutto che la morte del nostro adorato ed indimenticabile Imperatore e Re Guglielmo ha gettato sulla città di Berlino e sull’intero popolo tedesco, ci sentiamo in dovere di porgere sinceri ringraziamenti per le parole di calda simpatia che ci sono inviate dalla città di Roma».
Il principe di Bismarck telegrafava al presidente del Consiglio:
«Par son télégramme d’avant-hier Votre Excellence m’avait communiqué les résolutions prises par le Sénat du Royaume, et la Chambre des Députés à la nouvelle de la mort de Sa Majesté l’Empereur Guillaume. Cette imposante manifestation de la sympathie des représentants de la grande et noble nation qui nous est alliée par ses sentiments et ses traditions historiques restera gravée dans tous les cours allemands.
«Je me ferai un devoir de porter le fait dès aujourd’hui à la connaissance de Sa Majesté l’Empereur Frédéric, Mon Auguste, Maitre qui y trouvera lui aussi un gage certain de la durée et de la force des relations d’amitié basées sur la communauté d’idées et d’intérêts de nos deux nations dont l’amitié continuera à faire sentir sa bienfaisante influence sur le maintien de la paix du monde et sur les destinées de nos deux pays».
A rappresentare la casa di Savoia e l’Italia ai funerali del Liberatore Tedesco, andò il Principe di Napoli accompagnato dal general de Sonnaz, dal colonnello Osio e dal capitano Franzini.
Il Re aveva ordinato venti giorni di lutto alla Corte, per la morte dell’Imperatore Guglielmo, e i venti giorni erano passati quando le LL. MM. partirono per Firenze, insieme con l’on. Crispi per visitare S. M. la Regina d’Inghilterra, che dal 21 di marzo si trovava alla villa Palmieri insieme con le LL. AA. il Principe e la Principessa di Battemberg.
A Firenze s’erano dati quell’anno convegno parecchi principi reali tra i quali noterò l’Imperatore e l’Imperatrice del Brasile, il Re e la Regina del Wurtemberg, la Regina di Serbia con il principe Alessandro.
I Sovrani rimasero a Firenze tre giorni e furono festeggiatissimi.
Il 17 giunse a Roma S. M. il Re di Norvegia, e la Corte gli fece una cordiale accoglienza, della quale egli fu commosso, come dimostrò al Re nella sua visita di congedo.
Il 1° maggio un triste avvenimento, le conseguenze del quale potevano essere gravissime, oscurò il bel cielo d’Italia: il pericolo corso da S. A. R. l’Erede del trono. Il principe Vittorio Emanuelc seguiva un corso d’istruzione del colonnello De-Benedectis, e terminata la parte teorica, faceva esperimenti pratici. Il 1° maggio S. A. R. si era recata al forte tiburtino per assistere a certe prove di gelatina esplodente, ed era accompagnata dal generale d’Oncieu de la Batie, dal colonnello de Benedectis, dai capitani di Lorenzo e Nieddù e dal tenente d’Ayala. Per precauzione era stata inalzata a una certa distanza dal teatro degli esperimenti una palizzata dietro la quale erano il Principe e gli altri ufficiali; l’esperimento consisteva nel tirare fucilate contro una scatola di gelatina, che non avrebbe dovuto esplodere, come non aveva esploso negli esperimenti della mattina; invece ai colpi la cassetta saltò in aria e la palizzata fu crivellata di scheggie. S. A. R. e il tenente d’Ayala prestarono i primi soccorsi agli altri feriti e quest’ultimo fu vivamente lodato dal Principe per la sua caritatevole condotta. Erano gravemente feriti il D’Oncieu, il de Benedectis, il di Lorenzo, e più leggermente il Nieddù e d’Ayala.
S. A. R. aveva due ferite, di cui una leggerissima, tanto che il domani fece, a malgrado della pioggia, una lunga passeggiata.
Il 4 i Sovrani, il Principe ereditario e l’on. Crispi andarono a Bologna per l’inaugurazione del l’Esposizione, e vi rimasero fino all’11 festeggiatissimi dalla popolazione, che da molto vivamente desiderava di vederli.
La morte di Guglielmo I, la visita dei Sovrani a Firenze, le ostilità della Francia, la situazione africana, i negoziati del trattato italo-francese sospesi, se non rotti, spinsero l’on. Bovio ad interpellare il Crispi sulla politica estera.
Il presidente del Consiglio rispose che l’Italia era alleata della Germania e dell’Austria con lo scopo comune del mantenimento della pace e dell’ordine in Europa, e che queste due alleanze erano le sole che convenissero all’interesse dell’Italia sul continente, come l’alleanza dell’Inghilterra era la sola che potesse convenirle sui mari.
In quanto ai rapporti colla Francia il Crispi disse che erano buoni (commenti) e che il Governo non avrebbe consentito ad una politica di aggressione contro quel popolo.
«Non bisogna dimenticare che l’Italia è, e deve svolgersi. Il Mediterraneo non diventerà un lago italiano, ma non deve esser nemmeno un lago francese».
Egli accennò ai sospesi negoziati dicendo che il giorno nel quale la Francia desse il beneficio in correspettivo a quello che chiedeva, non sarebbero certo gli italiani a opporsi ad un trattato foggiato però su basi diverse di quello del 1881.
Poichè ho alluso alla questione d’Africa devo rammentare che il 30 aprile la presidenza faceva distribuire ai deputati un Libro Verde sulla situazione della nostra colonia e sui rapporti del nostro Governo con gli altri nel continentė nero.
Il Libro Verde del 1° maggio conteneva la storia completa a base dei rapporti diplomatici degli avvenimenti svoltisi dal 29 ottobre 1884 al 4 aprile 1888. Riassumo alcuni di quei documenti.
Il 29 ottobre 1884 il Governo vide la necessità di occupare Beilul per non permettere ai francesi di troppo circoscrivere il nostro possedimento africano, e desiderò sapere se l’Inghilterra non avesse nulla in contrario a questa occupazione. Il Gabinetto di St. James rispose che non poteva disporre d’un territorio che non gli apparteneva, ma che non si opponeva al progetto italiano. Il Mancini, assicurato del consenso dell’Inghilterra, avvertì tutti i rappresentanti dell’Italia all’estero e notificò loro le ragioni che spingevano il Governo ad impadronirsi Beilul, mentre faceva imbarcare a Napoli per Assab un battaglione di bersaglieri, una compagnia d’artiglieria al comando del colonnello Saletta.
La Turchia e l’Egitto protestano, la Francia chiede schiarimenti; ma l’Italia non se ne da per intesa e, alla fine di gennaio, quando l’Egitto ritirò le sue truppe da Massaua, vedendo che la Turchia non si moveva per provvedere, occupò Massaua; nell’aprile estese le sue conquiste su Arafali e Arkiko, e avvertito il Negus, s’impadronì di Saati ed Amba al solo scopo di rendere sicure le strade e proteggere il commercio.
L’occupazione di questi punti non andò punto a genio al Negus e un vivo malumore si sollevò in Abissinia contro l’Italia, malcontento che il Governo credè poter far cessare annunziando l’invio d’una solenne missione nel novembre al Negus, ma continuò le occupazioni e ras Alula alla fine del 1886 scrisse una lettera non solo di protesta, ma di minaccia al Genè dicendo che se per la fine di gennaio non ritirava le truppe da Ca-a, e da Zula nella prima settimana di febbraio l’amicizia sarebbe cessata.
Genè rinforza Saati e Casa e domanda al Governo l’invio d’un solo battaglione, ma il 18 gennaio però telegrafa a Roma avvertendo che la missione Salimbeni è nelle mani di ras Alula se non si abbandonano i punti occupati, e il 25 dello stesso mese il conte di Robilant chiede al ministro della guerra solleciti rinforzi, ma il Ras ha già abbandonato Ghinda e avanza su Saati e lo attacca lo stesso giorno. Il 26 avvenne il disastroso scontro di Dogali. Il Genė il 29, in un rapporto al Governo, ne riferiva i particolari e proponeva un’azione offensiva occupando i Bogos e magari l’Asmara, e il ministro Depretis rispose:
«Il Governo si riserva di provvedere se e quando lo crederà conveniente, tenuto conto degli altri gravi interessi dello Stato».
Il 4 maggio 1887 il Governo notificò alle potenze il blocco del mar Rosso, mentre apriva le trattative con l’Inghilterra per la delimitazione delle frontiere tra Suakim e Massaua. Dopo lunghi negoziati si viene ad un accomodamento, e in una conversazione del nostro ambasciatore a Londra con Lord Salisbury parlando dell’Africa, questi con molto tatto propose una mediazione inglese per comporre il dissidio e ristabilire amichevoli relazioni tra l’Italia e l’Abissinia, poichè sembravagli che si potrebbero avviare relazioni commerciali con l’interno e Massaua potrebbe prendere un grande sviluppo, con evidente vantaggio degli interessi italiani. Corti non disse nè si nè no, Salisbury tornò alla carica e comunicò all’ambasciatore una lettera del Negus alla regina Vittoria, nella quale egli si lamentava della condotta del Re d’Italia. Il Depretis rispose che l’Italia non avrebbe certo fatto il primo passo e che: «è d’uopo che il Negus chiegga la pace e si sottometta alle nostre esigenze, ridotte, ben inteso, ai limiti più ragionevoli». Salisbury insistette, ma Catalani, reggente l’ambasciata, gli fece notare che bisognava tener conto dell’opinione pubblica d’una Nazione giustamente irritata.
Il gabinetto inglese continuò i tentativi per indurre l’Italia ad accettare la pace, e finalmente il 29 ottobre 1887 S. E. Crispi telegrafava a Londra:
- «Signore incaricato d’affari,
«Riferendomi al telegramma del 28 indirizzatomi dal signor conte Corti e benchè il nostro pensiero sia noto a cotesta ambasciata sino dal 12 ottobre, fo seguire ridotte al minimum le condizioni sotto le quali il Governo italiano potrebbe accondiscendere a tornare in pacifici rapporti coll’Abissinia:
«1° il Negus esprimerà il suo vivo rammarico per l’ingiusto attacco dello scorso gennaio;
«2° Saati ed Ua-a rimarranno definitivamente acquisite all’Italia, con una zona al di là di almeno una giornata di marcia. Ghinda diverrà città di frontiera dell’Abissinia. La valle d’Ailet passerà nel possesso, o almeno sotto il protettorato dell’Italia. La frontiera sarà tracciata di comune accordo con l’intervento dell’Inghilterra e indicata sul terreno per mezzo di pali;
«3° il Negus riconoscerà il protettorato dell’Italia sugli Assaorta e sugli Habat;
«4° l’Italia d’accordo con l’Inghilterra occuperà la regione del Senahit;
«5° un trattato di pace, d’amicizia e di commercio sarà firmato tra l’Italia e l’Abissinia.
«Quanto all’impegno di sospendere le ostilità fino al ritorno, nello scorcio di novembre, del signor Portal, mi riferisco ai precedenti telegrammi e dispacci.
«Crispi»
La missione Portal fallì e seguono fatti di poca importanza fino al marzo 1888, nel quale il Negus sceso coi suoi eserciti fino a pochi chilometri dai nostri forti, dirigeva il 26 marzo una lettera al San Marzano, nella quale egli, «profeta mandato da Dio, re di Sion, re dei re d’Etiopia» si lamentava che gli italiani non avessero osservato il trattato che gli inglesi gli avevano fatto fare con gli egiziani per Massaua, ed invitava il generale a ritirarsi, ad abbandonare l’Abissinia, e a lasciare il porto di Massaua aperto ai negozianti come una volta, e domandava così la pace.
Il San Marzano non rispose subito, perché aspettava istruzioni da Roma e Johannes gli scrisse nuovamente dicendo che sperava che il contenuto della precedente lettera fosse buono, diceva che doveva essere stato telegrafato al caro e lodato Umberto I, re d’Italia, ed egli aspettava una sollecita risposta.
Il generale rispose con una lettera che conteneva le condizioni di pace, che il Crispi aveva comunicate a Londra col suo telegramma del 29 ottobre e il Negus, ricevutala, scriveva al San Marzano:
«Ho ricevuto la lettera scritta al campo di Saati li 20 maggabit. Ho creduto che la riconciliazione potesse avverarsi, come prima ci siamo riconciliati cogli inglesi e cogli egiziani.
«Avevo scritto una lettera amichevole per mettere d’accordo i cuori.
«Perchè sono state abbandonate le condizioni di prima?
«Cosa potrebbe ora metterci d’accordo? Cristo non ha ripartito e conciliato? Il vostro paese è dal mare sino a Roma; il mio è dal mare sino quà, cioè all’Etiopia, e non vi è alcun motivo di questionarci. Di più come potrei scrivere, sigillare e concedere i paesi che i re miei avi governarono?
«Cristo li diede a me. Dove dobbiamo incontrarci perchè il sangue cristiano sia sparso? Io mi trovo in un posto e voi altri in un altro; che cosa ci può fare incontrare? E però da quest’ora non verrà più da voi il mio messo, e che il vostro non venga più da me.
«Scritto dal campo il 23 maggabit».
Tale era il contenuto del libro verde del 1° maggio e la discussione fu iniziata alla Camera il 3 con un’interpellanza dell’on. De Renzis, alla quale risposero il Crispi e il Bertolė-Viale con due discorsi che destarono l’approvazione della Camera.
«L’on. De Renzis, ha domandato quali siano le intenzioni del Governo per l’avvenire. Risulta dai documenti e dalle dichiarazioni del ministro della guerra che Massaua non può tenersi senza Saati. Si resterà quindi a Saati, e per la zona al di là di Saati che fu chiesta al Negus, il Governo persiste nei crederla necessaria e confida che perseverando si giungerà ad averla. L’Italia è andata a Massaua nell’interesse della civiltà e per non lasciare che altri paesi occupassero quelle posizioni.
«Il Mar Rosso sarà sempre la gran via delle comunicazioni con l’Asia, è importante che l’Italia vi mantenga il posto che vi ha preso a prezzo di tanti sagrifici, di sangue e di danaro.
«È tempo che la questione dei possedimenti africani sia una volta per sempre chiaramente risoluta dalla Camera».
Cosi diceva il Crispi esponendo brevemente il programma del Governo circa l’Africa, e la discussione della politica africana finiva dopo un secondo discorso Crispi, il 12 maggio, con un ordine del giorno Finocchiaro-Aprile di lode per la condotta del Governo, che fu approvato a grandissima maggioranza.
Il 27 maggio, discutendosi il bilancio di grazia e giustizia, fu principiata alla Camera la discussione del nuovo codice penale Zanardelli.
Molti parlarono sul codice, e furono più di quaranta gli oratori, e il 10 giugno, esaurita la discussione, si passò alla votazione, sella quale vi fu una maggioranza di 178 voti.
Il dopopranzo del 6 giugno il Re inaugurava in forma semplicissima il nuovo ponte Garibaldi.
Il 10 i Sovrani insieme col Principe di Napoli partirono nuovamente per Bologna, per assistere all’VIII centenario di quello Studio, ove l’accoglienza che ebbero fu davvero entusiastica. Il 15 all’alba la Regina e il Principe di Napoli erano di ritorno alla capitale, e il Re giungeva a Monza.
Le notizie che arrivavano ogni giorno dalla Germania sulla salute dell’imperatore Federico III erano sempre più inquietanti, ma nessuno prevedeva che la catastrofe fosse così prossima, come fu.
La mattina del 15, poche ore dopo il ritorno della Regina e del Principe da Bologna, l’Imperatore di Germania e Re di Prussia, quel buono amico dell’Italia, cessava di vivere nel castello di Potsdam, circondato dalla famiglia e dall’affetto d’un popolo che lo idolatrava.
Le parole che Francesco Crispi pronunziava il giorno stesso alla Camera dei Deputati furono la sincera interpretazione del lutto d’Italia.
- «Onorevoli Colleghi,
«Un altro lutto per la Germania.
«Quantunque attesa, la notizia non ne giungerà meno dolorosa all’Italia.
«Federico III, l’amico fedele e devoto del nostro re, il soldato valoroso, il principe saggio, è morto stamani alle II e un quarto.
«Che volete che io vi dica, onorevoli deputati, che non sia nell’animo vostro?
«La storia di questo principe la conoscete: è contemporanea. Egli combatte in quelle lotte, le quali valsero a completare l’unità della patria sua, e della patria nostra.
«Egli era pegno di pace per l’Europa. Non per questo che io tema che questa pace possa essere turbata; imperocchè il figlio augusto, il quale sale sul trono, ha i medesimi principii, i medesimi pensieri, i medesimi interessi del padre, che noi piangiamo.
«Lascio alla presidenza di proporre quei segni di lutto, che altra volta ha decretato per il defunto Guglielmo.
«Io non ho voluto se non che ricordarvi quali siano i nostri doveri, quali siano i nostri sentimenti, e sono sicuro che, nelle poche mie parole, io non solo mi sono reso interprete di voi, onorevoli deputati, ma di tutta la nazione italiana, che sentirà la dolorosa notizia con cordoglio e amarezza».
Il presidente sospese la seduta e la Camera italiana mandò al nuovo Imperatore e al Governo germanico le espressioni delle più sincere condoglianze.
Il 19 giugno il presidente Biancheri leggeva alla Camera il seguente telegramma del cancelliere dell’Impero al presidente del Consiglio:
«J’ai reçu le télégramme par lequel Votre Excellence a bien voulu m’informer de l’attitude prise par les deux Chambres en présence du deuil dans lequel la mort de l’Empereur Frédéric vient de plonger l’Allemagne.
«Je prie Votre Excellence de recevoir l’assurance réitérée de la reconnaissance que les sympathies du peuple italien ont fait éclore dans tous le cours allemands et d’en vouloir bien porter l’expression à connaissance des deux Chambres.
«Je n’ai pas manqué de soumettre a Sa Majesté l’Empereur, Mon Auguste Maitre, le communiqué rélatif aux délibérations en question des Chambres, de même que les veux que la Natiop amie et alliée dont Votre Excellence régit la politique, par l’organe de son Parlement et de son Gouvernement a formulés pour la prospérité et la gloire du règne de l’Empereur Guillaume II.»
I funerali dell’infelice imperatore furono fatti in forma privata ed è perciò che la Corte e il popolo d’Italia non vi furono specialmente rappresentati.
Il Re mandò sulla tomba del defunto imperatore una splendida corona d’oro formata da due rami di quercia, e sul nastro che la legava era scritto:
«Umberto I, Re d’Italia, al suo migliore amico Federico III, Imperatore e Re».
Semplici ma commoventi parole, che ci lasciano indovinare il dolore col quale il Re nel silenzio della villa di Monza aveva dovuto accogliere l’infausta notizia.
Ai primi di luglio fu presentata al Parlamento la legge ferroviaria, che aveva per mira di costruire molti chilometri con pochi quattrini e reprimere gli abusi dell’appaltatore «che si trasforma in banchiere, o, peggio ancora si lega e si sottomette ai banchieri». La discussione fu iniziata il 5, e la legge fu approvata senza notevoli incidenti, nè discorsi.
Subito dopo la legge ferroviaria fu iniziata la discussione di quella comunale e provinciale, che doveva introdurre nell’organizzazione dei comuni e delle provincie notevoli variazioni.
Il 19 luglio, approvata la legge, l’on. Biancheri si alzò e disse:
- «Onorevoli Colleghi,
«A rivederci a novembre, sempre animati da sensi di devozione al Re e alla Patria.»
E tra gli applausi e gli evviva i deputati si separarono, contenti dell’opera loro, e contentoni di fuggire il caldo soffocante di Roma e la fornace di Montecitorio.
Il 3 la Regina aveva inaugurato in Trastevere la scuola «Regina Margherita» vero modello di scuola popolare, ariosa, spaziosa, e rispondente a tutte le esigenze dell’igiene; scuola che era stata costruita a spese del Municipio su progetto dell’architetto D’Ambrosio.
Il 28 dello stesso mese, con l’intervento degli on. Boselli e Saracco, era aperta solennemente la linea Roma-Sulmona, che dava un nuovo sbocco all’attività degli Abruzzi.
Verso la fine d’agosto il Re lasciò Monza, la Regina Courmayeur, e si recarono insieme col Principe ereditario, reduce da un lungo viaggio in Germania, nelle Romagne, per assistere alle grandi manovre che vi si svolgevano agli ordini del Duca d’Aosta.
Il Re col Principe visitarono Forlì, Rimini, Ravenna, Cesena, Faenza, accolti ovunque dalle dimostrazioni d’affetto di un popolo, dei cui sentimenti monarchici a torto si dubitava.
I Sovrani e il Principe reale partirono da Rimini il 4 settembre, e il 10 si recarono a Torino per prender parte a un fausto avvenimento di famiglia.
S. E. Crispi, il 16 agosto, aveva partecipato al Presidente della Camera il prossimo matrimonio di S. A. R. il Duca d’Aosta con S. A. I. la principessa Laetitia Napoleone; il Presidente, alla sua volta, ne aveva avvertiti i membri del Parlamento con una circolare; ed era per questo matrimonio che Torino era in festa, e che i Sovrani avevano abbandonato Monza.
L’11, nella sala da ballo del palazzo reale, alla presenza delle LL. MM. il Re e la Regina di Italia, e il Re e la Regina di Portogallo, delle LL. AA. RR. le principesse Clotilde Napoleone, Elisabetta e Isabella di Savoia, dei principi Vittorio Emanuele, Emanuele Filiberto, Vittorio e Luigi di Savoia, Eugenio di Carignano, Gerolamo e Luigi Napoleone, delle LL. EE. i Collari della Annunziata e delle alte cariche dello Stato, erano uniti in matrimonio dall’on. Farini il duca Amedeo e la principessa Laetitia; la cerimonia religiosa seguì quella civile, e fu celebrata nella cappella reale dall’arcivescovo di Torino, cardinale Alimonda, assistito dai vescovi del Piemonte.
Prima della cerimonia il Re consegnava all’on. Crispi le insegne dell’ordine supremo dell’Annunziata.
Le feste durarono fino al 14 e furono splendide e affettuose ad un tempo; i Sovrani d’Italia, accompagnati da quelli di Portogallo e dal Principe di Napoli, tornarono a Monza, e gli altri principi alla rispettive sedi.
L’8 ottobre le LL. MM. giungevano a Roma.
Dal luglio si parlava d’un viaggio a Roma del giovane Imperatore di Germania, e Roma si preparò per degnamente ricevere l’ospite illustre, che giunse col fratello Enrico di Prussia l’11 ottobre.
Erano ad attendere S. M. I., il Re, il Principe di Napoli, i duchi d’Aosta e di Genova, i Presidenti del Senato e della Camera e tutte le autorità. Il treno giunse alle 4,10 pom., e l’Imperatore ne scese quasi subito per gettarsi nelle braccia del Re, che baciò ripetutamente; strinse poi la mano ai Principi, all’on. Crispi e ai presenti che conosceva. Dopo aver passata in rivista la compagnia d’onore, e dopo le presentazioni, i due Sovrani salirono nelle carrozze di Corte.
Che cosa fosse il percorso dalla stazione alla Reggia, quale l’entusiasmo col quale il giovane Imperatore venne accolto nell’eterna città è difficile ridirlo, è difficile descriverlo. Guglielmo di Hohenzollern ne fu vivamente commosso, e mostrò la sua commozione al Sindaco pregandolo di ringraziare Roma.
Al Quirinale attendevano i due ospiti S. M. la Regina, le principesse Laetitia, Elisabetta e Isabella, circondate dalle dame e dai gentiluomini, e dalle autorità che non erano andate alla stazione,
Dopo le presentazioni, e dopo essersi affacciati al balcone del Quirinale per ringraziare il popolo plaudente, l’Imperatore di Germania e il principe Enrico si ritirarono nei loro appartamenti.
La sera, mentre a Corte aveva luogo un pranzo di famiglia, il ff. di Sindaco, ubbidendo all’incarico ricevuto dal Sovrano tedesco, faceva affiggere il seguente manifesto:
- «Cittadini,
«S. M. l’imperatore Guglielmo, profondamente commosso per la unanime testimonianza d’affetto ricevuta al suo arrivo a Roma, mi ha onorato dell’incarico di far conoscere all’intera cittadinanza quanto la Maestà Sua abbia gradito così spontanea ed imponente dimostrazione.
«Roma, anche in questo, si è mostrata pari alla sua fama, e degna della missione che l’Italia le ha affidata.
«ff. di Sindaco |
L’Imperatore, benchè ospite del nostro Re, aveva stabilito di visitare Leone XIII, e la visita era stata accettata. In quella occasione si creò una specie di cerimoniale per le visite dei sovrani stranieri al Papa, abitanti al Quirinale.
Guglielmo II, la mattina del giorno 12, andò in carrozza di Corte, insieme col fratello, alla Legazione di Prussia, che era nel palazzo Capranica, accanto al teatro Valle, e accettò una colazione romanesca, annaffiata da squisiti vini dei castelli, offertagli dai ministro von Schloezer, e preparata esclusivamente da una cuoca romana. L’Imperatore era allegrissimo, e il tramontano pungente che soffiava in quei giorni gli aveva dato eccellente appetito, cosicchè fece onore alle pietanze e ai vini del suo anfitrione. Alla colazione assistevano, oltre il principe Enrico e i personaggi del seguito, anche i cardinali Rampolla e Hohenlohe e i monsignori Mocenni e de Montel.
All’una e mezzo circa l’Imperatore salì, insieme col signor von Schloezer, in una victoria scura tirata da quattro cavalli morelli montati da postiglioni e preceduti da battistrada, e si diresse al Vaticano. La carrozza dell’Imperatore e quelle del seguito erano venute da Berlino.
I soldati facevano ala su tutta la via fino a Santa Marta. L’Imperatore fu ricevuto in Vaticano con onori sovrani, e il Papa gli mosse incontro fino sul limitare della sala del Trono.
Guglielmo II e Leone XIII rimasero soli a parlare circa un quarto d’ora. Si dice che l’Imperatore, prevedendo che il Papa avrebbe toccato la quistione del potere temporale, avesse dato ordine al fratello d’interrompere il colloquio dopo un quarto d’ora. È un fatto che il principe Enrico, trascorso quel tempo, toccò la maniglia della porta, senza rispetto per l’etichetta; l’Imperatore,
avver avvertito, tronco lo spiacevole colloquio e chiese al Papa il permesso di presentargli il fratello e i personaggi del seguito. Avvenuta la presentazione, l’Imperatore si ritirò, fece una breve visita al cardinal Rampolla, traversò rapidamente le logge e le stanze di Raffaello, e sceso in San Pietro, risalì in carrozza insieme col suo ministro presso il Vaticano.
Secondo il piano prestabilito, avrebbe dovuto ritornare nelle sue carrozze al palazzo della Legazione, ov’era stata murata una lapide in ricordo della visita, e là, riprendere le carrozze della Corte italiana per tornare al Quirinale.
Ma invece, ridendo forse per non aver permesso al Papa di sfilare la corona delle sue querimonie, dette ordine ai postiglioni di tornar direttamente alla Reggia, dove condusse pure il signor von Schloezer, e sempre animato dalla solita allegria, raccontò subito al Re l’accaduto, e quindi, fatto chiamare l’on Crispi, consegnavagli le insegne dell’Aquila nera.
Al pranzo di gala, che ebbe luogo la sera stessa al Quirinale, il re Umberto pronunziò il seguente brindisi:
«Con profonda gioia e con viva gratitudine saluto nella mia Reggia, qui nella capitale d’Italia, l’imperatore e re Guglielmo II. La presenza in Roma del Capo di una grande Nazione e di una gloriosa Dinastia, alla quale sono legato da antica e salda amicizia, è nuovo pegno dell’alleanza stretta tra noi per la pace d’Europa e pel benessere dei popoli nostri.
«Bevo alla salute di Sua Maestà imperiale e reale il mio Ospite augusto. Le sue virtù mi affidano che Iddio gli serberà lungo e glorioso Regno.
«Bevo alla salute di Sua Maestà l’Imperatrice e Regina. «Bevo alla salute dell’esercito tedesco, tutela e gloria della Germania».
L’Imperatore, commosso, si alzò e rispose:
«Ringrazio la Maestà Vostra col profondo del cuore per le calde parole che Ella mi ha rivolto. L’accenno all’alleanza ereditata dai nostri padri trova in me vivace eco. I nostri paesi guidati dai loro grandi Sovrani conquistarono con la spada la loro unità. L’analogia fra le nostre storie implica il perpetuo accordo di entrambi i popoli pel mantenimento di questa unità, che è la più sicura guarentigia di pace. Le nostre relazioni hanno trovato la più viva espressione nella grandiosa accoglienza che la capitale di V. M. mi ha fatto. Io alzo il mio calice e bevo alla salute di V. M., di S. M. la Regina, e del valoroso esercito di V. M.»
La festa più solenne, più popolare e forse meglio riuscita fu la rivista di Centocelle.
La mattina del 13 alle 8 uscivano dal Quirinale S. M. la Regina con le LL. AA. le principesse Elisabetta, Laetitia e Isabella di Savoia, accompagnate dalle dame e dai gentiluomini.
Poco dopo, in carrozze con le livree rosse, lasciavano il Quirinale le LL. MM. l’Imperatore e il Re con i principi e gli ufficiali dei seguiti, e per la porta S. Giovanni si dirigevano al Campo della rivista. Al forte Casillino le LL. MM. e LL. AA. montarono a cavallo e, seguiti da un superbo stato maggiore, partirono al trotto per Centocelle.
Incontro ai Sovrani si fece il general Pallavicini, comandante il IX corpo d’armata; e, mentre le trombe intuonavano l’inno germanico, le LL. MM. entravano nel campo e andavano direttamente ad ossequiare la Regina e le Principesse, giunte pochi minuti prima, tra gli applausi e gli evviva di migliaia di spettatori giunti da Roma con i più primitivi mezzi di trasporto.
La rivista fu passata al mezzo trotto e durò quaranta minuti e chi non la vide può dire di aver perso uno spettacolo senza uguale, e che rimarrà sempre impresso nelle menti degli spettatori, e al cui ricordo il loro cuore palpiterà di giusto orgoglio di patria.
Dopo le 11 cominciò lo sfilamento davanti alla tribuna reale, a destra della quale avevano preso posto i Sovrani e i Principi.
I soldati passano davanti all’Imperatore che dà segni della più grande soddisfazione e di un interesse sempre crescente: passano i compassati allievi carabinieri, passa la fanteria, passano i granatieri ma ecco gli snelli e forti alpini di corsa, ecco con le penne al vento i bersaglieri; è un momento solenne: l’Imperatore è entusiasta, il Re, commosso, riceve i complimenti del suo alleato, la folla applaudisce quei bravi figliuoli d’Italia.
Al termine dello sfilamento l’Imperatore si rallegrò col general Pallavicini e gli strinse affettuosamente la mano.
La rivista era finita e mentre la folla si precipitava, rompendo le staccionate, sul campo, i Sovrani partivano tra incessanti applausi, e al tocco entrarono a Roma per la porta di San Giovanni.
Il giorno stesso era letto ai soldati il seguente ordine del giorno:
- «Soldati, Sotto-Ufficiali e Ufficiali,
«S. M. l’Imperatore e Re di Prussia e S. M. Umberto I Re nostro mi hanno espressa la loro soddisfazione per il contegno delle truppe nella rivista d’oggi in Roma
«Questo porto all’ordine del giorno del Regio esercito a titolo d’onore delle truppe che parteciparono alla rivista.
«Il ministro della guerra |
Alle 10 e mezzo pom. il campanone del Campidoglio annunziava coi suoi rintocchi che i Sovrani stavano per salire sul sacro colle.
Nel cortile del palazzo dei Musei attendevano gli illustri Ospiti il ff. sindaco con la marchesa Olga Guiccioli e le autorità capitoline.
I Sovrani giunsero accompagnati dai Principi e dalle Principesse, visitarono i musei artisticamente illuminati, conversarono con i ministri, gli ambasciatori e i consiglieri, e dopo aver ascoltato un po’ di musica e aver fatta una breve sosta al buffet, lasciarono il Campidoglio.
Il giorno dopo, domenica, alle 11 ant. Guglielmo II insieme col fratello, con Herbert di Bismarck e il seguito scese dalla carrozza di Corte davanti al portone del palazzo Caffarelli, ove lo attendevano l’ambasciatore, conte di Solms, e i componenti l’ambasciata; e, dopo aver salutati i presenti, entrò nella cappella per assistere al servizio.
La piccola sala, che serve di cappella, era piena di gente che si alzò all’apparire dell’Imperatore, che, col suo seguito, prese subito posto.
Il Rev. Ronneke principiò il culto al quale l’Imperatore assistette con raccoglimento, cantò a bassa voce i cantici, che il pastore indicava, e ricevette la benedizione a capo chino, con l’elmo posato in terra.
Terminato il servizio S. M. I. usci insieme col fratello e il seguito e salì all’ambasciata, ove poco dopo mezzogiorno fu servita una sontuosa colazione, alla quale oltre l’ambasciata e le notabilità della colonia tedesca, assistevano i ministri Crispi e Boselli e il marchese Guiccioli.
Uscendo dal palazzo Caffarelli Guglielmo II, Enrico di Prussia, e il conte di Solms, con gli ufficiali del seguito, andarono al Pantheon per deporre una corona d’alloro sulla tomba del Gran Re. Nessuno era stato avvertito di questa visita e S. M. I. fu ricevuto dai soli veterani di servizio.
La mattina seguente le LL. MM. e le LL. AA. con i ministri e i seguiti partirono per Napoli, ove giunsero alle 2 pom., accolti entusiasticamente.
Il 17 i Sovrani e i Principi assistettero nel cantiere di Castellammare al varo dell’«Umberto I.» Monsignor Caselli, arcivescovo del paese, benedì la nave e la signorina Acton, salita sul ponte insieme con i signori Capaldo, e Micheli, ruppe sul fianco della nave una bottiglia di Lacryma Christi, tra gli applausi d’una popolazione festante. Quindi si procedette all’operazione di togliere i puntelli, e alle 12 e 8 tra un silenzio sepolcrale, tagliate le corde, la nave scese lentamente in mare e si fermò a 200 metri dalla spiaggia. Fu un momento angoscioso per gli spettatori e per gli operai. Guglielmo II agita l’elmo, mentre il Re pallidissimo segue con ansia il cammino della corazzata, e non si rinfranca finché non è sicuro dell’esito felice del varo.
L’Imperatore strinse affettuosameute la mano al Re, si congratulò con l’on. Brin e i costruttori Capaldo e Micheli, mentre il popolo applaudiva, applaudiva senza stancarsi.
A mezzogiorno e mezzo i Sovrani e i Principi s’imbarcavano su una lancia del Savoia, e tra gli urrà e le salve delle artiglierie raggiungevano l’Yacht reale, che inalberava la bandiera imperiale, e ove li attendeva un sontuoso déjeuner. Le LL. MM. passarono quindi in rivista la squadra e alle 3 1/2 cominciò lo sfilamento.
Il domani i Sovrani visitarono Pompei, e la sera partirono per Roma, ove furono accolti da una dimostrazione di calda simpatia.
La sera, dopo il pranzo di famiglia, le LL. MM. Guglielmo II, Umberto I e Margherita, le LL. AA. le Principesse e i Principi assisterono all’illuminazione del Foro Romano; e fu durante quell’illuminazione che S. M. I. manifestò al Re d’Italia il desiderio di vedere ancora una volta manovrare i bersaglieri. Il desiderio del suo alleato fu per il Re un ordine e la mattina seguente i due Sovrani insieme con il Principe Enrico si recarono al Macao, ove ebbero luogo le esercitazioni. L’Imperatore ne fu oltre modo contento e soddisfatto, e espresse il suo compiacimento al Pallavicini e si congratulò vivamente col colonnello Chavasse, col tenente colonnello Maggiorana e con gli aliri ufficiali.
Il Pallavicini faceva partecipi le compagnie di manovra dell’Imperiale e reale compiacimento col seguente ordine del giorno:
«S. M. l’imperatore di Germania e Re di Prussia, e S. M. Umberto I nostro Re mi hanno espressa la loro alta soddisfazione pel contegno, la tenuta e il grado d’istruzione del battaglione dei bersaglieri, che stamane ha avuto l’onore di manovrare alla presenza delle LL. MM.
«Tanto porto all’ordine del giorno del corpo d’armiata, a titolo d’onore delle compagnie 3ª e 4° reggimento bersaglieri che hanno formato il battaglione di manovra».
Alle 3 l’Imperatore lasciava Roma. Erano ad accompagnarlo tutti i Principi di Savoia, i Presidenti della Camera e del Senato, i Collari dell’Annunziata, i Ministri, il Prefetto, la Giunta e tutte le autorità.
Guglielmo sceso di carrozza strinse la mano al capitano dei corrazzieri Werner, e gli disse in tedesco:
«La saluto e la ringrazio del suo servizio. A Lipsia vedrò suo padre e glielo saluterò».
Parlò a lungo con tutti, e specialiente con S. E. Crispi, al quale strinse ripetutamente e affettuosamente la mano, baciò i Principi e abbracciò più volte il Re; poi salito in wagon rimase al finestrino, e appena il treno si messe lentamente in moto, stese la mano a Umberto, e poi agitò l’elmo e tra gli evviva partì.
Partito l’Imperatore, Roma tornò la Roma d’ottobre. Gli archi di trionfo scomparvero, le antenne furono abbattute, e di tanti ornamenti e innovazioni non rimasero altro che le guardie comunali a cavallo e la fontana di piazza di Termini con la vasca di granito e i leoni di finto bronzo. Quelle guardie erano poco numerose, ma necessarie in una grande città, soprattutto per regolare il transito delle vetture. Dire che i romani le accogliessero male, sarebbe mentire; le accolsero come tutte le innovazioni: col loro spirito satirico. Si racconta, e fu forse in uno di quei giorni di grande agglomerazione, che una di queste guardie ordinò a un vetturino di muoversi dal posto nel quale era. Il vetturino non rispose, la guardia replicò e l’altro zitto; la guardia ripetè l’ordine e l’auriga fece gli orecchi di mercante; il pizzardone a cavallo, impazientito forse, ordinò con più vivacità, e il cocchiere allora voltandosi rispose con gran calma:
«Avemo inteso, sor Marc’Aurelio!».
Pochi giorni dopo i Sovrani tornavano a Monza; il Re vi rimase fino alla vigilia della riapertura del Parlamento; la Regina non tornò che molto più tardi a Roma.
Il 20 ottobre fu solennemente inaugurato nell’Aula Magna dell’Università il congresso della Società Italiana di Medicina, dall’on. Guido Baccelli, con uno splendido discorso che riscosse lunghi applausi. Presero parte al congresso, oltre il Baccelli, molte celebrità mediche, tra le quali il Caldarelli, il Cantani, il Maragliano, il Grocco, il Marchiafava, il Mosso e il Galassi.
Pochi giorni dopo la chiusura del congresso, alla presenza di S. E. Baccelli, del prefetto, del ff. di sindaco e di una schiera di noti professori e dottori fu aperto un nuovo Istituto Chirurgico alla via Garibaldi. L’antico e sudicio locale sanitario era stato in settanta giorni trasformato in un elegante, arioso, allegro e pulito ospedaletto, dove i malati, oltre le amorose cure d’uno dei migliori chirurgi avrebbero trovata la calma, la pulizia e quel certo comfort che alleviano le sofferenze. E questa trasformazione da chi era stata operata? Dal prof. Durante, che aveva compreso di che cosa abbiano bisogno i pazienti, e che si era studiato di rendere l’Istituto Chirurgico, attraente, per quanto possa essere attraente un luogo di dolore. Ci era riuscito e tutti lodarono l’opera sua, come la lodiamo noi oggi.
L’8 novembre si riaprirono il Senato e la Camera.
All’approvazione del primo furono sottoposti il codice Zanardelli e la riforma comunale e provinciale. La legge comunale giunse al Senato debitamente modificata dalla commissione, della quale fu relatore il Finali, e approvata fu rimandata al Parlamento. Qui intanto si discuteva la legge di pubblica sicurezza, che passò subito al Senato, mentre questo rimandava a Montecitorio la riforma la quale fu subito presentata agli uffici e della quale fu iniziata la discussione il 21 dicembre.
In quel mese un nuovo lutto veniva ad aggiungersi ai lutti di quell’anno: il 15 cessava di vivere a Torino il prode ammiraglio d’Italia, l’avo del Re, il principe Eugenio di Carignano. Eugenio di Carignano fu un uomo di rare virtù di mente e di cuore, e se la Corte pianse il suo amato congiunto, l’Italia si associò al suo dolore sentendo d’aver perso uno dei suoi più cari figli. Il Senato commemorandolo e mandando le condoglianze al Re, non fece altro che esprimere i sentimenti degli italiani.
Il Senato aveva appena finito il suo lutto per la morte del principe Sabaudo, che commemorava un altro degno figlio d’Italia. Pasquale Stanislao Mancini era morto nella villa reale di Capodimonte di una lenta malattia, e su quel letto di morte del gran giureconsulto napoletano l’Italia sparse le sue lacrime; lacrime tanto più dolorose perché vedeva ogni giorno assottigliarsi le file dei nobili uomini, che l’avevano salvata, e che avrebbero potuto ancora salvarla, se ce ne fosse stato bisogno.
Il 23 una folla si accalcava alle porte del Gesù: il cardinal Lavigerie, il celebre anti-schiavista vi teneva una conferenza sulla schiavitù, conferenza che commosse l’uditorio, più di quel che forse non fecero le parole che il Papa rivolse ai membri del Sacro Collegio, che gli recavano gli augurii per le feste.
Leone XIII protestò contro quelle leggi dannose agli interessi e alla dignità della Chiesa, quali il nuovo codice penale, la trasformazione del Collegio Asiatico di Napoli, la legge delle opere Pie ecc. ecc.
«Le imprese più meritevoli di essere sostenute per onore dell’umanità e della civiltà, come quella contro la schiavitù, le vediamo sospettate e meno favorite, per questo solo che sono promosse dalla Chiesa e dal Pontefice».
Soggiunse che all’Italia non era indifferente il papato, anzi aveva dato prove di grande devozione nelle dimostrazioni fatte al Pontefice durante l’anno che stava per spirare, e che spirando lasciava le condizioni del papato molto peggiorate.
Si era alla vigilia d’una discussione sui provvedimenti finanziari, quando una delle colonne del gabinetto Crispi venne a mancare. Agostino Magliani si dimise, e questa crisi scosse l’autorità di quel Ministero, poiché chi ne prese il posto, benchè fosse un uomo che rese seri servigi alla patria, non era all’altezza del difficile e doloroso compito di riordinare le finanze, rovinate dagli armamenti. Bernardino Grimaldi abbandonò il portafoglio del Tesoro per quello delle Finanze e fu sostituto dal Perazzi, e i due ministri giurarono nelle mani del Re l’ultimo dell’anno.
Il 1888 era cominciato con una Messa d’oro e fini con un solenne Te Deum, che chiuse l’anno giubilare, e che fu cantato in S. Pietro alla presenza di Leone XIII, della Corte pontificia, del corpo diplomatico, dell’aristocrazia nera, e d’una quantità di monache, preti, seminaristi e pellegrini.