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schiacciare, si affollava attorno alla carrozza, per esprimergli da vicino il sentimento che l’animava.
Erano nella carrozza del Re il presidente del Consiglio, Lanza, il sindaco, principe Pallavicini e il primo aiutante di campo, generale De Sonnaz. Nelle altre carrozze di corte erano i ministri e le case civili e militari del Re. I corazzieri e la guardia nazionale a cavallo facevano scorta d’onore. Man mano che la carrozza reale passava, scoppiavano, dalle finestre gremite di gente, dal popolo stipato per le vie, grida frenetiche; tutti agitavano fazzoletti e cappelli, tutti gettavano fiori.
Giunto al Quirinale, l’ovazione raddoppiò. Il Re comparve una prima volta al terrazzo solo, una seconda col principe Umberto.
Dopo il ricevimento ufficiale dei ministri, delle presidenze dei due rami del Parlamento, del municipio, il Re entrò nel suo quartiere, che era al pianterreno del palazzo.
Alle 5 1/2 Vittorio Emanuele andava a inaugurare il tiro a segno all’Acqua Acetosa, dove era stato eretto un arco trionfale, e un padiglione. Il Re aveva la solita scorta, e allo sportello della carrozza di mezza gala, attaccata alla «Daumont», galoppava il marchese Pier Luigi Corsini di Laiatico, Scudiere di Sua Maestà.
Giunto sul campo, egli volle che il principe Pallavicini fosse il primo a tirare, poi prese il fucile e al secondo colpo colse nel cerchio bianco del bersaglio; la bandiera si alzò e scoppiarono applausi lunghi. Quindi il Re tirò al bersaglio mobile, che era un piccolo cinghiale, e lo colpi tutte e due le volte nelle gambe pasteriori.
La sera Roma pareva avvolta in un incendio. Le stelle d’Italia non si contavano più, per tutto festoni, palloncini, fiori, bandiere. In Trastevere poi la festa era grandiosa.
Il Re vide una parte dell’illuminazione andando all’«Apollo» ove la Fricci cantava la Norma, ma dello spettacolo nessuno si occupò, tutti aspettavano il Re, e lo accolsero con nuovo entusiasmo. Quando usci dal teatro, attraversando il Corso, lo aspettava una nuova dimostrazione.
Quella sera all’«Apollo» i ministri esteri che avevano assistito al pranzo del Quirinale, fecero la loro prima comparsa. Vi era il conte Brassier de Saint-Simon, ministro di Germania, Photiades Bey, ministro della Sublime Porta, il marchese di Montemar, ministro di Spagna, il Barone d’Uxkull, ministro di Russia, Sir Augustus Paget, ministro d’Inghilterra, i ministri di Portogallo, di Olanda, del Brasile, di Baviera e quello degli Stati Uniti d’America, che era il signor Marsh, che aveva preso stanza al villino Orsini; il ministro d’Austria, barone di Kübeck, giungeva il giorno dopo.
Per Roma, in quel primo giorno di esultanza, non si faceva altro che ripetere le parole del Re. Egli aveva detto alla Giunta: «Se avessi saputo che mi avevano preparato una così bella accoglienza, sarei entrato a Roma a cavallo». Parlando ai sindaci pronunziò quelle memorabili parole, che in bocca sua avevano il valore di un giuramento: «A Roma ci siamo e ci resteremo!» poi volgendosi al conte Rignon, sindaco di Torino, aggiunse: «Ora Torino sarà contenta».
Nell’accogliere la deputazione della Camera e del Senato, il Re si espresse cosi: «Signori, sono lieto di trovarmi con voi a Roma; i destini d’Italia sono compiuti, e nell’ottenere questo grande resultato certo ho concorso per la mia parte, ma anche i miei sforzi sarebbero stati inefficaci se non fossi stato costantemente sorretto dall’appoggio del Parlamento. Ora, signori, dobbiamo conservare quello che si è acquistato con tante fatiche e con tanti sacrifici; ma questo, o signori, confido di poterlo ottenere facilmente, quando l’appoggio vostro non mi venga meno».
La mattina del 3, il Re riceveva una deputazione della R. Università romana, composta del