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a disposizione del Papa, issò gala di bandiere il giorno dello Statuto e pose al posto d’onore quella italiana. L’ufficialità scese a terra, prese parte alla festa nazionale insieme con le autorità.
Il giorno dopo della festa dello Statuto i Principi di Piemonte partivano da Roma, salutati calorosamente dal patriziato e dalla cittadinanza romana. Nel loro soggiorno a Roma, essi avevano saputo gettar le basi di quella simpatia, che è andata sempre crescendo con gli anni.
Poco dopo la partenza della giovine coppia, ecco che nuove difficoltà incominciano per il Governo italiano. Il Papa, punto nella sua vanità vedendosi sfuggire un simulacro di poter temporale, permetteva si festeggiasse con grande solennità il suo giubileo papale, che ricorreva il 16 giugno, per aver la soddisfazione di ricevere condoglianze e voti da migliaia di cattolici. Questo fatto poteva parere ai romani una provocazione e forse era di fatto, dato il carattere di Pio IX, ma non fu raccolta. Tutti i liberali, dai monarchici ai repubblicani, dal Circolo Cavour a quello Romano, seppero, d’accordo col municipio e col Governo, imporre la calma. I pellegrini vennero a Roma, poterono assistere a tutte le funzioni e non furono nè molestati, nè insultati, e l’Europa capì che il Papa poteva perfettamente esercitare il suo alto ministero sotto l’egida del Governo italiano. Non vi fu altro che una tacita dimostrazione di bandiere il giorno dopo il giubileo. Roma se ne copri tutti. Un giovine inglese, il signor Noel, venuto in pellegrinaggio, fu dispiacente di vedere sventolare i colori italiani dal balcone del suo quartiere all’Albergo d’Inghilterra e fece togliere la bandiera. Il popolo se ne accorse e la richiese; il giovane allora si affacciò gridando: «Viva Pio IX!» e pronunziando parole ingiuriose per il Re. Forse l’ira avrebbe vinto il popolo, se le guardie nazionali non fossero riuscite a vincerne il risentimento.
Il Re aveva mandato il generale Bertolè Viale a portare le sue congratulazioni al Papa. Il generale e il suo aiutante di campo furono ricevuti dal cardinale Antonelli, al quale il Bertolè chiese l’udienza papale. Gli fu negata adducendo che il Pontefice era stanco.
Il 2 luglio finalmente il Re giungeva e trasportava qui la sede della Capitale. Veniva da Napoli e arrivò circa le 12 1/2. Le truppe erano sotto gli ordini del Principe ereditario, schierate in piazza di Termini, in piazza e via Santa Susanna, in piazza Barberini, via del Tritone, Due Macelli, via Condotti, Corso, via Muratte, Fontana di Trevi, via San Vincenzo e Anastasio e salita della Dateria. Il Re era stato preceduto dai sindaci di tutte le principali città d’Italia, dai Ministri, dagli ambasciatori delle potenze estere, dalle presidenze della Camera e del Senato, dai battaglioni di guardia nazionale di Civitavecchia, Viterbo, Frosinone e Velletri.
Il municipio di Roma aveva voluto dare molta solennità all’insediamento della Capitale. Per commemorare quell’avvenimento aveva creato due nuovi asili infantili, intitolandoli col nome del Re e del Principe Ereditario, e una sala di allattamento, che fu chiamata da Margherita di Savoia. Riconoscente a Firenze, che aveva con sì nobile abnegazione festeggiato il plebiscito romano, aveva inoltre addobbato con gigli fiorentini la sala reale alla stazione, e il sindaco Peruzzi ebbe ovunque nei festeggiamenti, brevi, ma splendidi, un posto d’onore.
Il principe Umberto andò a cavallo alla stazione a ricevere il padre. Il viaggio del Re da Napoli a Roma era stato un’ovazione continuata, qui fu una festa unica. Appena Vittorio Emanuele fu sceso dal vagone, e mentre stringeva la mano al figlio, gli si avvicinò una bella bimba, Elvira Sinimberghi, e presentandogli una corona d’alloro, gli disse: «Prendi, o Re galantuomo, la corona d’alloro che tanto ti sei meritata».
Fu quello il segnale delle ovazioni, e quel grido di «Re galantuomo» Vittorio Emanuele l’udì ripetere migliaia e migliaia di volte per via, mentre la gente, con pericolo di farsi