Esodo

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Euripide - Reso (V secolo a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1930)
Esodo
Terzo stasimo

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Entra, levando alti lamenti, l’auriga di Reso.
auriga
Ahimè, ahimè!
O destino funesto! Ahimè, ahimè!
coro
Zitti zitti! Fermi! Forse cade alcuno entro la ragna.
auriga
Ahi, terribile sciagura per i Traci!
coro
                                                                Chi si lagna?
auriga
O me misero, e te, signor dei Traci!
Funesta fu per te la vista d’Ilio.
Di che misera morte oppresso giaci!

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coro
Qual degli amici sei? L’occhio indeciso
è nella notte, e male io ti ravviso.
auriga
Strofe
Dove alcuno trovar dei Duci d’Ilio?
Ettore in quale tenda
dorme chiuso nell’armi? A qual dei príncipi
il nostro mal dirò, la strage orrenda,
ahimè, ahimè,
che fe’ di noi, la trama che ci tese
talun che sparve, e il lutto è ben palese.
coro
Costui, se intendo ben le sue parole,
d’un mal che i Traci funestò si duole.
auriga
Antistrofe
L’esercito è perduto, il duce esanime:
lo spense una ferita
a tradimento. Oh qual mi strugge spasimo
d’orrenda piaga! Oh, alfine uscir di vita!
Ahimè ahimè ahimè!
Senza gloria io morir qui devo, e Reso,
al soccorso di Troia in campo sceso.

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coro
Chiaro ei favella omai, non per ambage,
e degli amici miei narra la strage.
auriga
La sciagura ci colse, e la vergogna
s’aggiunge alla sciagura, e, il male è doppio.
Perché la morte glorïosa, quando
morir bisogna, per l’estinto è dura,
e come no? ma orgoglio è di chi resta,
è di sua casa onore. E invece, noi,
senza scopo morimmo, e senza gloria:
ché, poi che ci ebbe collocati in campo
Ettore, e detta la parola d’ordine,
gittati al suolo dormivamo, affranti
dalla stanchezza; né l’escubie a veglia
stavan del campo, né schierate l’armi,
in ordinanza, né serrati i gioghi
sopra il collo ai corsier’: ché vincitori
ci sapeva il signore, e sulle navi
dei nemici incombenti; e giacevamo
senza pensiero, al sonno abbandonati.
Or dal sonno sorgendo, io ché — sollecito
il cuore mi spronò — , biada ai puledri
diedi con larga man, poiché su l’alba
alla pugna aggiogarli io mi pensavo.
E tra la fitta oscurità, due uomini
ronzare vidi al nostro campo attorno.
Ma come a lor m’avvicinai, fuggirono:
ond’io gridai che lontano dal campo

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restassero: alleati io li credei
che per rubare intorno a noi ronzassero.
E quelli muti; ed altro piú non so.
Al giaciglio tornai, m’addormentai;
e a me nel sonno questa scena apparve:
le cavalle che io nutrii, che spingere
solea, stando sul carro a Reso presso,
pareami in sogno che le cavalcassero
due lupi a dorso nudo, e, con la coda
battendo i crini dell’equine groppe,
le cacciavano in corsa: ed annitrivano,
dalle fauci furor quelle spiravano,
nel terror le criniere alte scrollavano.
Ed io, tentando allontanar le fiere
dalle puledre, mi destai, dall’incubo
esterrefatto. E, alzando il capo, un rantolo
udii di moribondi; e un caldo rivolo
di giovin sangue mi colpí, sprizzante
dal signor mio, miseramente ucciso.
In piedi io balzo; né di lancia armata
la mano avevo; e mentre guardo, e cerco
d’afferrare una spada, un uom gagliardo
in fondo al fianco il ferro mi cacciò:
ché della spada il colpo in me sentii
scavare il solco di profonda piaga.
Prono al suol piombo; e il carro e le puledre
quelli afferrano, e a fuga il piede volgono.
Ahimè, ahimè!
Mi tortura il dolor, piú non mi reggo.
E la sciagura so, ché ben la vidi;
ma come poi fu spento, e da qual mano
fu spento, dire non saprei, ma lecito
m’è sospettar che fu mano d’amici.

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coro
Del Tracio re miseramente ucciso
auriga, non lagnar che la sua morte
dei suoi nemici opra non fu. Ma giunge
Ettore stesso. La sciagura apprese,
e ii duolo tuo con te, sembra, partecipa.
Giunge Ettore, e, altamente sdegnato, rivolge la parola al Coro.
ettore
E come mai nemici esploratori
giunsero qui, d’immense doglie artefici,
e niuno li scoprí, vergogna vostra,
e macellata fu la nostra gente,
né quando in campo entrâr, né quando uscirono
respinger li sapeste? E chi ragione
dar ne dovrebbe, se non tu? Custode
sei tu del campo. E illesi ora s’involano
e molto alla viltà dei Frigi irridono,
ed a me duce. Ma sappiate, a Giove
giuro ne fo, che te la sferza attende
per la tua colpa, o il capital supplizio:
se non sarà, chiamate Ettore un vile.
coro
Antistrofe
Ahimè, ahimè!
Grande è la mia disgrazia.
Essi giunsero, o d’Ilio
signore, quando a te recai l’annunzio

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dei lumi che brillavano
sopra gli argivi legni;
ché durante la notte, io l’occhio vigile
tenni schiuso, né mai piegai le palpebre,
del Simèto pei rivi io te lo giuro.
O re, non sia che contro noi ti sdegni,
perché noi siamo d’ogni colpa immuni.
E se mai nel futuro
saranno inopportuni
gli atti miei, le parole, ordine dà
che vivo ancor mi calino
sotterra; né m’udrai chieder pietà.
auriga
Perché minacce ad essi volgi, e, barbaro,
tenti in inganno trarre un altro barbaro
con intreccio di frasi? Tua fu l’opera.
Né chi piagato fu, né chi fu spento
che d’altri fu crederà mai. Ben lungo
esser dovrebbe e scaltro il tuo discorso,
ond’io credessi che agli amici tu
morte inflitta non hai, pel desiderio
delle puledre. Gli alleati uccidi
per questa brama; e di venire molto
li scongiuravi. Son venuti e morti.
Onesto piú di te molto fu Paride:
esso disonorò l’ospite suo;
tu gli alleati uccidi. E non mi dire
che degli Argivi alcun giunse ad ucciderci.
Chi dei Troiani superar le schiere,
poteva, e sino a noi di furto giungere?

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Dinanzi a noi l’esercito dei Frigi
era teco schierato. E qual fu spento
degli alleati tuoi, quale ferito,
se gli avversarî, come dici, giunsero?
lo fui ferito; e quei che piú sofferse
il sol piú non vedrà. Per dirla in breve,
niun degli Achivi incolpo. E chi, giungendo
di notte al campo dei nemici, Reso
trovar poteva, se dei Numi alcuno
non avesse indicato ov’ei giaceva
agli assassini? Ch’ei fosse pur giunto
ignoravan: ma tua tutta è l’insidia.
ettore
Da tempo già, da che l’argivo esercito
la nostra terra invase, ebbi commercio
con gli alleati, e taccia di misfatto
niuno m’inflisse mai: primo tu sei.
Mai di cavalli tanto amor m’invada,
che per esso gli amici a morte io ponga.
Fu d’Ulisse l’impresa: ordirla e compierla
quale altro argivo pote’ mai? Timore
egli m’incute; ed il timore m’agita
che trovato abbia e spento anche Dolone:
ch’egli da tempo è lungi, e non appare.
auriga
Questo Ulisse che dici io non conosco;
ma nemico non fu chi noi trafisse.

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ettore
Pensa cosí, se vuoi cosí pensare.
auriga
Ché non morii sopra il tuo suolo, o patria!
ettore
Troppa dei morti è già la turba. Vivi.
auriga
Orbo del mio Signore, ove rivolgermi?
ettore
Avrai sotto i miei tetti albergo e cure.
auriga
La mano che fería, curarmi? E come?
ettore
Ripeterà costui sempre un sol detto?
auriga
Possa morire chi colpia. Su te,
se vero è ciò che affermi, il mal che impreco
non può cadere; e sa Giustizia il vero.

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ettore
Sia sollevato, alla mia casa addotto,
né muover lagni debba. E voi, movete
entro le mura, e a Priamo ed ai vegliardi
rimasti lí, dite che ai morti, presso
alle pubbliche vie sepolcro diano.
coro
Perché mai, dopo tanta ventura,
fra novelli cordogli un Iddio
spinge Troia? Che affanni prepara?
Appare in aria la Musa, stringendo fra le braccia il corpo esanime di Reso.
Ahi, ahi, oh oh!
coro
Qual dei Numi si libra sui nostri
capi, o re, fra le braccia stringendo
la salma recente? Contemplo
il doglioso prodigio e stupisco.
Chinano la fronte, si nascondono gli occhi.
musa
Gli occhi, o Troiani, a me volgete: io sono
delle nove sorelle una: la Musa
madre di Reso io sono, ai vati cara.
E venni qui poiché mio figlio vidi

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barbaramente dai nemici ucciso.
Ma chi l’uccise, il frodolento Ulisse,
degna pena pagarne un dí dovrà.
canto
Strofe
Con accorata nenia
te piangerò, mio figlio,
te, di tua madre cruccio,
quando movesti a Troia.
Tristo il viaggio fu, gli auspíci tristi:
ch’io rattenerti volli su quel tramite,
ti scongiurava il padre; e tu partisti.
Diletto, oh, quanto duolo
è il mio per te, diletto mio figliuolo!
coro
Per quanto a me, che a lui non son di sangue
stretto, s’addice, anch’io piango tuo figlio.
Antistrofe
Deh, muoia il germe d’Eneo,
e di Laerte il germine,
che me d’un fulgidissimo
figlio ha privato; ed Elena
muoia, che vagabonda al frigio letto
giunse dalla tua reggia, e a te miserrima
fine sotto Ilio inflisse, o mio diletto.
E quanti tetti e quanti
vuoti furon per lei d’eroi prestanti!

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Quanta doglia da vivo e quanta, sceso
poi nell’Averno, o figlio di Filammone,
tu recasti al cuor mio! Ché l’arroganza
che ti perdé, la gara con le Muse
cagione fu che questo figlio misero
io generassi; ché nell’almo talamo
fui di Strimone trascinata, mentre
la corrente del fiume attraversavo,
il dí che del Pangèo verso le balze
d’oro movemmo noi, Muse, recando
i musici strumenti, al gran cimento
di melodia, col gran vate di Tracia,
e Tamíri, che noi per l’arte nostra
vituperato avea, cieco rendemmo.
E come poi ti partorii, per onta
delle sorelle mie, della perduta
verginità, nei vortici del padre
fluvial ti gettai: né lo Strimóne
t’affidò per nutrirti, a man di donna,
ma dei fonti alle Ninfe. E qui, cresciuto
mirabilmente da virginee mani
fosti, o figliuolo, e il primo eri fra gli uomini,
imperando sui Traci. E che dovessi
spingendo a guerra le cruenti schiere
nella patria morire, io non temevo;
ma ti vietavo che venissi a Troia,
ché conoscevo il tuo destin. Ma d’Ettore
le frequenti ambasciate e i mille inviti
t’ebber convinto a sostener gli amici.
E della strage Atena è sola autrice.
Non la compieva Ulisse, e non il figlio
di Tidèo, pur compiendola: non credere
che ignara io sia di ciò. Pure, alla tua

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città rendiam piú che ad ogni altra onore,
frequentiam quella terra; ed i segreti
degli arcani misteri Orfeo svelò,
cugino di costui ch’ora tu spengi.
E il tuo concittadin santo, Museo,
che tanto si levò su tutti gli uomini,
Febo, e noi, sue sorelle, ammaestrammo.
Ed ecco il premio: fra le braccia stringo
il figlio, e sopra lui levo la nenia
funebre: ch’io non cerco altro poeta.
coro
Ettore, a torto, dunque, il tracio auriga
che tu l’avessi ucciso t’accusò.
ettore
Tutto io sapevo; e per saper che Ulisse
con l’arti sue l’aveva ucciso, d’uopo
di profeti non era. E quanto a me,
quando io vedevo la mia patria invasa
dall’esercito ellèno, ambasciatori
non dovevo mandar forse agli amici,
per chiamarli al soccorso? Io li mandai.
Con me, come ei dovea, giunse a combattere:
è morto, e assai men duole. E adesso, pronto
sono ad alzargli un tumulo, e la pompa
seco a bruciar di mille vesti: ch’egli
giunse amico, e perí di morte misera.

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musa
Nelle latèbre della terra oscure
esso non scenderà: tanto di Dèmetra
Dea delle spighe io pregherò la figlia,
sposa al Signore di laggiú, che l’anima
del figliuol mi conceda; ed essa ha l’obbligo
con me, che onor palesemente rendo
agli amici d’Orfeo. Ma d’ora innanzi,
per me sarà come se morto ei sia,
né luce vegga piú. Perché trovarsi
dove io mi trovi, e della madre il volto
vedere, ei non potrà. Dell’argentífera
terra nascosto negli oscuri anfratti,
uomo e Nume sarà, vivo e sepolto,
come di Bacco il sacerdote ch’abita
l’alpe di Pange, e pei veggenti è Nume.
E per la Dea del mar breve il mio cruccio
sarà: ché morir deve anche il suo figlio.
E noi, sorelle Muse, i canti funebri
intoneremo per te prima, e un giorno
per il figlio di Teti, Achille: Pallade
che uccise te, salvar non lo potrà:
tale una freccia la farètra serba
per lui d’Apollo. Oh angosce che la nascita
dei figli arreca! Oh come un uom di senno
senza prole vorrà vivere, senza
dare sepolcro ai figli a cui die’ vita!
coro
Cura la madre avrà che i riti funebri
sian compiuti per lui. Tu, se qualche ordine

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impartir ci volessi, Ettore, affréttati,
ché l’ora è già. Del dí la luce è questa.
ettore
Movete dunque, ed impartite l’ordine
agli alleati che in gran fretta s’armino,
e il giogo al collo dei corsieri adattino,
e, con le faci in pugno, il suono attendano
della tromba tirrena. Oltre l’esercito
ed oltre il muro degli Achivi irrompere
confido oggi, e le navi ardere e struggere.
Sarà foriero il sol che i raggi approssima
del dí che Troia dai nemici liberi.
coro
S’indossino l’armi, si muova,
del Sire s’adempiano
i comandi, e da noi gli alleati
li apprendano, e il Demone
che ci assiste, ci dia la vittoria.
Partono tutti.