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Il trattato d'amore

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Guido Cavalcanti - Rime (XIII secolo)
Il trattato d'amore
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IL TRATTATO D'AMORE




I.


Se 'n questo dir presente si contene
     alcuna cosa che sia contra onore,
     la qual per vizio sia del dicitore
     over de la sentenza com s'avene,

i' prego quei, nel cui cospetto vene,
     che ciaschedun proveggia per amore
     como seguito i' aggio a ciascun core
     lo su' voler, dicendo gioia e pene

vertude e vizio come m'à mostrato,
     per sadisfar ciascun nel su' disio
     mantenendo maniera di servire.

E, se in ciò mespreso aggio nel dire, 1
     in verità, secondo il parer mio,
     cortese fallimento è ciò istato.

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II.


Se unqua fu neun, che di servire
     acconcio fosse ben lo suo volere
     'a ciaschedun secondo su' podere,
     sì son' io un di quei che v'à 'l desire

e ch'amerei innanzi di morire
     che di nò dir, faciendone spiacere
     di cosa, in ch'io potesse mantenere
     l'amico a me senza farlo partire:

sì ch'ubbidir' talora mi convene
     però di dir che non m'è bene in grato:
     ma '1 fo per la ragion davanti detta.

Onde se non è l'opera perfetta,
     tutto ch'i' non mi sia però scusato,
     ricordo '1 fallo ch'i' conosco in mene. 2


III.


Perfetto onore, quanto al mi' parere,
     non puote avere — chi non è soffrente,
     né fra la gente — acconcio capere
     poi che tenere — vi si vuol possente:

né non neente — d'umiltà savere,
     onde 'l piacere — vene a chi la sente,
     perchè '1 saccente — briga a suo podere
     di sé tenere — lungi a lui sovente:

ed è piacente — in ciò la sua usanza,
     che costumanza — non seria già bona
     lui di persona — ch'ave per pietanza

noia e pesanza — ina voglia e somona 3
     quel cui dio dona — onor e baldanza
     e per leanza - del sofrir corona.

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IV.


Amico mio, per dio, prendi conforto
     in questa tenebrosa val mondana,
     mentre che ci dimori, e vieni a porto
     in qual maniera far lo puoi più sana

né non ti lamentar già d'alcun torto
     che ci ricevi, né ti paia istrana
     cosa ch'avvenir veggi, ma accorto
     dimora de la ria farti lontana.

Che questo mondo fue così chiamato
     da la scrittura che' santi trovaro,
     che non ci vien neun, sì sia beato,

ch'assai lo stallo no li sembri amaro:
     onde se ci ti senti tu gravato
     in pace il ti comporta ch'i lo' mparo.


V.


I' vivo di speranza: e cosí face
     ciascun ch'al mondo vene, al mi' parere;
     e, poi mi veggio compagnia avere
     di tanta buona gente, dòmmi pace.

Tuttor aspetto e l'aspettar mi piace,
     credendomi avanzar lo mi' podere:
     così segue ciascun questo volere
     e 'n sì fatto disio dimora e giace.

Ma tutta volta ci è men tormentato
     quei che si sape acconcio comportare
     ciò che ne lo sperare altrui avene.

Non dich'io questo già certo per mene,
     che 'n nessun tempo l'ò saputo fare,
     e s'or l'apprendo, l'ò car comperato.

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VI.


Chi vuole aver gioiosa vita intera
     fermisi bene in amar per amore,
     ed aggia canoscenza dritta e vera
     senza partir da ciò su' cor null'ore;
ma solo guardi che sia la matera
     tal, che per fine non segua dolore,
     e che partendo e stando già non pera
     che d'esso non sia nato bon savore:
Non tegno amor già quel che fina4 male,
     ma volontà villana ed innoiosa 5
     per sol seguire al vizio mortale.
Ma tegno amor che vai sovr'ogni cosa
     quel, ch'ama il corpo e l'alma per iguale,
     ricchezza e povertà, qual venir osa.


VII.


Molto m'è viso che sia da blasinare6
     chi puote e non tener vuol buona via
     e chi più crede un falso lusingare
     ch'un dolce amaestrar di cortesia.

E anche più chi non sape acquistare
     e l'acquistato perde a sua follia,
     e lascia quel che doveria pigliare,
     e prende ciò ch'onn'altr'om lasceria.

E sovre tutto i' blasmo forte ancóra
     chi, per su' ngiegno, di leale amico
     fa che nemico sempre li dimora.

Ormai 'ntenda chi voi ciò ch'i' dico
     e' mpari senno chi bisogno fora.
     Se no li piace indarno mi fatico.

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VIII.


Ai! buona fede, a me forte nemica!
     Neente non mi val ch'i voglia avere
     tua compagnia, che tuttor a podere
     mi struggi col penser che mi notrica,

sì che rimaso son quasi nemica,
     essendo umile e con merzè cherere,
     in quella via che tu mi fai tenere,
     fede, ispietata mia guerriera antica.

Chè guerra posso ben la tua chiamare
     poi che m'offendi essendoti fedele
     nè non mi lasci aver punto di bene:

che l'om di buona fé ci vive in pene,
     e vedesi donar tosco per mele,
     né più non à da te che lo sperare.


IX.


Omo non fu ch'amasse lealmente
     in esto mondo mai senza dolore;
     né che ci dimorasse con dolzore
     un'ora, che non fosse un dì dolente.

Chè par ch'amore vigiti sovente
     di cotal guisa il suo fin amadore,
     e che ciascuna donna, ch'ave amore,
     cagioni il suo amante ispessamente.

Perch'io non maraviglio, donna mia,
     se vi piace di porre a me cagione;
     che amo tanto vostra segnoria;

né già non partirò, ch'i' non vi sia
     leale ed ubidente onne stagione,
     merzè cherendo a vostra cortesia.

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X.


D’amore vene ad om tutto piacere,
     da gelosia ispiacer grave e pesanza:
     d’amore è l’om cortese a suo podere,
     da gelosia villan con mal’usanza:

d’amore è ch’om si fa largo tenere,
     da gelosia iscarso d’iguaglianza:
     d’amore è l’omo ardito e sa valere.
     da gelosia codardo esser n’avanza:

d’amor ven tutto ben comunemente
     quanto se n’può pensare od anche dire,
     perch’io amo di lui esser servente:

da gelosia ven poi similemente
     male e dolore, affanno con martire,
     perch’io l’odio a podere e m’è spiacente.


XI.


Avegna che d’amore aggia sentito,
     alcuna volta nel merzè chiamare,
     cosa gravosa e soverchio pensare,
     non or me n’ blasmo d’averl’ubidito:

chè si perfettamente il m’à merito 7
     di vita dolce nel pietà trovare,
     che ora laudo lo bon aspettare,
     e la speranza donde son nodrito.

Essendo ardito di donar consiglio
     a tutti amanti che sono ’n disio
     che non lor gravi lo dolce soffrire:

c’amor, più ch’om non puote lui servire
     in tutto tempo — e questo ò provat’io —
     rende ’n un giorno: perch’a lui m’appiglio.

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XII.


Bench'i' ne sia alquanto intralasciato
     non ò ubliato d'amor lo mistero,
     ch'è tutta volta ne lo mio pensero
     e lui vol esser tutto accomandato: 8

ch'a tal conosco m'à per servo dato,
     che ave in sè saver compiuto e 'ntero;
     nè di bieltà più bella non richero,
     che esser non poria a lo mio grato.

E, se istato ne son quasi muto,
     non deve ciò ad amor dispiacere,
     chè lo disio coperto è da laudare:

E del riccor 9, ch'uom sape acconcio usare,
     tuttor se n' vede gloria e bene avere,
     e lo contraro chi l'à mal perduto.


XIII.


Ne l'amoroso affanno son tornato
     ed òmmi miso amore a sostenere:
     la più dolce fatica, al mi' parere,
     che sostenesse mai null'omo nato.

Chè 'n quello loco, ove m'à servo dato,
     dimoro sì con tutto il mi' volere,
     che segnoria non è nè nul piacere
     ch'i' più volesse nè mi fosse 'n grato.

Chè giovane bieltade e cortesia,
     saver compiuto con perfetto onore
     tuttor si trova in quella, cui disio.

Più non ne dico: chè teme 'l cor mio,
     se più contasse di su' gran valore,
     ciascun saprebbe: quegli in tal disia.

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XIV.


I' sono alcuna volta domandato,
     risponder mi convene che è amore,
     che dolcemente move; e di bon lato
     tengo colui, che voi conoscidore

esser di quel segnor, per cui guidato
     è tutta volta ciascun gentil core:
     d'altro non mette cura, ch'à finato
     nè può sentir null'or di su' dolzore.

Amore è un solicito pensero
     continuato sovr'alcun piacere,
     che l'occhio à rimirato volontero:

si che, imaginando quel vedere,
     nasc'indi amor, ched è segnore altero
     nel cor, ch'ò detto ch'à gientil volere.


XV.


Otto comandamenti face amore
     a ciascun gientil core innamorato:
     lo primo che cortese in ciascun lato
     sia, e 'l secondo largo a tutte l'ore.

Non amar donna 'ltrui è 'l terzo onore,
     rilegion guardar dal quarto lato,
     ben proveder di porres'in su' grato
     è 'l quinto, che de' l'omo avere in core.

Or lo sesto è cortese, al mi' parere,
     che d'esser credenzier fermo comanda:
     col sette a presso onoranza tenere

a l'amorose donne con piacere:
     donandoci poi l'otto per vivanda,
     che ardimento ci dobiamo avere.

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XVI.


Nobil pulzella dolce ed amorosa,
     sovra ciascuna doglia è ’l mio dolore,
     poi veggio impallidito lo colore
     di voi, cui amo più di nulla cosa.

Ch’esser solea vostra cera gioiosa
     più dolce a rimirar ch’altro bellore,
     perchè à poco ch’i’ non blasmo amore
     s’a voi e’ dona tal pena gravosa

o di neente grava il vostro viso:
     che piangiere mi facie e lagrimare
     lo greve mal che n’à levato il riso,

sì che solo ’l pensar me n’à conquiso;
     onde, per Deo, vi piaccia confortare
     per torre via lo mal ch’è tra noi miso.


XVII.


Com’io mi lamentai per lo dolore
     di voi, mia gioia, e pena ne portava,
     degi’ or cantar di gioia e di dolzore,
     poi torno e veggio quel ch’i’ disiava.

Tornato v’è l’angielico colore
     che tanto dolcemente e ben vi stava,
     poi si partì lo mal, ch’a tutte l’ore
     piangiere mi faceva e lagrimava

in ricordando lo greve peccato:
     che mi parea che voi foste gravata
     di guisa che ’l color n’era cangiato.

Ma or ch’i’ veggio allegra ritornata
     la dolze ciera e ’l viso dilicato
     sovr’onne gioia la mia tengo doblata.10

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XVIII.


Partitevi, messer, da più cherere
     quello ’nde si diparte lo mio core,
     nè non s’acconci lo vostro volere
     orma’ inver me di così fatto amore,

chè ’n tutto dico che no m’è ’n piacere.
     Così non fosse stato mai null’ore!
     ma giovanezza tene in su’ podere
     manti11, cui spesso face far follore.12

Ed io, se ’n vano amor giovan’ essuta13
     son nel mi’ tempo o fatto ò cosa vana,
     dicovi ch’i’ ne son forte pentuta.

E parmi or dimorare in vita sana
     essendomi sì ben riconosciuta
     e d’ogni vanità fatta lontana.


XIX.


Gientil mia donna, ciò che voi tenere
     volete, piace a me ed è dolzore,
     però ched è acconcio il mio savere
     in far tuttor che sia di vostr’onore;

ma dir ched i’ potesse forza avere
     di dipartir, ch’i’ non fosse amadore
     di voi, cui amo tanto, al mi’ parere
     son cierto non poria partirne n’ fiore14.

E quanto più ci penso, più m’aiuta
     lo fin pensier, e allor più ingrana
     in me l’amor, che ’n voi, dite, s’attuta.

Perch’io spero ancor, donna sovrana,
     trovar merzè in voi tutta compiuta
     per l’umiltà ch’è ’n voi sì dolce e piana.

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XX.


Messer, l'umilità donde parlate
     e quel che vo' appellate cortesia,
     mi vieta duramente e toglie 'l frate,
     e danne penitenza in fede mia.

Perch'a me par che mal mi consigliate
     dicendo ch'i' ritorni tuttavia
     a quella mala via di vanitate,
     ched e' mi dicie ch'è sì forte e ria.

Tuttoch'anche la sua è forte assai
     ed àmmi duramente ispaventata;
     ma pur non credo ricader già mai.

Non so ben là dov'io mi sono intrata:
     l'un m'iinpromette gioia e l'altro guai:
     se 'l me' 15 non prendo assai sarò malnata.


XXI.


Madonna, lo parlar ch'ora mostrate
     al tutto face che 'l mi' cor ublia
     onne vano penserò, e lo fermate
     ne la speranza dolce, in che disia.

Che 'n nulla guisa la vostr'amistate
     non chero aver, se non ch'onor vi sia.
     e se 'n cotal maniera me la date
     così son ricco com'esser cheria.

Ch'unqua, mia donna, tanto non amai
     cosa neuna, quant'io agi' amata
     vostra onoranza ed amo ed amerai.

Altro disio al mio cor non agrata;
     perchè dovete voi amar colai,
     dove d'onor vedetevi onorata.

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XXII.


I' si mi posso, lassa, lamentare
     d'amore innanti e poi de lo meo sire:
     che data sono ad amendue servire
     sì, ch'altra cosa no m'è 'n grato fare.

E amore m'incalcia e face amare
     con fermo core e con dolce desire
     lui, che pecca 'nver me, poi ch'agradire
     no li vol punto, ma pur cagionare.

Sì che mi lamentare è di ragione,
     ched io dimoro, amore, al tu' piacere
     col cor leal là 've tu l'ai locato.

E 'l mi' buon sire istà 'nver me spietato;
     là 'ride peccato face, al mi parere:
     poi tanto l'amo senza falligione.


XXIII.


Tutto ch'i' mi lamenti nel mi' dire,
     dolce meo sire, non è lo mio core
     punto turbato inver di voi null'ore;
     ma in fra sé istesso vuol morire

di ciò, ch'or non v'è 'n grato il mi' servire
     sì como già '1 facea esser amore,
     e che vi sembia ch'io mancato fiore
     aggia 'nver voi, dov'ò fermo 'l disire.

Ma, ben ch'a me non paia aver fallato
     e voi pur piace di così mostrare,
     vedete me n' venire a la merzede:

e umilmente lo mi' cor la chiede,
     ch'unqua non si partì di voi amare:
     per che trovare dovre' vi umiliato.

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XXIV.


I' son congiunto sì a voi di fede,
     gientil mia donna, che manofestare
     son cierto ch'i' vi posso mio affare:
     corno convenmi andare a la merzede

di quella, cui dimoro inclino al pede
     umiliando me: e voi pregare
     vo' dolcemente, che a lei parlare
     deggiate, com'amor le mi concede,

sì che lo sguardo dolce ed amoroso,
     che si congiugne co' lo mi' vedere
     alcuna volta quand'io la rimiro,

agia l'effetto dov'io 'ntorno giro;
     e voi di cierto dovete sapere
     ben quella ch'amo; ma nomar no l'oso.


XXV.


Non oso nominare apertamente
     quella, cui m'ave dato a servidore
     quei, ch'à 'n tutto podere, ciò è amore,
     che voi ch'i' tema e non falli neente;

ma voi sapete ben veracemente
     qual è la donna cui son amadore:
     però voi raccomando il mi' fin core,
     che voi ben conoscete ad ubidente, 16

che 'n vostro ragionar per voi aitato
     essere puote più ch'i' non so dire:
     perch'io ve 'n prego, dolce donna mia:

e per la vostra nobil cortesia
     non vi dispiaccia questo mio ardire,
     ch'amore in ciò mi sforza e.'l m'à 'nsegnato.

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XXVI.


Nobile pulzelletta ed amorosa,
     compiuta di piacere e di bellore 17,
     per te ringrazio ed amo più amore,
     che mi ti face amar sovr’onne cosa.

Chè tanto sembl’a me sia graziosa
     la vita dolce, che ave lo core
     che in te si mira, che neun dolzore
     mi par iguale di tal via disiosa,

ne la qual vivo in un dolce pensiero:
     chè spero ne la tua semblanza umile
     trovar di cierto bona pietate.

Così dimoro intorno a la bieltate18
     ch’io ’n te veggio e a l’atto gientile
     pietosamente e pur merzede chero.


XXVII.


Da poi ch’è cierto che la tua bieltate,
     gientil pulzella, mi ti face amare
     e ch’io altro non posso, benchè fare
     i’ lo volesse, de’ ne aver pietate.

Chè chi à colpa de’ tutte fiate,
     secondo la ragion, pena portare
     di ciò che indi nasce: ed i’ appellare
     posso ’l bellore e l’atto e l’umiltate

di te, che m’ànno tolta la balia
     di poter far di me più che ’n piacere
     sia ’l tu’ gientil cor, cu’ serv’i’ sono.

Perch’io ti chero ed addomando in dono,
     ch’a umiltà s’acconci il tu’ volere
     ver me, o tal bieltà di te to’ via.

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XXVIII.


Quand'io mi vo' ridurre a la ragione
     e rafrenar lo grande intendimento,
     né non pur seguitar lo van talento,
     che tutte cose mena a perdizione,

trovo l'animo mio d'oppenione
     che meglio posso a me donare abento,19
     e riconoscer via di salvamento,
     che quand'i' penso aver cuor di leone.

Chè la ragion lo dritto core appaga
     tollendoli la cura delle cose,
     che non son né non debono esser sue;

ma lo vano penser, che s'usa piue,
     le n'apresenta tuttor amorose,
     e la più vii ne mostra che sia vaga.


XXIX.


Per questo, amico, ch'io t'agio mostrato,
     lo qual mi sembla che sia dirittura,
     ti vo' pregar co' la mia mente pura
     ched e' ti piaccia ricever in grato

in questa vita quanto ch'aportato
     ti fia o di sollazzo o di rancura,20
     e di te metter tutto a la ventura,
     ben operando tuttor dal tu' lato.

E sovra tutto ancor pregar ti voglio
     che ti riduchi a quell'intendimenti,
     là dove credi di legier venire.

Quegli altri grandi, per Dio, lascia gire:
     chè sempre vedi li maggio talenti
     muovere da soperbia e da rigoglio.

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XXX.


Noi semo in un cammino, e dovem gire
     in uno loco, amico, di ragione,
     ciò è al ben, che que' che ne formone,
     se no 'l perdem per lo nostro fallire,

n'ave promesso: ma non può salire
     soperbia né rigoglio in tal magione;
     ma 'l core umiliato ogne stagione,
     e la vertù per ch'uom vi può salire.

Similemente dico in questa vita:
     chè vizio tengo lo badar sì alto,
     ch'è quando si conosce che n'abbi' onta;

ma quegli è saggio, che nel grado monta
     mezzanamente, né mai non fa salto,
     che disinor gli torni a la finita.


XXXI.


Grazie ti rendo, amico, a mio podere
     de la tua saggia e dritta conoscenza,
     dove ti fa venire il buon volere,
     che ànno quei cui dirittura agenza; 21

che no gli lascia iscorrer né cadere
     in quello loco ove non à guirenza; 22
     ma gli dirizza sì che con piacere
     vengnon tuttor gioiosi a la sentenza,

non temendo neun, checché si dica,
     però che ànno di quella vertute
     la compagnia, ched è senza fatica.

E poi la prendi, amico, avrai salute
     la dritta via, che gientil cor notrica
     e tutte cose manche fa compiute.

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XXXII.


Se in me avesse punto di savere,
     veggiendo ch’ad amor neente cale
     di quel gravoso e periglioso male,
     ch’a tutte l’or’ mi vede sostenere,

i’ mi saprei partir del su’ volere,
     dove m’ave condotto, lasso, a tale
     che quasi or mai soccorso non mi vale,
     sì consumato son nel male avere.

Ed aggio il bon sentor quasi perduto,
     ched è ’n soffrire ispento e consumato,
     nè punto non mi sento di vertute.

Però non parto me da le ferute,
     sì corno folle che vi sono usato;
     ma brevemente ispero aver compiuto.


XXXIII.


Alcuna giente, part’io mi dimoro
     fra me medesmo lo giorno pensoso,
     si traggie invèr lo loco ov’i’ mi poso,
     dicendo che mal fo che mi divoro.

— De! be’ segnori — dich’io allor con loro —
     credete voi che lo star doloroso
     mi piaccia? Non; ma ne lo core inchioso
     mi sento il male, ond’io languendo moro.

E ciò mi face amor sol perch’io l’amo
     e stato sempre son su’ servidore,
     e voi vedete il merito ch’i’ n’aggio. —

Così dicendo fo mutar coraggio23
     a ciaschedun ched è riprenditore
     de lo penser, ch’i’ fo co’ stato gramo. 24

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XXXIV.


Sed io vivo pensoso ed ò dolore
     neun già si ne de' maravigliare,
     però ch'i' posso ben la scusa fare
     a chi esser ne vuol riprenditore.

Che stato i' son servente e son d'amore
     senza me dipartir nè sceverare,
     ed or mi veggio senza colpa dare
     villan commiato a mi' gran disinore.

Che falsator potrebbe dire alcuno
     ch'i' fosse istato, lasso doloroso,
     al mio amor, ch'i' sempre aggio servito:

sì che mia buona fè m'ave schernito,
     né mi' diritto dimostrar non oso;
     ma pur ch'i' fallo m'è fatto comuno.


XXXV.


Morte gientil, rimedio de' cattivi,
     merzè merzè a man giunte ti cheggio:
     vienmi a vedere e prendimi, che peggio
     mi face amor: che mie' spiriti vivi

son consumati e spenti sì, che quivi,
     dov' i' stava gioioso, ora mi veggio
     in parte, lasso, là dov' io posseggio
     pena e dolor con pianto: e vuol ch'arrivi

ancóra in più di mal s'esser più puote;
     perchè tu, morte, ora valer mi puoi
     di trarmi de le man di tal nemico.

Aime! lasso quante volte dico:
     amor, perchè fai mal pur sol a' tuoi
     come quel de lo 'nferno che i percuote?

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XXXVI.


     Tristo e dolente e faticato molto
          son nel pensero, amor, chè tanto acierbo
          mi vi mostrate, secondo lo verbo
          ch’i’ parlar v’odo e l’atto de lo volto,

     dal qual solea gioioso esser accolto.
          Ed ora, lasso, ’l contraro riserbo!
          là ’nde ’l dolor mi cierca ciascun nerbo
          si c’onne buon valor me n’ave tolto.

     E sì mi grava più cotal fatica,
          perchè pensando non mi sento in colpa,
          che, s’io mi vi sentisse, non farebbe.

     Però, amore, valer ciò mi dovrebbe;
          chè chi non pecca, parmi, assai si svolpa,25
          nè non dovrìa portar pena nemica.


XXXVII.


S'on si trovò già mai in vita povra
     o fu neun ch’avesse gran disagio
     o discacciato di contrada e d’agio,
     sì son io que’ ch’à peggio chi gl’anovra.

Oime, lasso dolente, i’ fui di sovra,
     or è sì poco, di gioi’ nel palagio,
     ed or mi trovo in loco, che malvagio
     mi tegno ch’a la giente mi discovra.

Chè star mi dovere’ in loco rinchiuso
     e piangier lo mi’ danno tutto tempo
     ch'è sì pericoloso in un momento.

No ’l faccio sol chè ’n ciò trovrei abento,
     ned io trovar no ’l vo’ nè l’amo, se ’n po —
     tenza non torno, ’v’i’ era sì uso.

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XXXVIII.


De! che ho detto di tornare in possa!
     Non so come ciò adivenir potrebbe.
     Altro che Cristo ciò far non saprebbe,
     sì m'è da ogne parte la gioi' scossa.

Ai! tristo me, come fu mala mossa
     quella che 'l mi' disir per mi' danno ebbe;
     poi che fermo in sé non tornerebbe
     verso di me, se 'n pria la buccia e l'ossa

non fossen una cosa sanza carne
     ben consumate con asciutti nerbi.
     Ed io, lasso, di ciò tuttor mi peno.

Oi! me dolente, s'i' desino o cieno,
     puot'uom pensar son li miei cibi acerbi
     e contr'a me, pur ch'io saccia trovarne.


XXXIX.


Nessuna cosa tengo sia sì grave,
     in verità, né di si gran molesta
     come t'attender, che lo cor tempesta
     più forte che nel mar turbato nave.

E quanto, al mi parer, sì mal non ave
     chi ismarruto truovasi 'n foresta,
     benché veggia venir la notte presta
     e senta fiere cose onde tem'ave,

che chi attende. Cierto è maraviglia
     come non si smarrisce nel penserò
     o come non percuote il capo al muro.

Quei, ch'è 'n mare o 'n foresta, istà sicuro
     di tosto esserne 'n capo o campar vero;
     ma qua' ch'aspetta morendo sbadiglia.

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XL.


l' sì mi tengo, lasso, a mala posta
     (or ecco il fatto) e sonvi per lo fermo
     a tal, che non mi vai neuno schermo,
     e assalito son da ogne costa.

E non mi dànno i miei nemici sosta
     perchè fedito veggianmi ed infermo:
     ned io medesmo non mando a Palermo
     per tal dolor sanar, che tanto costa.

Ch'anzi mi sforzo pur de li contrari:
     e quanto posso tuttor traggo a essi
     ed e' così mi pagan de la via.

Trovar non posso in alcun cortesia,
     ed io dolente i miei spiriti messi
     tutto tempo aggio in far d'amor suo gradi.


XLI.


I' ragionai l'altr'ier con uno antico
     lo qual mi disse: — amico frate, guarti
     né amore non seguir né le sue arti,
     che lui seguendo rimarrai mendico.

E 'ntendi, — disse que' — di ch'io ti dico,
     del cuore e de l'aver, se non ti parti
     del loco, ove se' miso e vuogli starti
     così soletto servo al tuo nemico. —

Sì ch'io, udendo lui ciò dire, intesi;
     ma non vi puosi lo coraggio guari
   com 'om che à la testa assai leggiere.

Ma tutto il senno, m'abbia ben mestiere,
     no 'l voglio né acquisto di danari,
     tanto com'amo e vo' l'amor ch'i' presi.

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XLII.


l' credo, amor, che 'n fin ch' i' non
     sì che quasi divegna come secco,
     voi non direte: — di costui i' pecco,
     che l'ò tenuto e 'l tengo tanto ad agro.

Ma tutta volta saramento sagro
     vi posso far senza mentir del becco,
     ch'ai dolor mio non è nessun parecco 26
     sì forte '1 sento, 'nd'io già no m'a pagro

Hn che compiuto avrò il vostro grado,
     o che pietà voi averete incontra
     la gran durezza, che mia vita spegna.

Qual d'esti due che brevemente avegna
     darà riposo a lo mi' cor e montra
     ch'a valle è tanto, più non trova grado.


XLIII.


Amico, tu fai mal che ti sconforti
     e ti lamenti sì di starmi servo,
     dicendo ch'i' ti son crudo ed acervo,
     volendoti però gittar tra i morti.

Non pare a me che 'n quella guisa porti
     tua sofferenza, che quel ch'i' conservo
     ti sia donato. Se, corno lo cervo,
     non ti rinnuovi 'n saccienti ed accorti

piaceri, e 'n soferir con be' costumi
     quanto che piacerà a me di darti,
     anch'io conoscerò lo tuo cor dentro.

Che 'n dar gioi' a villan già non mi pentro;
     onde ti pena di cortese farti
     acciò ch'io brevemente ti rallumi. 27

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XLIV.


Amore, i' aggio vostro dire inteso,
     del quale io ò conforto a me medesmo:
     che non mi par lo stato ora si pesmo,28
     né lo servir, ch'ò fatto, male ispeso,

udendo di che son da voi ripreso;
     che ciertamente nel mi' core i' esmo29
     che 'n ciò mi troverete sì acesmo30
     ch'i' non ne servirò di stare in peso,

ma d'esser corno dite tosto e breve
     in parte di dover merito averne,
     se 'n tal maniera mi dovete darlo.

Perdo n richero a voi s'oltraggio parlo,
     che volontà in me qui si dicierne
     non p-ur dicendo; ma la metto in breve.


XLV.


Talor credete voi, amor, ch'i' dorma,
     che co' lo core i' penso a voi e veglio,
     mirandomi tuttora ne lo speglio
     che 'nnanzi mi tenete e ne la forma.

E 'n ciò sì fermo son che fatto l'orma

     e divenuto ne lo' n taglio veglio.
     Ver è che ciò mi piace e pare 'l
     così '1 vostro disire, amor, lo corma.

nel suo podere e ciò forte m'agrada,
     però ch'i' posso dir, quand'a voi penso,
     ched io non abandono nul tesoro.

Aggia chi voi riccor d'argento e d'oro,
     che s'io voi sol aquisto e tegno, ben so
     c'onn'altro ricco inver di me digrada.

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XLVI.


Sed io comincio dir che paia 'lpestro
     e sia noioso e non si possa 'ntendre,
     in verità ch'uom non me n' de' riprendre,
     però che '1 tatto mio va a sinestro.

E di quell'arte, ond'io credea maestro
     esser, tuttora mi convien aprendre,
     come d'amore, che or mi vuol car vondre
     lo ben passato con crudel capestro.

Ond'i' sperava, lasso, esser sicuro,
     perchè ben mi parea servire e starmi,
     ne mai no me n' sarei guardato indietro.

Non sacci' ormai chi li si vada al mietro,31
     da poi che posto s'è ad ingannarmi,
     che li so' stato sì fedele e puro.


XLVII.


In quella guisa, amor, che tu richiedi
     merzede in quella parte ove tu ami
     e, come tu mi conti, gioi' ne brami,
     sa' tu ch'i' sono a te tuttor a' piedi.

Sì che tu stesso di tua man ti fiedi
     quando di ciò pietade altrove chiami,
     donde tu se' spietato e noia fa' mi
     dandomi peggior colpi che di spiedi.

Perch'io prego colei, onde tu attendi
     d'aver piacer, ch'ella così '1 ti doni
     come tu te acconci di servirmi.

Di ciò non puoi ch'i' ti diserva dirmi,
     ina puoi pensare, al termine che poni
     di farmi ben, che te medesmo ofendi.

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XLVIII.


Un poco esser mi pare isviatetto
     in verità e di ragion partito,
     e veggiomene ben mostrare a dito
     4alcuna volta, e sì m'è anche detto.

Ma chi me ne riprende co' lui metto,
     che se vedrà il viso colorito
     ch'i' spesso veggio, che ne fia schernito:
     8sì non sarà sacciente fancelletto.

Ma tuttavia i' vorrei ben potere
     da ciò partire e non punto pensarvi,
     11che ben conosco mi sarebbe onore:

ma chi è quei che può far contr'amore ?
     Mai non udi' medicina trovarvi,
     14ned io non son per gir contr'a podere.



XLIX.


Como ch'amor mi meni tuttavolta
     i' sono issuto e son di sua masnada,
     nè altra vita tener non m'agrada,
     4ben ched e' m'aggia la speranza tolta.

Chè quand'om è acconcio in fede molta
     non leggiermente su' voler digrada;
     ma si pena seguir tutta fiada
     8com'io fo, lasso, ch'ò 'n ciò fede istolta.

Nè già però non lascio mia follia,
     chè sì fermato sono in ciò per uso
     11che sagiamente parmi dimenare; 32

nè 'nganno chi conosca non mi pare
     altro che dritto, onde però mi scuso,
     14che in seguendo amor fo cortesia.

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L.


La pena, che sentì Cato di Roma
     in quelle secche de la Barberia
     lor ch'al re Giuba pur andar volia
     4vegiendo la sua giente istanca e doma,
non sembl'a me che fosse sì gran soma
     d'assai, mia donna, com'or è la mia:
     chè, se serpente e sete mal facia
     8lui ed a' suoi come Lucan li noma,
i' son punto e navrato * da colui
     che tutte cose mena a su' piacere
     11e face a qual si vuole adoperare.
Dunque più crudelmente può mal fare
     che l'altre cose, cui e' d à podere,
     amor che me conquide più ch'altrui.

Ferire - prov. : nafrar - ant, fran. : navrer, nafrer .


LI.


Diciendo i' vero altrui fallar non curo,
     ch'alcuna volta il dritto si ritrova:
     nè non conven già, che colui si mova
     4che fa 'l ver su' timon; ma stea sicuro
che, sanz' irlo ciercando, vedrà puro,
     a chi l'avrà conteso, perder prova;
     che non è or la mia sentenza nova
     8che 'l menzonier rimane in loco iscuro
a lungo andar con tutta sua menzogna;
     ma ben veden che sempre è avenuto
     11e similmente adiverrà ancóra.
E, quanto più di tempo il ver dimora
     ad apparir, tant'è colui tenuto,
     14che l'à nascosto, con maggior vergogna.

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LII.


Due malvagie maniere di mentire
     mi par che sien, secondo quel ch'intendo.
     Che tristi vada Iddio tutti facciendo
     4color, che vivono 'n cotal disire!

L'una si è di que', che vuol covrire
     lo ben altrui, andandolo spegnendo,
     e far parer che ciò mal sia, mentendo
     8ched è ben cosa da dover morire.

L'altra si è di que', che non sa nulla
     che possi dir di colui, cu' vuol male,
     11e 'n sè com trova alcuna villania

e' con be' motti fa creder che sia
     un ver chiarito a ciascun comunale,
     14e da poi se ne ride e se n' trastulla.


LIII.


Non posso rafrenar lo mi' talento,
     c'ognor mi pingie in gioia dimostrare;
     lo core allegro la lingua parlare
     4fa lietamente per lo ben, ch' i' sento.

Ciascun de' senni miei si sta contento
     quand' i' m'acordo 'n gioia dimenare,
     e 'n questa guisa or posso confortare
     8e di tutto penar donarmi abento.

Là 'nd' io ne rendo a voi grazie e merzede,
     donn'amorosa più d'altra gientile,
     11compiuta di savere e canoscenza;

che tutto ciò da voi nasce e comenza
     perseverando, ond'io co 'l cor umile
     14dimoro 'ngnora 'nclino al vostro pede.

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LIV.


Quando l'amore il su' servo partito
     trova null'ora del su' pensamento,
     volete udir un bel vendicamento
     4ched e' ne fa? - Sì è pro' ed ardito

che mantenente l'à sì assalito
     di dolor grave e soverchio tormento,
     che 'nfin ched e' non torna a pentimento
     8non può di tal penar esser guarito.

Perch'io consiglio ciascun amadore
     che non si parta; ma fermi 'l disire
     11in quanto che amor vuol aportare.

Ch'onor né nullo ben vien sanz'amare,
     ma lo contraro, perchè mal finire
     14de' quei, che n' vuol già mai partir su' core.


LV.


Vita mi piace d'om che si mantene
     cortesemente ne la via d'amore,
     e che acconcia il su' amoroso core
     4in ciò che vole onore e tutto bene.

Che indi nasce tutta fiata e vene
     quanto ch'om face che sia di valore,
     sì che mi sembia che vivendo more
     8quei, che si parte da sì dolce spene.

Chè la vita d'amore è graziosa,
     e 'n tutte cose si sape avanzare
     11lo 'nnamorato me' che l'altra giente;

chè chi non à d'amor né non ne sente
     non puote, al mi' parer, di sé mostrare
     14neente, ch'apartenga a nobil cosa.

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LVI.


I' son ben cierto, dolce mio amore,
     che mio follor vi fa talor volere
     cosa, ch'è molto incontro a lo piacere
     4di voi, che sì avete dolce core.

E ciò mi fate sol per vostro onore,
     non già per ch'i' n' sia degno de l'avere,
     là 'nd'io però ve n' vo' merzè cherere,
     8che mi perdoni ciò vostro dolzore

sappiendo che l'amore in ciò mi sforza,
     che segnoreggia sì como li piace
     11e deve far de' suoi fin' amadori.

Non so i' ben che fa de gli altri cori;
     ma 'l mio ver voi fatt'à fino e verace
     14e non l'altro disio che 'n voi s'amorza.


LVII.


De lo piacere che or presente presi
     di voi, amor, si como ben sapete,
     dicovi la merzè che di ciò avete —
     4che 'n verità pertanto mi difesi,

ch'i' stesso co' le mie man non mi offesi
     in guisa maggio, che voi non credete —
     or ch'i' vi mando lo dir che vedete,
     8nel qual ringrazio i vostr'atti cortesi

che m'ànno tratto de lo rio pensero,
     nel quale i' dimorava in tale guisa
     11ch'era di viver tutto risaziato.

Là 'ndio vi rendo, amor, merzè, ch'aitato
     m'avete sì che 'l cor mio non divisa
     14for che di starvi allegro servo intero.

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LVIII.


L'attender, ched i' faccio con paura,
     mi tene in pensamento tuttavia;
     ma la speranza, in che 'l mi' cor disia,
     4alcun pochetto in ciò mi rassicura.

Chè sanza fallo pena tanto dura
     como l'attender non credo che sia,
     nè dolce medicina, in fede mia,
     8come per isperar fae om sicura

la vita sua ne lo dolce pensero,
     che a ciascuno amante dona amore,
     11senza lo qual seria morte la vita.

Similemente in me aggio partita
     la dimoranza, ch'i' faccio mant'ore,
     14fuggiendo la paura e sperar chero.


LIX.


I' sì vorrei così aver d'amore
     ben ed onor, com' io li son leale,
     e, s' io son lo contraro, averne male
     4in simil guisa e greve pentigione.

Nè non sarebbe ciò contr'a ragione,
     secondo il mi' parer, ma cosa iguale;
     ma non vo' dir di voi, amor, cotale
     8che vivere mi fate in pensagione.

Perchè dovete aver più segnoria,
     la qual mi piace ben che voi agiate,
     11a ciò che la seguiate con onore.

Chè 'n tutte cose, dolce mio amore,
     conven che gientil core aggia pietate
     14ch'umili stanno e aman cortesia.

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LX.


Ne lo disio, dove amor mi tene,
     sovente co' lo cor vado pensando
     la vita che m'è 'n grato, e ricordando
     4quella dolcezza donde mi sovene.

Chè, quando in mio penser rimiro bene
     l'alto piagiente dove m'accomando,
     tutte fiate cosa non domando
     8for che in ciò tener ferma mia spene.

Però che, dimorando in tal disio,
     non m'è aviso ch'i potesse avere
     11cosa, che fosse a lo mi' cor contraro;

perchè cotal voler m'è dolce e caro,
     chè seguitando 'l n'acquisto piacere,
     14vivendo com'è 'n grato a lo cor mio.


LXI.


Però ch'i' ò temenza di fallare
     s'andasse più innanzi maggiormente,
     mi voglio sofferire e porre mente
     4a ciò, ch'i' già udito aggio contare:

che dolce canto puote altru' innoiare
     per tropp' usare e venir ispiacente;
     perch'i' vi dico ched i' son temente
     8pur d' esto tanto innanzi a vo' inviare.

E voglio umil pregar la cortesia
     di voi, che m'abbia in ciò per iscusato,
     11ch'i' pur mostrare vo' di mio savere;

lo qual, se fosse ancor me' da vedere,
     avrei con più ardire a voi mandato
     14e manderò quand'a piacer vi fia.


Note

  1. Mesprendere - ingannarsi - provenzale ed antico francese: mesprendre.
  2. Forma toscana per:me.
  3. Somonare: chiamare, invitare, prescegliere. - Ant. francese: semouner - francese moderno: semondre
  4. Provenzale: finar- - ant. francese: finer. Nel significato di: finire.
  5. Innoiare dal latino basso: inodiare.
  6. Provenzale: blasmar - ant. francese: blasmer.
  7. Prov. e francese: merir.
  8. Obligato con fedeltà - latino: commendatus.
  9. Per: ricchezza - franc. ant.: richor, ricaur.
  10. Raddoppiata - Prov.: doblar - franc. ant.: doubler.
  11. Molti - Prov.: maius, mainz - ant. franc: maints.
  12. Follia - prov. e franc. ant: folor.
  13. Participio di essere per stata.
  14. Vale: nulla.
  15. Meglio.
  16. Latino basso: ad oboedientiam.
  17. Bellezza — prov.: belor — ant. franc.: belour’.
  18. Ant. franc.: bealtè, biautè,
  19. Riposo - Siciliano: abbentu.
  20. Dispiacere - prov.: rancura - franc. ant.: rancune.
  21. Ingentilire.
  22. Guarigione.
  23. Vale: core - prov.: coratge - ant.
    franc.: corage - spagnuolo: corazon.
  24. Doloroso - prov.: grams - ant. franc.: graim - dall’antico teutonico: gram.
  25. Nel senso di scusarsi, sciogliersi - franc. ant: desvoleper, desvoloper
  26. Uguale - Latina: paricilus.
  27. Restituire la vista - ant. franc.: ralumer
  28. Cattivo - ant franc.: pesme.
  29. Stimare - prov.: esmar - antico franc.: esmer.
  30. Adornare - prov.: acesmar - franc.: acesmer
  31. Andare al metro - piacere.
  32. Esprimere - prov. : demenar - ant. franc. : demener.