Quattro Milioni/XVI
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XVI.
La sua risoluzione era dettata da parecchie cause. Riguardo al processo della sua amante, egli faceva come si suol dire, un viaggio e due servigi. Si levava da un luogo dov’era diventato come la gran bestia, mostrato a dito fin dai monelli, e protestava nello stesso tempo contro suo padre, ch’egli supponeva essere stato il motore della macchina. Riguardo alla Ida, egli si liberava di lei che sentiva di non amar più come prima. Scettico e debole per natura, egli si era lasciato a poco a poco influenzare dall’ambiente avverso. Senza accorgersi, senza volerlo, s’era lasciato invadere da una specie di uggia, che gli dava un tormento indicibile. La prova così limpida, così incontrastabile della innocenza della Ida gli si era offuscata a poco a poco nella mente, dinanzi alla certezza contraria del giudice istruttore, del procuratore del re, della deposizione della levatrice, degli articoli de’ giornali e della voce pubblica, che si scagliavano contro la presunta rea. Gli sarebbe stata necessaria una dose enorme di fermezza e di forza morale per lottare contro tante influenze avverse, ed ei risolse di partire.
Ida lo lasciò andare senza rimpianti. Ella sentiva già di amare passionatamente il fiero Spagnuolo, che nel difenderla e nel crederla innocente spiegava invece una convinzione e una forza d’animo ammirabili.
Fu un bel giorno di agosto, che Ida, uscita a piede libero dal carcere, cedette per la prima volta ai furenti scoppi di amore, coi quali Gonzalo la circonfondeva.
Quella donna a lui pareva sempre il capolavoro della creazione, e la tinta caldamente colorata di quella sua pelle morbida e vellutata, e que’ capelli color di fiamma, e quelle labbra tumide e lascive lo gettavano in certe estasi e in certi sussulti, che la Ida non aveva mai sospettati neppure in ombra nel suo primo amante.
Come un’aquila che si abbatte sull’agnello staccato dal branco, Gonzalo una sera aveva preso a mezza vita il suo angelo adorato, e aveva sentito con indicibile beatitudine quel suo corpo senza busto piegarsi come giunco su di lui, abbandonato e vinto, sotto i palpiti dell’amorosa stretta.
Egli partì dalla casa di Ida, pazzo di amore, e tornato a casa ancora scottante delle carezze e degli amplessi della sua nuova amante, Gonzalo sciorinava all’aria aperta il suo panciotto colla testa più alta del solito, e con un sorriso da pretendente a cui una deputazione del voto universale avesse recato le chiavi di una capitale e di un regno.
La splendida luna di miele, senza la più piccola nube, durò circa un mese. Ma col carattere di Don Gonzalo era durata fin troppo.
La gelosia, la furente gelosia, che era pur sempre stata latente nel suo animo, ma che nei primi giorni non trovò modo nè appiglio di scoppiare, scoppiò un bel giorno improvvisamente.
Il marchese Salvador era un po’ come il Nemorino della Sonnambula. Era geloso del zefiro errante, geloso dell’ombra che la Ida projettava passeggiando al sole, geloso del cucchiaio, della forchetta, del bicchiere, del tovagliolo, dello spazzolino che toccavano le labbra e i denti di lei, geloso del calzolaio che le calzava gli stivaletti, della sarta, della modista, della bustaia che le provavano gli abbigliamenti.
Egli avrebbe voluto mettere la sua Ida in una camera, dove nessuno, fuori di lui, avesse a parlarle, a sorriderle, a trovarla bella, a toccarla, a vederla.
La causa della prima escandescenza gelosa era stata una lettera del duca, il quale le aveva scritto da Alessandria sul Nilo.
Ella si era dimenticata di fargliela vedere, e lui l’aveva trovata frugando nel cassetto del tavolino da notte, dove la fanciulla l’aveva deposta dopo averla scorsa abbastanza sbadatamente la sera dianzi.
Il fondo del carattere di Gonzalo era la diffidenza. L’orgoglio spagnuolo esagerava continuamente in lui i sospetti.
Era sempre stato così con tutti e con tutte.
La Ida si scusò, pregò, finse di andare in collera, mentre in cuor suo quegli impeti le piacevano assai. Ma ce ne volle per farsi credere sincera. E gli non ammetteva ch’ella avesse potuto scordarsi di dargli da leggere quella lettera. Egli aveva l’abitudine di frugar sempre in tutti gli angoli, in tutti i ripostigli dell’appartamento, d quale voleva che la Ida sloggiasse immantinenti, non potendo soffrire di amarla in quel luogo dove ella aveva poco o molto amato un altro uomo.
Ida si sentiva dominata da quel carattere fermo, impetuoso, ardente.
Si sentiva ridiventata adolescente, ella che pur non toccava ancora i ventidue anni. Si sentiva rinverginata in quell’amore potente, persuasivo, insaziabile del suo Gonzalo. Ella che non aveva ancora provato nessuna delle forti emozioni e delle supreme dolcezze di un amore corrisposto, ella che non era mai uscita senza un certo rincrescimento dai moderati abbracci del duca, a cui si era concessa più per necessità che per trasporto, si trovava ora tutta mutata e compresa da una felicità nuova e completa. La violenza delle sue sensazioni la spossavano, ma la rendevano beata, ed ella si lasciava portare da una specie di fatalità in cui aveva fiducia, immersa nella sua voluttà, senza pensar all’avvenire che le si preparava.
Mai non le era accaduto di goder tanto dinanzi allo specchio, ora ch’essa si faceva bella solo per lui. Degli omaggi altrui non le importava più nulla. E come capiva di essersi ingannata quando aveva creduto di amare Raimondo!
I mesi, adunque, che corsero dalla partenza del duca fino l’annuncio del dibattimento che le fu improvvisamente indetto per la Corte d’Assise, furono per lei pieni di gaudio, e s’avverarono in lei dei portenti di affetto, di obbedienza, di rimessione, di tenerezza verso il fiero Spagnuolo, che aveva saputo conquistarla col suo braccio di ferro.
Sciaguratamente la procedura doveva guastare d’un tratto quella relazione così bene avviata.
A lei sarebbe toccato fra qualche giorno di tornare in prigione, giacchè la legge italiana esige che il piede libero cessi una ventina di giorni prima che si apra un dibattimento in Corte d’Assise.
Il marchese non potè ottener nulla in suo favore.
Due sere innanzi a quella in cui le toccava di costituirsi in carcere, la povera fanciulla in pendeva dal labbro di Gonzalo, a cui faceva promettere che qualunque fosse stato l’esito del dibattimento egli l’avrebbe sempre creduta innocente e non l’avrebbe abbandonata.
Gonzalo glielo giurò; ma prima di aggiungere un’altra promessa che teneva in cuore e non si era ancora lasciata sfuggire dal labbro, la pregò di raccontargli la sua vita passata e la storia della sua famiglia.
A Ida brillarono gli occhi di gioja. Cessò dal lagrimare.
Allora ella andò a uno stipo, aperse un ripostiglio segreto e ne trasse una cassettina, su cui stava ricamato in argento uno stemma principesco.
Un lungo sospiro le uscì dal petto. Gonzalo la stava aspettando in piedi commosso ed impaziente.
Ida gli posò nelle mani il cofanetto, lo pregò di aprirlo e disse:
— Una volta mi dicesti che se tu sentissi di amare una donna al punto da doverla sposare, saresti pronto a passare anche sopra a tutti i pregiudizi, e non baderesti nemmeno se ella fosse o non fosse plebea e magari illegittima.
— È vero - rispose Gonzalo - e se quel giorno dovesse venire per te, io sarei sempre di questo avviso.
— Ebbene - ripigliò Ida - giacche or ora tu hai chiesto la storia della mia vita e della mia famiglia, io posso dimostrarti, che se tu mi credessi degna di diventar tua per sempre, io ti risparmierei anche qualunque sagrificio di amor proprio, giacchè io sono la figlia primogenita del principe Stanislao Dimbowsruki di Pietroburgo, e sono nata per caso in Italia nel suo lungo viaggio di nozze.
— Possibile! - sclamò Gonzalo ebbro di gioja - Tu sei dunque dei nostri?!
Ida aprì il cofanetto e ne trasse un pacco di lettere ingiallite dal tempo, alcune orlate a lutto, poi due ritratti in miniatura, uno di un gentiluomo, che all’aria del viso non si sbagliava a crederlo russo, l’altro di una giovine donna di sfolgorante bellezza.
— Questo è il ritratto di mio padre - disse Ida; questo è di mia madre, e queste sono le lettere ch’egli le scrisse, nelle quali si parla di me. Quest’è la mia fede di battesimo - ripigliò, spiegando un altro foglio, - col mio vero nome di Ida Dimbowsruki. Evanieff è il mio nome di guerra.
E gli consegnò il pacchetto soggiungendo:
— Leggerai a casa con tuo comodo.
Gonzalo intanto andava in estasi dinanzi alla miniatura della madre di Ida, che riproduceva forse ancora più in bello i tratti della sua adorata fanciulla.
— Ora - disse ella, sedendosi con grazia e invitando Gonzalo a far lo stesso a’ suoi piedi, sullo sgabellino - vuoi tu sentire la mia storia?
— Sì, angelo mio, sono curiosissimo.
— Non credere ch’essa sia molto romantica.
È sciaguratamente una brutta storia, ed in parte è quella di molte donne russe.
Gonzalo le prese le due mani, le raccolse nelle sue, portò la punta delle dita alle labbra e si curvò verso di lei in atto di chi sta ascoltando.
— Devi sapere dunque che mio padre aveva preso servizio nell’esercito al tempo della guerra di Crimea. Aveva ventisei anni, e partì col suo reggimento col grado di capitano. Laggiù sulle rive del Mar Nero si innamorò di mia madre, ricca armena, e la sposò nel 1854.
Finita la guerra, egli tornò illeso a Mosca con sua moglie; a Mosca dove il suo reggimento aveva stanza. Io non mi ricordo di mia madre. Essa morì che io avevo sei anni, e mio padre andò in fil di vita pel dolore. Egli non mi amava perchè io avevo avuto il torto di non essere un maschio. Mi ricordo che un giorno, tornati a Pietroburgo - avrò avuti un dieci anni - la mia istitutrice avendo prese le mie difese fu schiaffeggiata da mio padre, che la fece poi cacciar a frustate dal palazzo. Egli allora non era più militare; aveva date le sue dimissioni e s’era ritirato in campagna. Io crebbi fra i figli della servitù fin verso i dodici anni, e fu allora che dovetti accorgermi come mio padre cominciasse a non vedermi più tanto di mal occhio. Un giorno il suo vecchio cameriere, che mi adorava, mi prese per mano e mi condusse da lui dicendomi ch’egli mi voleva vedere. Montammo le scale ed entrammo ambedue commossi in una vasta sala dove stava di solito mio padre a leggere e a fumare; Egli sedeva in un gran seggiolone, ed io corsi a lui coi segni del più vivo affetto; allora per la prima volta egli mi sollevò da terra, mi fe’ sedere sulle sue ginocchia, mi mise le mani nei capelli, accarezzandomi, e mi baciò in bocca.
Quel bacio di mio padre fu per me uno dei fatti che m’abbiano recato la maggior impressione di mia vita.
Da quel giorno, fino a quello della sua disgrazia, io non ho più lasciato solo mio padre. Egli mi disse ch’era stata la mia voce quella che lo aveva commosso al punto da farlo mutare completamente di maniere a mio riguardo. Io dormivo in una camera vicina alla sua, pranzavo sempre con lui e lo accompagnavo sul mio puledro a caccia per monti e valli. Allora abitava in un castello nelle montagne sulle rive del Volga. A quattordici anni io ero già una vera amazzone e sfidavo a stare in sella i migliori cavallerizzi di Pietroburgo. Mio padre, che fino ai quindici anni aveva amato di vedermi vestita da uomo e fattimi tagliare i capelli mi faceva cavalcare come lui, con sella all’ungherese, godeva di vedermi così ardita. Alle volte, quando tornavo dall’essere stata fuori, sola a caccia, o a scorrazzar nella foresta a cavallo, egli diceva al vecchio cameriere: - Non è vero. Ivano, ch’ella sarebbe stato un fiero ragazzo? - Questo era stato sempre fino allora il suo gran rammarico, tanto che io pregavo spesso la Madonna di potermi svegliare qualche mattina cambiata in maschio.
Io ero come il più indomito giovinetto addestrato a tutti gli esercizi maschili. Cavalcavo come un centauro, nuotavo come un pesce, tiravo di scherma e a quindici anni ero già donna nel mio pieno sviluppo.
Se non che, un giorno, mio padre mutò assolutamente d’idea verso di me. Egli aveva talvolta un contegno strano, misteriosissimo, inconcepibile. Egli volle che io ridiventassi donna, e il più donna che mi fosse possibile.
Delle arti femminili io non conoscevo che un poco di musica e di canto; ma in quanto a ricamare, a cucire e far altri lavori femminili, assolutamente nulla. Ero così indietro, che quando egli mi pregò di fargli una borsa pel tabacco, non volendo ingannarlo commettendola a Varsavia, lo feci ridere per una settimana del mio lavoro che era riuscito uno sconcio.
C’era, come dissi, nel modo con cui mi trattava mio padre, qualche cosa di segreto e di tenebroso. A volta a volta egli mi adorava, poi non mi voleva più vedere per più giorni.
Anche nella sua vita c’era del fosco. Spesso stava assente dal castello per più giorni e nessuno sapeva indicarmi dove egli andasse.
Una volta, che io gli parlai di mia madre, lo vidi scoppiar in lagrime e mi baciò passionatamente. Egli aveva nella sua camera da letto una specie di altare, dove il ritratto di mia madre stava al posto in cui ci avrebbe dovuto essere quello della Madonna. Ma dopo che io compii i sedici anni, quell’altare scomparve.
Finalmente venne la catastrofe. Un giorno egli mi prese in fretta e in furia e mi disse che era necessario fuggire. Stavano per arrestarlo come involto in una cospirazione, non so bene se di nichilisti o di altro. Viaggiammo prima due giorni in slitta, sempre a gran galoppo, poi colla strada ferrata sino al confine, che passammo senza difficoltà.
Eravamo in salvo.
A Parigi arrivammo con pochi danari, che egli aveva raccolti repentinamente e colle mie gioje, eredità di mia madre, che io non avevo mai sfoggiate ancora in nessuna occasione. Esse valevano circa quarantamila rubli. Due mesi dopo, venne la notizia a Parigi che lo Czar aveva sequestrati tutti gli immobili, i mobili, i valori e i crediti di mio padre, il quale non aveva mai avuta la precauzione di mettere delle somme in sicuro sulle banche estere.
Vendetti le mie gioie - tranne questi orecchini, la sola memoria della povera mamma e ci costituimmo una piccola rendita di quattromila franchi. Io avrei voluto mettere a profitto la mia scienza di amazzone, ma egli non volle saperne, e il suo contegno verso di me diventò sempre più misterioso e strano. Egli amava che nessuno mi vedesse, passava con me le giornate intere, pregandomi sempre di stare al piano e di cantargli le canzoni del nostro paese, che io sapevo a memoria.
Qualche volta, come trasportato da un entusiasmo pazzo, egli mi stringeva al suo petto fino a levarmi il respiro, mi baciava passionatamente, poi fuggiva come inorridito di sè stesso e non si lasciava vedere per qualche giorno.
In breve. Tu, Gonzalo, avrai già capito. Mio padre s’era innamorato di me, come non è permesso di innamorarsi ad un padre. Il mio dubbio prese a poco a poco un’orribile consistenza; quanto più egli lottava colla sua impossibile passione, tanto più essa lo stringeva nel proprio laccio. Come puoi imaginare, io non osavo neppure di dargli l’ombra del sospetto che mi fossi accorta di tale mostruosità. Accettavo le sue carezze come figlia amorosa. D’altronde io ero ancora innocente come una bambina; ma l’istinto non m’ingannava. Ora che so tutto, fremo sempre pensando a ciò che poteva accadere se non avessi preso la risoluzione di fuggire da lui. La crisi stava per scoppiare. Una notte, mentre io ero già andata a letto, egli mi comparve in camera con un pretesto. Egli era brillo, e fu ancora il mio contegno da bimba ingenua che lo disarmò e lo fece rinsavire. Fui salva.
Il giorno dopo, con 500 franchi che avevo saputo mettere a parte senza ch’egli se ne accorgesse, partii da Parigi, lasciandogli una lettera nella quale gli dicevo che mi ero lasciata rapire da un uomo, di cui ero perdutamente innamorata; che non tentasse di seguirmi, perchè gli sarebbe stato impossibile di raggiungermi, ancorchè avesse scoperta la direzione da me presa; che fra quindici giorni gli avrei scritto, e che se egli mi avesse perdonata la mia fuga e mi avesse dato prove di voler essere un vero padre, gli avrei fatto sapere dove fossi andata a rifugiarmi.
Il mio progetto era di arrolarmi come cavallerizza in qualche compagnia equestre e di approfittare intanto del dono della mia voce, che avevano trovata tutti eccellente, per mettermi sul teatro. Giunta a Torino, mi presentai or sono tre o quattro anni a Guillaume, che mi accettò a braccia aperte. Assunsi il nome di madamigella Evanieff, e lavorai nel suo circo qualche tempo presentandomi come écuyère di alta scuola. Con lui andai a Napoli e in altre principali città di Italia. Fui a Vienna con Renz, finchè un giorno in una caduta da cavallo mi ruppi un braccio e dovetti rinunciare per molto tempo all’arte. Mi diedi allora a studiare più che mai il canto e venni qui per perfezionarmi. Mio padre era rinsavito, e non mi obbligò a tornare con lui. Egli aveva trovato a Parigi un modesto impiego, coi quale viveva; e quando io, dopo la caduta, mi trovai in istrettezze, mi mandò il denaro della mia rendita fatta col ricavo dei gioielli di mia madre. Il resto lo sai. Quando mio padre si ammalò e non potè più mandarmi la mia mensilità, io fui obbligata di chinar il capo, e il signor duca Raimondo potè vantarsi pel primo di avermi conquistata.
— Dunque egli fu veramente il tuo primo amante? - domandò Gonzalo con una gioia raggiante.
— Lo posso giurare.
— Principessina Dimbowsruki - disse lo Spagnuolo prendendole la mano - io ti prometto che, qualunque sia l’esito del tuo processo, tu sarai mia moglie.