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bino, sotto la direzione del duca di Fiano, tanto si adoprava; mentre don Baldassarre Odescalchi e il clericale principe don Filippo Orsini, che avevano il loro quartiere generale al palazzo di Monte Savello, non riposavano un momento; e il conte Guido di Carpegna faceva prodigi nel rione Campitelli; e il duca Sforza-Cesarini e don Ignazio di Venosa guidavano i militi della guardia nazionale ove maggiore era il bisogno. A Campitelli, il coadiutore del conte di Carpegna, era quel tale cappuccino di Palestrina, vestito di abiti civili, il quale soccorse i feriti il giorno della breccia.
E i cittadini facevano pure a gara a sollevare gli sventurati e ad essi si univa tutta l’Italia. Liste di offerte circolavano per Roma, e tutti i Comuni del Regno inviarono l’obolo loro. Il marchese Marignoli donò 5000 lire, il signor Costanzi 2000; il principe Torlonia, non solo metteva la sua bella barca dorata a servizio degli inondati, ma esercitava largamente la carità; anche i poveri cappuccini di piazza Barberini davano 100 lire; e il principe Doria aveva impedito che il Re vedesse la maggiore miseria di Roma! Il Governo faceva pressione sull’assessore anziano perché accettasse l’ufficio di sindaco, ma egli ricusava, sapendo che non era ben visto. E cosi, per quell’incidente della inondazione, Roma non ebbe sindaco fino al mese di aprile, quando finalmente fu nominato il principe Pallavicini.
Ma il principe Doria ne aveva fatta un’altra grossa: egli aveva trasmesso 20,000 lire a nome della Giunta al generale Cosenz, per essere erogate a beneficio dei soldati che si erano prestati in quei giorni. Il Cosenz rifiutò; l’assessore anziano si ebbe dalla stampa acerbo biasimo per quell’atto che provava una mancanza di tatto, tatto che non si poteva esigere in un principe romano, il quale non aveva idea che cosa fosse un esercito nazionale. Anche le lesinerie per non voler pagare gli artisti e gli artefici, i quali avevano lavorato per preparare le feste per la venuta del Re, furono nuovo motivo d’impopolarità. Il Re, peraltro, gli era grato dell’accoglienza fattagli, e lo nominava poco dopo Prefetto di palazzo e Gran Mastro delle cerimonie. Il Papa non era tanto in collera col principe per esser passato nel campo avverso; era però arrabbiatissimo contro la figlia di lui, la bella donna Teresa Massimo di Rignano, per avere accettato la carica di dama d’onore della Principessa di Piemonte.
Verso i primi di gennaio fu inaugurato a Roma, sulla via Flaminia, il tempio appartenente alla Libera Chiesa di Scozia. Nel 1865, gli Scozzesi di quella confessione religiosa, erano stati espulsi, perché si riunivano a pregare in casa del loro pastore, signor Bruce. Senza perdersi d’animo, essi vi tornarono nel 1869, e si diedero a costruire una casa privata per non destar sospetto, e nel 1871 potevano inaugurare al culto il loro tempio.
Si vuole che Cavour, nel suo viaggio intorno al 1843 in Inghilterra e in Iscozia, s’ispirasse appunto da quella chiesa, che attinge soltanto la propria forza nelle sue dottrine, e i mezzi per provvedere alle pratiche del culto dalle spontanee offerte dei credenti, per adottare la formula: «Libera Chiesa, in libero Stato».
In quel tempo appunto giunse a Roma il Minghetti, il quale fu festeggiatissimo dal Circolo Cavour, prettamente monarchico, e presieduto da don Augusto Ruspoli. Da quel Circolo poi nacque l’Associazione Monarchico-Costituzionale, che sussiste sempre. In quel Circolo il Minghetti, al suo ritorno di Sicilia, pronunziò un notevolissimo discorso, in cui era racchiuso un programma di governo che poco si allontanava da quello di Cavour. Ne cito un passo:
«Qui un vasto campo è aperto all’Italia; vastissimo a Roma. Grandi e rapidi miglioramenti possiamo e dobbiamo conseguire nelle scuole, nelle strade, nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio. So bene che dipende per la massima parte dalla attività individuale e che la vera condizione di essa è la libertà. Ma il Governo può mostrare la via, può togliere di mezzo gli ostacoli, può incoraggiare gli