Roma italiana, 1870-1895/Il 1889

Il 1889

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Il 1889.


La chiusura della sessione parlamentare — Il discorso reale inaugurante la nuova — Due Libri Verdi — La rivolta del giorno 8 febbraio — Le interpellanze e il voto di fiducia — La crise ministeriale provocata dai provvedimenti finanziari — Rimpasto ministeriale con gli on. Seismit-Doda, Giolitti e Lacava — Si pone la prima pietra del palazzo di Giustizia — L’esposizione di ceramica — Le prediche di padre Agostino — Il monumento di Giordano Bruno alla Camera e al Consiglio comunale — Le feste per l’inaugurazione — Le ire del Papa — L’enciclica di protesta — Le voci di partenza e le misure del ministro dell’interno — Le discussioni sulla politica estera — La morte del cardinal Massaia e di Benedetto Cairoli — Il viaggio del Re in Puglia — La missione scioana a Roma — Il fallimento della Banca Tiberina — Aiuti insufficienti — Le onoranze a Benedetto Cairoli — Il deficit del bilancio comunale e di quello del piano regolatore — L’inaugurazione della cloaca massima — Il discorso di Crispi a Palermo — Convegni di Sovrani — Le elezioni amministrative — La commissione d’inchiesta sul Comune di Roma — Il nuovo sindaco — La IV sessione parlamentare — La partenza del degiac Makonnen — La morte del cardinale Schiaffino e i pellegrini francesi — Il concorso per il palazzo del Parlamento — Il nuovo quartiere Ludovisi — Opere pie e problema bancario.


L’anno che moriva doveva rimanere memorabile per i grandi avvenimenti europei, e, per noi italiani, soprattutto per quelli dei quali era stato teatro il nostro paese. Il 1889 sorse però tra mille incertezze, e incerti erano i pronostici che si potevano fare di esso, benchè fosse viva la speranza che sarebbe stato in molte cose migliore di quello trascorso.

Esso cominciò, come tutti gli anni, con una serie di ricevimenti ufficiali e di augurii più o meno sinceri.

Per la Befana i deputati ebbero un regalino da Crispi; ma non era un oggetto comprato a piazza Navona, bensì un decreto fabbricato dal Consiglio dei ministri e comparso nelle vetrine, vale a dire nelle pagine della Gazzetta Ufficiale, il 6 gennaio. La 2ª sessione della Camera era chiusa, e con un decreto del 10 gennaio venne convocata la 3ª sessione per il 28.

Questa s’inaugurò con la solita solennità, e il Re pronunziò in quella occasione un discorso pieno di pacifiche e promettenti assicurazioni.

Egli lodò l’opera compiuta dalla Camera nell’anno trascorso, disse che il nuovo codice penale, che unificava la giustizia in Italia, imponeva riforme penitenziarie le quali non solo punissero severamente, ma facessero ravvedere i colpevoli, e annunziò che sarebbe presentata una legge sulle Opere Pie, poichè «i germi della criminalità erano spesso alimentati dalla miseria». Egli annunziò pure una legge sulla colonizzazione interna per «offrire in Italia terre, forse più rimuneratrici di quelle che l’emigrante insegue». Se la miseria materiale doveva essere combattuta, si doveva anche [p. 406 modifica]provvedere a quella intellettuale, ed egli disse che il suo Governo vi avrebbe provveduto con riforme scolastiche, come pure avrebbe provveduto al riordinamento della giustizia e degli istituti d’emissione.

Egli aggiunse che l’Italia con le sue alleanze era elemento di pace, al mondo, e come egli avesse avuto occasione, nel suo ultimo viaggio in parecchie provincie, di vedere quali erano i sentimenti che il popolo nutriva per lui.

Ricordò la visita dell’Imperatore di Germania, aggiungendo che i legami che univano i tedeschi agli italiani ed alla sua famiglia erano segno della pace. «E la pace, lo affermo, sarà da noi mantenuta».

Il discorso fu favorevolmente giudicato e venne a rafforzare le speranze che si nutrivano, per l’avvenire.

Il 31 gennaio era distribuito ai deputati un libro Verde sulla convenzione per la libera navigazione nel canale di Suez, che il 2 febbraio era seguito da un altro sull’Africa.

Questo secondo libro Verde era una relazione dei fatti succedutisi dal 30 maggio 1888 al 2 settembre dello stesso anno. Il 30 maggio e il 1° giugno il governatore Baldissera aveva emanato due decreti: uno imponeva ai proprietari e ai commercianti una tassa mensile, secondo la categoria alla quale sarebbero ascritti, di 2, 3, 5 o 7 lire; l’altro obbligava gli esercenti di trattorie, ristoranti, caffè, cantine, birrerie e liquorerie alla rinnovazione dei permessi d’esercizio, a una tassa d’iscrizione variante dalle 25 alle 50 lire, e ad un’imposta mensile di 2, 4 o 6 lire; e questi due decreti contenevano altresì prescrizioni d’igiene e d’ordine. Erano dunque tasse municipali che il Baldissera imponeva agli abitanti di Massaua, e siccome ne era in pieno diritto, nessuno, pareva, avrebbe dovuto contrastarglielo, giacchè il Governo adempiva a tutti gli obblighi ed aveva tutti gli oneri d’una sovranità; e del resto le proteste sarebbero venute in ritardo, perchè anche prima di questi decreti gli esercenti di Massaua pagavano tasse: il secondo decreto diceva che dovevano rinnovare, e non procurarsi il permesso d’esercizio. Il Governo francese credette opportuno d’intervenire, e il suo ambasciatore presso il Governo italiano, conte de Moüy, protestò il 12 giugno con una nota verbale. L’Italia non rispose e il 24 giunse una nuova protesta del Governo della Repubblica.

Il Crispi rispose che in seguito all’occupazione italiana essendo scomparso ogni dominio musulmano a Massaua, erano perciò cessati tutti i diritti di capitolazione, che il Governo francese invocava nella protesta, ammesso che la capitolazione fosse esistita; ed egli confrontò i diritti di dominio dell’Italia su Massaua con quelli della Francia su Obock.

Nello stesso tempo la Grecia protestò, appoggiandosi sul trattato italo-greco del 1877 a favore dei greci dimoranti a Massaua, ma il Crispi dimostrò al ministro di Grecia l’inopportunità di questa protesta, che non aveva neppure un’apparenza di diritto.

In quel tempo si seppe che i francesi residenti nella colonia non erano che due, e il Governo della repubblica prese allora per pretesto delle sue note la protezione dei greci, protezione che l’Italia non volle riconoscere. Il vice console francese a Massaua si oppose all’effettuazione dei decreti e quasi impose ai francesi e ai greci la resistenza: il Baldissera fece chiudere i negozi dai militari. La questione s’inaspriva, e allora si seppe che il Governo francese aveva sempre fatto comprendere che non cederebbe a Massaua se l’Italia non cedesse a Tunisi.

Le altre nazioni avevano riconosciuti i diritti che l’Italia esercitava, e così il Governo lasciò che le note si succedessero alle proteste e attese con calma che il gabinetto francese si stancasse, e si stancò infatti: poichè l’ultima nota era molto indolente.

[p. 407 modifica]Il 31 si sparse per la capitale la notizia dell’improvvisa morte dell’arciduca Rodolfo, erede del trono austro-ungherese, e la notizia di quella morte commosse la città, ma la commozione fu ben più profonda quando si seppe la tragica fine del Principe e le tragiche cause che l’avevano spinto al suicidio. La Corte sospese i suoi balli, la Camera e il Senato si fecero interpreti dei sentimenti del popolo presso la nazione alleata.

La mattina dell’8 febbraio una commissione d’operai disoccupati, già ricevuta al ministero dell’interno, si recava dal sindaco per interessarlo alla questione operaia. Il Guiccioli, che era stato nominato sindaco effettivo, rispose che il bilancio del comune non gli permetteva di fare promesse, ma che per quanto gli era possibile si sarebbe occupato di loro. La commissione fu soddisfatta, ma non così le centinaia di disoccupati che la attendevano a piazza Cavour.

Al grido di «Viva la rivoluzione!» quei disgraziati dopo aver forzato il ponte di Ripetta percorsero la città armati di bastoni, selci, sbarre di ferro mandando in frantumi i lampioni, sfondando le vetrine, saccheggiando i negozi e ferendo i cittadini, senza che carabinieri nè guardie, sorpresi da quella sommossa, riuscissero ad impedire il minimo danno. La città era costernata, e in preda al pànico rimase per più giorni vedendo tanta rovina, e le interpellanze che piovvero alla presidenza della Camera mostrarono quanto i cittadini non si sapessero spiegare la ingiustificabile condotta del Governo, che non aveva saputo nè prevedere nè soffocare la ribellione. Il Crispi rispose:

«Nessuno più di me deplora gli atti vandalici che hanno tormentato ieri la città di Roma. Le origini ne sono diverse e non tutte pure».

Cercò di giustificare l’opera del Governo; egli disse che esso farebbe il possibile, dentro i limiti della legge, per aiutare a liquidare la crisi; che i colpevoli sarebbero puniti; e poi domandò un voto politico perchè non voleva sfuggire a nessuna responsabilità.

Giudicatemi - disse - e il 16, dopo infiniti discorsi pieni di sfiducia, aggiungeva:

«Combattendo me si vuol combattere non l’uomo ma il sistema, cioè la politica nazionale.... Il dilemma è questo: o merito o non merito la vostra fiducia; decidete».

E la Camera decise con 147 voti di maggioranza che il Crispi rimanesse al suo posto.

La lotta era stata aspra e si inasprì maggiormente nella discussione dei provvedimenti finanziari, tanto che il Crispi, che aveva invocato un nuovo voto di fiducia, il 1° marzo rassegno le dimissioni del suo gabinetto nelle mani del Re.

La crise durò fino al giorno 8. Come durante tutte le crisi fu al Quirinale un andare e venire di deputati e senatori, e fini con un rimpasto ministeriale nel quale al posto del Grimaldi alle finanze entro il Seismit-Doda, al giovane ministero del tesoro il Giolitti, in sostituzione del senatore Perazzi, e al neonato ministero delle poste e telegrafi il Lacava.

Il 14 i Sovrani posero la prima pietra del palazzo di Giustizia, e il 27 essi aprivano la Mostra Nazionale di Ceramica al palazzo delle Belle Arti, e questa mostra riuscì non solo bene ordinata, e importante per tanti tesori di antiche maioliche ivi esposti, ma utile perchè fece conoscere fabbriche fino allora sconosciute, e alcune officine, come quelle del Museo artistico-industriale di Napoli, alle quali era riserbato un glorioso avvenire.

In quella quaresima a San Carlo al Corso predicò padre Agostino e la gente accorreva numerosa a sentirlo, e le sue prediche interessarono i giornali e sollevarono proteste più o meno pacifiche, poichè il 1° aprile veniva fatta esplodere in chiesa una castagnola, che se non ferì nessuno, spaventò peraltro terribilmente gli uditori.

[p. 408 modifica]Il 31 marzo la Camera, su proposta del Presidente, si aggiornò fino al 1° maggio e si riaprì per discutere i bilanci, e continuò la discussione anche in assenza del Presidente del Consiglio, che accompagnò il Re e il Principe a Berlino.

S. M. e S. A. R. partirono il 19 per la Germania e giunsero nella capitale il 21, ricevuti con grandissimo entusiasmo, e rimasero a Berlino fino al 26, sempre festeggiatissimi, occupati in ricevimenti, riviste, pranzi, rappresentazioni all’Opera, concerti, visite, e partirono commossi dell’accoglienza avuta, e della quale non si stancavano di ringraziare tutti i tedeschi che li avvicinavano.

S. E. Crispi tornò il 28, mentre il Re ed il Principe non furono a Roma che il 1° giugno, accolti da una dimostrazione d’affetto veramente degna della capitale.

Già dall’anno prima era stato un affaccendarsi, un discutere del monumento a Giordano Bruno, e ora che ci si avvicinava al giorno dell’inaugurazione le discussioni divenivano più animate, le polemiche più aspre.

L’on. Baccarini domandò al Presidente della Camera se questa sarebbe stata rappresentata all’inaugurazione del monumento al filosofo di Nola, e benchè il Governo non vi prendesse parte ufficialmente, la Camera stabilì di farvisi rappresentare.

Il Sindaco promise pure al Comitato d’intervenire all’inaugurazione, ma questa promessa non piacque al Vespignani, che, la sera del 6, in Consiglio, disse:

«Sono dispiacente di prender la parola sopra una questione che il collega Baccarini qualificò in Parlamento molesta. Ma, pur non entrando nel merito, sento il dovere di biasimare la deliberazione del Sindaco. La quale è una atroce offesa ai sentimenti della maggioranza dei cittadini, costituisce un insulto al Sommo Pontefice, che una legge dichiara inviolabile, conculca quella stessa libertà, in nome della quale si dice inaugurare il monumento».

Protestò a nome dei suoi elettori, e a nome «di quegli stessi elettori, senza l’ingenuo suffragio dei quali, ella, signor marchese, non avrebbe l’onore di appartenere a questo consesso»; disse che il Sindaco avrebbe dovuto essere più circonspetto «dal momento che egli non romano. .....» Guiccioli lo richiamò, con severe parole, a un linguaggio più moderato, e disse che se egli credeva che la Giunta avesse fallato, la legge gli dava maniera di avere soddisfazioni.

Baccelli fu dispiacente che si riaprisse la questione su Giordano Bruno, disse che questa inaugurazione non era un’offesa a nessuno, ma semplicemente un omaggio al libero pensiero. Parlando della romanità di Guiccioli aggiunse: «Le parole romano de Roma sono parole da sagrestia».

Giovagnoli parlò pure in difesa dell’operato del Sindaco, e l’incidente si chiuse, senza che il Vespignani presentasse nessuna mozione.

Il dì 8 luglio giunsero a Roma le rappresentanze delle università italiane ed estere, dei comuni e delle società che avevano aderito all’invito del Comitato per il monumento a Giordano Bruno, e il 9 era solennemente inaugurato questo monumento scolpito da Ettore Ferrari che aveva dato tanto da fare e da dire.

Il corteo, veramente imponente, percorse, partendo dall’Esedra di Termini, via Nazionale, piazza Venezia, via del Plebiscito, il corso Vittorio Emanuele e via dei Baullari, e alle 10.30 giungeva sulla piazza di Campo di Fiori. Alle 11, tra un silenzio religioso, cadeva il lenzuolo che copriva la statua, e un evviva entusiastico esciva dalle bocche dei presenti. L’avv. Basso, rappresentante il Comitato universitario, prese allora la parola per ricordare gli sforzi fatti e le difficoltà superate per erigere quel monumento, che consegnò al Sindaco, dicendo:

[p. 409 modifica]«Custoditela gelosamente, signor sindaco, questa prima pietra miliare che segna il cammino della nuova Roma».

Il Guiccioli rispose che ringraziava il Comitato esecutivo per avere affidato al patriottismo del municipio e del popolo di Roma il monumento a Giordano Bruno. Disse che Roma ha sempre rispettato ed onorato tutto ciò che è stato grande; «e moralmente grande, al di sopra di ogni altro, è colui che offre in olocausto la vita pel trionfo di un ideale», assicurò che Roma custodirebbe con cura gelosa quel monumento «che afferma il trionfo della libertà di coscienza ed esalta la sublime virtù del sacrificio».

Dopo il Guiccioli parlarono il sindaco di Nola e l’on Bovio, che fu spesso e giustamente interrotto da frenetici applausi.

Le feste si compierono senza incidenti, ma ai preti non andava giù questa esaltazione del loro eretico, e protestavano in mille maniere, e se la protesta ufficiale non era ancora uscita dal Vaticano, non doveva tardare e non tardò infatti. Il 30 giugno, Leone XIII, radunato il Sacro Collegio a segreto concistoro, comunicava ai cardinali un’enciclica alla cattolicità in protesta delle recenti e solenni dimostrazioni per Giordano Bruno.

Il Pontefice disse che dopo la presa di Roma il papato e la fede erano stati spesse volte oltraggiati, ma non mai come in quei giorni, nei quali si voleva imporre a Roma un primato d’empietà. Egli aveva veduto, come segnale di questa guerra, inalzare un monumento ad un uomo eretico ed impenitente, e che non ebbe nessuna qualità. Leone XIII si scagliò contro il Governo, rimproverandolo non soltanto d’avere permesso le feste, ma di avervi preso parte. Egli sentiva l’obbligo di denunciare al mondo l’oltraggio fatto a Roma e al cristianesimo, e lo faceva per la dignità del Pontefice e per quella inseparabile dell’Italia. Disse di poter mostrare a che cosa fossero ridotte le garanzie di coloro che un giorno promettevano al Papa venerazione, e che il giorno dopo minacciavano la sua stessa persona esponendola a pericoli, poichè l’autorità accusavalo pubblicamente d’esser nemico dell’Italia. A questo spettacolo sarebbe venuta meno la sua forza s’egli non fosse sicuro della protezione del cielo, ed esortò i cattolici tutti ad essergli fedeli, a difenderlo, ad esser pronti a qualunque sacrificio, ed a pregare Iddio perchè rimettesse le ingiurie fatte alla Chiesa, e desse luce e salute.

In giugno Roma era stata minacciata da una crise municipale, causata da un voto del Consiglio sulla tassa d’esercizio che la Giunta aveva proposta per colmare il disavanzo: fortunatamente si riusci a far desistere quei signori dal loro proposito e la crise fu scongiurata.

Il 1° luglio la Gazzetta Ufficiale pubblicava il Codice Penale, e il Re si rallegrava vivamente con l’on. Zanardelli per l’opera da lui compiuta.

Il 2 la direzione delle strade ferrate mediterranee faceva por mano ai lavori della stazione di Trastevere, che doveva aprire una via all’industrie della capitale.

Si ebbe in quel tempo a deplorare una grave perdita per l’arte. Morì Eugenio Terziani, l’autore dell’Assedio di Firenze, della messa per Vittorio Emanuele e del popolarissimo Libera me. Ogni classe di cittadini dimostrò rimpianto per quella perdita.

Nel mese di luglio fu un gran parlare della partenza del Papa da Roma e dall’Italia, cosa molto probabile dopo questa enciclica, e dopo quell’atteggiamento a vittima, che aveva preso da vanti al mondo cattolico; e il Crispi credeva possibile questa nuova Avignone, e, per smentire le voci che correvano nel mondo intransigente, e per mostrare al Papa stesso come l’Italia lo rispettasse e non fosse mai venuta meno alle guarentigie promesse, egli dispose un servizio di vigilanza per [p. 410 modifica]impedire che Leone XIII entrasse in terra italiana, come sarebbe entrato varcando le porte del Vaticano, senza gli onori dovuti alla sua persona. A tutti gli sbocchi del palazzo pontificio il ministro dell’interno faceva stare in permanenza, giorno e notte, alcune carrozze di piazza, a disposizione d’ispettori di pubblica sicurezza, per esser subito informato della partenza di Leone XIII. Era una cuccagna per i vetturini, che avevano 20 lire il giorno. Ma il Papa, come era del resto da prevedersi e, a malgrado delle voci sparse, non partì, e il Governo non ebbe il bisogno di rendergli nessun onore.

Il 9 luglio Cavallotti interpellava il Crispi sui rapporti dell’Italia con alcune potenze, ed era spinto a chiedere schiarimenti da vari incidenti internazionali, che erano venuti a turbare il chiaro orizzonte della politica estera: il trabaccolo Isla era stato assalito da doganieri austriaci; una barca peschereccia era stata catturata da agenti tunisini; la polizia austriaca aveva arrestati alcuni italiani; e le autorità austriache avevano impedito agli italiani di recarsi a Riva.

Il Presidente del Consiglio rispose con un elevato discorso, mostrando come alcuni, facendo quello che avevano fatto, ne avevano pieno diritto, spiegando gli abusi degli altri, e dicendo che le soddisfazioni, ove a soddisfazioni l’Italia aveva diritto, o erano già state date, o si attendevano con sicurezza.

La Camera approvò e andò allegramente in vacanza, non prevedendo, forse, neppur per idea il decreto di chiusura della sessione, che era presentato all’approvazione del Re, e che compariva nella Gazzetta Ufficiale il 2 agosto, e nel quale si voleva vedere un preludio di scioglimento.

Il caldo soffocante, il bisogno di fresco e d’ombra influì sulle decisioni della Giunta, che approvò il progetto Lionotte per l’impianto d’un pubblico giardino al Quirinale, giardino del quale non si vide quasi traccia fino al 93, in occasione delle Nozze d’Argento dei Sovrani, quando si giudicò cosa indecente che gli appartamenti degli Imperiali di Germania aprissero su quell’incolto sterrato.

Nei primi giorni d’agosto due grandi lutti colpirono la Chiesa e lo Stato: il 6 spirava a Napoli nella villa Amirante a San Giorgio a Cremano, il cardinal Massaia, il missionario dei Galla, e la chiesa pianse quel valoroso campione che moriva vittima della sua abnegazione.

Il 9 alle 7 e un quarto, l’ultimo superstite di quei generosi fratelli che avevano combattuto da un estremo all’altro dell’Italia, Benedetto Cairoli, l’insigne uomo che aveva valorosamente pugnato non solo in guerra, ma anche nelle più difficili battaglie della politica, cessava di vivere in una ridente villa di Capodimonte. Il lutto dell’Italia fu profondo, e davanti al feretro di quel grande i suoi nemici piansero, e le più disparate idee trovarono un punto d’accordo in quel dolore.

Il 12 il Re e il Principe ereditario lasciarono Monza per recarsi alla Spezia, ove s’imbarcarono sul yackt reale Savoia, per fare un giro nel Mediterraneo, giro che aveva per meta una visita nelle Puglie. Scortato dalle regie navi Italia, Vesuvio, Elia, Duilio, Goilo, e Bausan, il Savoia salpò il 15 dalla Spezia per la Maddalena, ove il Re e il Principe visitarono le fortificazioni, e d’onde andarono a Caprera per vedere la casa di Garibaldi.

Il 18 mattina, il Savoia entrava nel porto di Napoli, che abbandonava poi il 20, facendo rotta per Taranto.

Alle 8,30 del 21, fra le salve dei cannoni delle navi ancorate nel porto di Taranto, salutato dagli urrà dei marinari, il Savoia entrava nel Mar Piccolo, ove nel dopo pranzo era inaugurato il ponte girante Margherita.

Il Re e il Principe, coi ministri Crispi, Brin e Lacava, rimasero a Taranto fino al 22, giorno nel quale partirono per Lecce, e di là si recarono a Brindisi e a Bari, che lasciarono il 25 diretti a Roma.

Il 20 luglio partivano dall’Harrar il Degiac Makonnen con suo nipote Fituarari Barritù, l’Abba [p. 411 modifica]Rada, il Barambaras Gananė, il Bascia Caule, il Grasmai Desalaga con un seguito d’una trentina di persone, tutti inviati in missione presso S. Maestà il Re d’Italia dal Negus Menelick. La missione era accompagnata dal conte Antonelli e s’imbarcò nella rada di Zeila sul Cristoforo Colombo, che giunse in Napoli il 21 agosto.

Gli Scioani non arrivarono a Roma altro che il 26, e alla capitale furono ricevuti dalle autorità con gli onori dovuti ai principi reali. Ad essi fu destinata come dimora la Villa Mirafiori sulla via Nomentana, dove moltissima gente andava a visitarli e dove gl’inviati di Menelick fecero molto onore allo Champagne francese e italiano. Il popolo non prendeva sul serio quegli ambasciatori del re Menelick e per via li seguiva sempre con i suoi motteggi.

Il giorno stesso del suo arrivo, Makonnen con un pensiero doppiamente delicato si recava a Campo Verano a pregare sulla tomba del martire dei suoi paesi tropicali, del Massaia, e su quella del padre del suo amico, del conte Antonelli, morto due o tre giorni prima, al figlio del quale egli forse capiva, che l’Abissinia tutta doveva, in gran parte, la pace e la tranquillità, delle quali godeva e delle quali egli, Makonnen, veniva a ringraziare Umberto I, e a pregarlo di conservarle.

Makonnen visitò pure la tomba di Vittorio Emanuele II e, a nome suo e degli altri componenti la missione, vi depose una bellissima corona di fiori freschi.

Il Re era giunto, insieme col principe di Napoli il 27, e il domani riceveva in solenne udienza la Missione scioana, che gli recò splendidi doni.

Il Re era seduto sul trono, circondato dai ministri e dai dignitari, quando il Degiac col seguito entrò nella sala e si prostrò tre volte davanti a lui, secondo l’uso orientale. Il Re scese i gradini del trono e stese la mano all’ambasciatore, che in amarico disse:

«S. M. il Re d’Etiopia mi ha incaricato di presentare alla Maestà Vostra l’espressione dei suoi sentimenti d’amicizia.

Il mio re, ora padrone di tutta l’Etiopia, vuole mantenere col governo della Maestà Vostra i mi-. gliori rapporti, e perchè questi siano immutabili, firmò un trattato d’amicizia e di commercio.

A nome del mio re domando alla maestà Vostra l’alta sua protezione perchè in avvenire la pace e la sua tranquillità regnino in Etiopia e nei vicini possedimenti italiani.».

Il Re d’Italia gli rispose in Italiano:

«Ho udito con grande soddisfazione le vostre parole e lo ho intese. Sono lieto di sapere il vostro re padrone ormai di tutta l’Etiopia. Già siamo da lunghi anni amici fedeli e tali rimarremo. Di ciò sono garanti il trattato stipulato per il bene comune dei due paesi e la protezione che io ed il mio governo concediamo al vostro paese, di cui desideriamo sinceramente la prosperità e la pace».

Dopo le presentazioni d’uso e dopo un rinfresco, la missione lasciò il Quirinale per recarsi alla Consulta, ove fu ricevuta da Francesco Crispi. Il 28 gli Scioani partirono per il campo di Somma per assistere alle manovre, e poi visitarono Milano, Venezia, Bologna, Genova e quasi tutte le città del nord, e il 13 di settembre andavano a Monza ad ossequiare i Sovrani e quindi, dopo essersi fermati in qualche altra città, tornavano a Roma.

Il 27 la Banca Tiberina sospese i pagamenti, e, benchè la notizia non fosse inaspettata, dopo, la terribile crise nella quale si dibatteva Torino, destò una profonda impressione a Roma, che vide l’obbligo che sarebbe sorto di cessar gran parte dei lavori, poichè la Banca Tiberina ne era una delle principali assuntrici.

Il Governo e la Banca Nazionale, che avevano già aiutato, e aiutavano moralmente e [p. 412 modifica]materialmente Torino, si trovarono in dovere di dare una mano soccorritrice alla Banca Tiberina perchè la sospensione dei pagamenti non si convertisse in fallimento, che avrebbe distrutto la già rovinata finanza della capitale.

Il Consiglio della Banca Nazionale nominava una commissione composta dei signori Geisser, Cilento e Simonetti affinchè studiasse le condizioni della Tiberina e giudicasse se la Banca Nazionale poteva assisterla senza compromettere i suoi capitali.

La commissione, nominata il 30 agosto, terminava i suoi lavori il 5 settembre, e, dopo essersi anche messa d’accordo col Governo, riferiva al Consiglio che esistevano alla Tiberina più di 53 milioni di garanzie ipotecarie e che il patrimonio della Banca, valutato è vero a prezzi molto inferiori di quelli in commercio, ammontava a L. 10,000,000. Il Consiglio deliberò di venire in aiuto della Tiberina con 30 milioni.

Ogni gioia della Casa di Savoia è stata sempre una gioia del popolo, e Torino che più d’ogni altra città è legata da antichi e saldi vincoli alla Dinastia, fu rallegrata dopo i tanti e recenti dolori da una festa di famiglia. Il 22 giugno la duchessa Letizia d’Aosta aveva dato alla luce un principino; e il 7 settembre il cardinal Alimonda, nella cappella del palazzo della Cisterna, battezzò il piccolo conte di Salemi coi nomi di Umberto, Maria, Amedeo in presenza di quasi tutta la famiglia riunita da una così dolce circostanza.

«La Grecia ebbe i suoi Leonida, Roma i suoi Fabj, noi dall’alto del Campidoglio, ripeteremo alle genti — con una parola di un grande defunto — che abbiamo i nostri Cairoli»,

Cosi diceva il manifesto che era pubblicato dal Comitato per le onoranze a Benedetto Cairoli; e se la Grecia celebrò i suoi Leonida, se l’Urbs quasi innalzò altari ai suoi Fabj, la Roma moderna non fu da meno di loro, e il di 8 settembre, riuniti da un sacro ricordo, popolo e autorità resero solenni onori al defunto eroe e alla famiglia di lui.

Il 13 settembre la capitale con l’Italia intera si commoveva all’annunzio dell’attentato di Emilio Caporali contro Francesco Crispi, e si univa all’Italia e all’Europa facendo pervenire all’illustre uomo, nella villa del Rione Amedeo a Napoli, i rallegramenti per lo scampato pericolo e gli augurii per la pronta guarigione.

La crise romana ebbe tra le tante vittime il Comune che nel bilancio 1890, distribuito al Consiglio il 14 settembre, aveva un deficit di L. 6,121,466, principalmente causato dall’accrescimento degli oneri patrimoniali, dalle spese scolastiche e dalla diminuzione degli introiti del dazio-consumo, sintomo evidente delle tristi condizioni della capitale.

Questo disavanzo, circa un terzo, la Giunta proponeva fosse colmato da nuove tasse, che era certa che i cittadini non avrebbero rifiutato di pagare, visto lo scopo patriottico al quale miravano, e il resto da operazioni finanziarie.

I provvedimenti se non fecero buona impressione però furono giudicati necessari e rispondenti in gran parte ai bisogni: tutti capivano che per rifornire le esauste casse del Comune non c’erano che nuove tasse, e la Giunta proponendole si era anzi mostrata abbastanza parca.

Questo però non fu il giudizio del Consiglio, che respinse l’8 ottobre i provvedimenti con 17 voti contro 17.

Il bilancio del Piano-Regolatore non ebbe, quell’anno, nulla da invidiare a quello del Comune, e si chiudeva con un disavanzo di L. 11,849,435; e questo deficit si sarebbe potuto colmare vendendo i terreni municipali, ma la Giunta, con giustezza osservò, che il rimedio sarebbe stato [p. 413 modifica]peggiore del male, perché si mettevano sul mercato terreni edificatorii, mentre ce ne erano già tant i e mancavano i mezzi per edificare.

Il 7 la stampa fu invitata dall’ingegner Narducci, che aveva tracciato e diretto i lavori, a visitare quel tratto della Cloaca Massima, ch’egli dopo lunghe e pazienti ricerche e superando grandissime difficoltà era riuscito a porre alla luce. E tutti lodarono l’opera dell’egregio ingegnere.

S. E. Crispi pronunziava il 14 a Palermo all’«Hòtel des Palmes» un discorso politico, nel quale egli parlò delle lotte che aveva dovuto sostenere durante i due anni di governo, delle riforme amministrative che avevano già portato i loro benefici frutti, del codice Zanardelli che dava l’unificazione penale all’Italia, dell’istruzione per la quale il suo gabinetto si era tanto adoperato, della beneficenza nella quale aveva apportato tanti miglioramenti, specialmente per quel che riguardava gli infortunii sul lavoro e l’infanzia diseredata, delle opere pie, dei lavori pubblici, delle relazioni fra Stato e Chiesa; disse che il Governo in nome della libertà aveva assicurato alla Chiesa l’esercizio costantemente completo dei suoi attributi religiosi e da Roma il Capo della Cattolicità parlava liberamente ai suoi fedeli, e provvedeva agli interessi del regime universale. Che sua sola cura era stata che il diritto ecclesiastico non invadesse il campo del diritto nazionale. Da qui provvedimenti legislativi men duri, del resto che in qualunque altro Stato cattolico; da qui la libertà lasciata, come al cattolicismo, ad ogni altro principio intellettuale. «Che se vi fu anche in tempi recenti, chi consenti a farsi in Roma carceriere degli italiani, non potrebbe l’Italia senza esser rea di suicidio, farsi in Roma carceriera della coscienza».

Egli parlo dei partiti politici, dell’esercito, della crise agricola, delle finanze, difendendo l’opera del suo gabinetto; mostrò la situazione dell’Italia in Africa e lo scopo pacifico delle alleanze, e concluse, bevendo:

«A questa Italia, cui tutta una dinastia di Principi valorosi, tutto un popolo di liberi cittadini, un passato di dolori, un presente di lavoro aprono, sicuro, l’avvenire».

Negli ultimi mesi non era stato altro che un succedersi di convegni tra Sovrani e tra principi. L’Imperatore di Germania, che aveva figurato in parecchi di essi, alla fine di ottobre si recava a Monza assieme con l’Imperatrice a far visita ai Sovrani d’Italia. La morte del re di Portogallo, avvenuta poche ore prima dell’arrivo di Guglielmo e di Vittoria, poneva in grave lutto la Corte, e faceva sì che gli Imperiali di Germania non si trattenessero nella villa reale altro che un giorno. Il Re e il Principe accompagnarono le LL. MM. Imperiali a Genova ove queste s’imbarcarono per la Grecia, poichè andavano in Atene per assistere al matrimonio della principessa Sofia di Prussia col Duca di Sparta, e dopo si recarono in Turchia. Dalla Turchia la coppia imperiale tornò il 12 novembre in Italia, e mentre l’Imperatrice visitava Venezia, l’Imperatore faceva una corsa a Monza, e di là partiva per Verona per raggiungervi l’augusta consorte.

Il 10 novembre ebbero luogo a Roma le elezioni amministrative: il concorso alle urne riusci meschinissimo e gli eletti furono 41 comuni alla lista del Comitato Monarchico e a quella del Comitato dei sette savi della Grecia, come si chiamava il Comitato Centrale, 23 della lista monarchica e 23 di quella Centrale. L’Unione Romana si era astenuta dal prender parte alle elezioni perché «la lotta fu portata da ogni parte nel campo politico».

Mentre il popolo correva alle urne, e in tutti era la speranza che la nuova amministrazione avrebbe saputo in modo efficace riordinare le finanze del Comune, un Decreto Reale, pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale il 9 a tarda ora, indiceva una inchiesta amministrativa del Governo [p. 414 modifica]sul Comune di Roma. L’impressione che questo decreto produsse fu poco favorevole a tutti; amici e nemici del Ministero lo giudicarono un atto impolitico alla vigilia delle elezioni.

Dai voti del nuovo Consiglio Comunale riuscì eletto il comm. Armellini, ma egli, al pari della Giunta, sapeva bene che l’opera sua era paralizzata dalle condizioni anormali di Roma e sentiva sul capo la minaccia di uno scioglimento del Consiglio.

Il 21 novembre i Sovrani tornarono a Roma, e il 25 era solennemente aperta la IV sessione parlamentare. Il Re pronunziò un discorso abbastanza ottimista nel quale disse che l’opera della unità e delle libertà nazionali era grandemente consolidata, che l’Italia aveva fatto in 30 anni quello che presso gli altri popoli era stato opera di secoli. Egli parlò del commercio, e dell’industria, che miglioravano, poiché il paese usciva lentamente da una terribile crise. Accenno alle alleanze e alla pace, che sperava sarebbe pure mantenuta in Africa, in quel nero continente nel quale l’Italia, insieme con le altre nazioni, combatteva per estinguere quel vergognoso commercio degli schiavi, e terminò confidando nel senno della Camera.

Dopo le solite formalità e le elezioni della presidenza e degli uffici, la Camera cominciò le discussioni.

Il 27 Degiac Mackonnen era ricevuto in udienza di congedo dalle LL. MM. e il 2 dicembre si recava a Napoli per imbarcarsi. Makonnen portava nel suo bagaglio il famoso trattato di Uccialli ratificato a Monza dal Re e dall’on. Crispi. Accompagnavano il Degiac il conte Antonelli, il Salimbeni il dottor Nerazzini.

Nell’autunno era morto il cardinale Schiaffino a Subiaco, uno dei cardinali creduti papabili; ma il dolore che questa perdita procurò a Leone XIII fu lenita dall’arrivo di numerosissimi pellegrinaggi francesi.

Al palazzo delle Belle Arti furono esposti 49 bozzetti per il concorso del palazzo del parlamento. Nessuno fu riconosciuto degno di venire eseguito. Ai cinque migliori che erano quelli del Moretti, Bruggi, Sommaruga, Quaglia e Benvenuti, e Basile e Ristori venne assegnato un premio di 5000 lire; ai due del Manfredi e Magni, e Giampietro una menzione onorevole.

La Camera prese in esame il faticoso disegno di legge sulle Opere Pie e un altro egualmente arduo le s’imponeva; quello della riforma bancaria. Già le era stata presentata la proposta governativa per l’abolizione dei dazi differenziali con la Francia e nel vicino paese quella proposta aveva prodotto buon effetto.

Ma la rendita continuava il suo cammino discendente, e l’aggio saliva.

Un nuovo quartiere di Roma s’inaugurava avanti che il 1889 spirasse. Era il quartiere Ludovisi, costruito in gran parte a cura della Società Immobiliare. Mancavano peraltro fogne e marciapiedi, e il Comune non poteva mostrarsi sollecito ad intraprenderne la costruzione.

L’anno passato tristamente e dolorosamente, finiva più tristamente e dolorosamente di quel che era cominciato, e le speranze di tutti erano rivolte verso quello che sorgeva, e che tutti si auguravano migliore.