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rettore, che era allora il Carlucci, del Ponzi, del Maggiorani, dell’Alibrandi, dello Spezzi, del Ratti, del Volpicelli e del canonico Audisio. Vittorio Emanuele fece con loro una specie di sfogo, dicendo che il venire a Roma gli era costato molte difficoltà, e dichiarò di essersi sempre mostrato deferente e cortese col Papa, ma che aveva ricevuto sempre ingrate ripulse alle sue gentili offerte. Parlo pure del dogma dell’infallibilità e aggiunse che la promulgazione di quel dogma, al quale non poteva consentire, aveva alienato dal Papa le persone intelligenti.
Il giorno doveva esservi e vi fu la grande rivista, con sosta del Re in un padiglione in piazza del Popolo, attorno al quale, in tanti quadri eseguiti dai migliori artisti romani, erano raffigurati i fasti del regno di Vittorio Emanuele. L’idea era sorta quando il Re, sulla fine dell’anno precedente, doveva entrare in Roma ufficialmente. I quadri furono ultimati e messi a posto, ma un vento impetuoso ne stracciò alcuni nella notte e danneggiò il palco reale, che dovette essere coperto da una tenda. Ai fianchi di questo vi erano le tribune per il corpo diplomatico e per i senatori e deputati. Il Re salì a cavallo al Pincio, scese al Babbuino, e dopo la rivista si collocò fra i cancelli del Pincio. Quando le logore bandiere che avevano sventolato sui campi di battaglia dell’indipendenza si abbassavano davanti a Vittorio Emanuele, il popolo scoppiava in grida ed in applausi; la vista dei bersaglieri e del loro comandante Pinelli, che era a Porta Pia il 20 settembre, e che tutti conoscevano, aumentò l’entusiasmo delle 30,000 persone pigiate sulla piazza. Il Re, dai soldati, riportava l’occhio sulla folla stipata, e quell’occhio brillava di compiacenza. Dopo la rivista, nuova dimostrazione popolare al Quirinale, guidata da Guglielmo Castellani, dal Polidori, dal D’Ormeville, dal Mascetti e dal Di Mauro. Castellani portava il magnifico stendardo donato da Roma al Re, e attorno a quello ve ne erano altri cento. La dimostrazione, nel passare sotto l’Albergo di Roma, applaude a Firenze e a Torino, perché in quell’albergo erano alloggiati il Peruzzi e il conte Rignon, poi corre al Quirinale, e le grida sono cosi forti e insistenti, che il Re deve affacciarsi. Allora sull’obelisco si accende la stella d’Italia; lo spettacolo è grandioso.
Quella sera stessa il Re assisté al ballo al Campidoglio, e dopo partì per Firenze, sbalordito dall’accoglienza, superbo di sentire che Roma e l’Italia valutavano quanto egli aveva fatto per renderle alla libertà.
Vittorio Emanuele non aveva, nella sua prima visita a Roma, dimenticato i miseri. Egli, non potendo, per la ristrettezza del tempo, andare all’ospedale militare di S. Spirito, vi aveva inviato il generale Pralormo, con ordine di interrogare i malati e di dar loro un soccorso, e al sindaco aveva mandato una oblazione per gli asili.
Se il Re era veramente commosso per la dimostrazione di Roma, il popolo era veramente pago di essersi dato a lui. Sentiva finalmente che i suoi destini erano affidati ad un soldato glorioso, ad un Re che manteneva ciò che prometteva.
Larga fu la distribuzione di onorificenze per la venuta del Re. Il generale Lipari, comandante la guardia nazionale, la quale aveva fatto un servizio ammirabile, ebbe la commenda della Corona d’Italia; il sindaco, principe Pallavicini, le insegne di grande ufficiale dell’ordine mauriziano; quelle di ufficiale Biagio Placidi, e quelle di cavaliere don Bosio Cesarini, il principe Ginetti e il conte Pandolfi, ufficiali dello squadrone della guardia nazionale a cavallo.
Anche per la venuta del Re non mancarono i pettegolezzi. Proclive, Pio IX al pettegolezzo aveva assuefatto Roma a pascersene, e anche chiuso nel Vaticano lo alimentava. Di là partì quello a proposito della visita dell’Alibrandi in Vaticano, insieme con i fedeli, mentre era stato un’ora prima al Quirinale, insieme con i professori scomunicati dell’Università. Due giorni dopo, l’Alibrandi si