Quattro Milioni/XVII
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XVII.
La curiosità aveva attirata nel cortile del palazzo una discreta folla; la quale, non appena furono aperti i battenti della sala, fece la solita irruzione lasciando di fuori due terzi degli sfaccendati.
Voglio esser breve, giacchè i prodromi dei dibattimenti s’assomigliano tutti e annoiano.
n seggio del pubblico ministero era occupato dal commendatore Virginio, il quale s’affaccendava a ripassare le carte del processo, che si teneva dinanzi, facendo mostra di leggerle mentre pensava a tutt’altro.
Egli pensava a scrutare sui volti dei giurati le probabilità della vittoria.
E diceva fra sè:
— La maggioranza è composta di padri di famiglia, di onesti cittadini, di buoni e morigerati negozianti, a cui quella donna dovrebbe far orrore, pensando ai lacci permanenti che simili creature tendono ai loro figli inesperti. Quanto agli altri quattro: uno, intanto, s’è lamentato d’essere stato menato per il naso da lei; dunque sono certo di averlo dalla mia: l’altro è l’amante di una donna che so odiar a morte la Evanieff e che, non dubito, per non dispiacere alla bella, non vorrà commettere il madornale errore di assolvere quella rea. Gli altri due, non saprei... Ma la faccia loro mi è di buon augurio!
Ida, tutta vestita di nero, pallida come un cadavere, era interessantissima.
La levatrice Marchisella, invece, era rossa come una biètola, e vestiva di verde.
Esaurite le prime formalità, cioè la presentazione dei testimoni, l’identità degli imputati, e la lettura di non so qual documento, fatta con voce monotona dal cancelliere, - il signor presidente, vecchio venerando dalla testa pelata come un ginocchio e dalla barba candida e fluente, si rivolse al pubblico ministero e lo invitò a pronunciare l’atto di accusa.
Il commendatore Virginio allora sorse in piedi, e lesse una lunga requisitoria, da cui, col potere discrezionale che è concesso ai romanzieri, mi permetto di levare i punti più salienti.
«Una sera dello scorso febbraio una carrozza si arrestava verso le undici alla porta d’una casa di via...., segnata col numero 12, e ne discendeva una levatrice, la quale era stata incaricata di portare alla fanciulla che dimorava al primo piano di quella casa un bambino da lei poco prima avuto da una madre povera, la quale credeva ch’ella l’avesse portato all’ospizio dei Trovatelli.
«Chi erano quella fanciulla e quella levatrice? Eccole entrambe sedute a noi dinanzi, signori giudici, signori giurati: la prima e la nominata Ida nata principessa Dimbowsruki, detta Evanieff, di professione cavallerizza; la seconda è la nominata Orsola Marchisella, levatrice approvata.»
Un vivo mormorìo di sorpresa e di interessamento s’elevò nella folla quando il procuratore disse che l’imputata era nata principessa. I giornali non ne avevano mai fiatato. Ida non aveva mai voluto dire dove fosse nata, nè quanti anni avesse, nè chi fosse suo padre, e s’era arresa soltanto negli ultimi giorni, quando Gonzalo e l’avvocato le ebbero detto che ciò le avrebbe giovato, più che nociuto, nel dibattimento.
Il procuratore continuava intanto.
«L’evidenza del reato non ha bisogno di essere dimostrata. Non appena la Marchisella fu interrogata dopo il suo arresto, essa non solo non negò il proprio delitto, ma, con una sincerità di cui certamente le sarà tenuto d debito conto, indicò senza ambagi la sua correa e rese più facile il lavoro della giustizia.
«E valga il vero! Che interesse potrebbe avere la Marchisella a ingannare la giustizia?
Stretta da ogni parte dalla evidenza dei fatti e delle testimonianze, che noi abbiamo saputo accumulare contro di lei, forzata ad ammettere di avere fatto scomparire un bambino, che secondo la intenzione della madre avrebbe dovuto trovarsi nell’Ospizio dei Trovatelli, la levatrice fu obbligata a declinar il nome della finta puerpera, a cui essa lo aveva portato per simulare un parto. E questa finta puerpera è appunto la Ida Dimbowsruki detta Evanieff, la quale dal canto suo non ebbe una sola parola, una sola ragione, un solo lampo da contrapporre alla asserzione della sua levatrice.
«La confessione di questa donna non si è ancora potuta ottenere nello stadio dell’istruttoria. Spero che il nostro onorevole presidente sia più fortunato. Ad ogni conto, è mio dovere in questo atto di accusa il toccare per sommi capi le ragioni per le quali, a malgrado della sua insistente negazione, la giustizia ba creduto di ritenerla rea.
«Innanzi tutto, la sua posizione sociale. Essa è pur troppo una delle molte avventuriere, che infestano la società onesta e che in essa menano la rovina materiale e morale. In secondo luogo, la sua relazione con un ricco signore, il quale dalla credenza di esser divenuto padre, quantunque illegittimo anzi adulterino, si sarebbe trovato a lei avvinto da più stretti e solidi legami.
«Finalmente le testimonianze avverse, dalle quali si può ragionevolmente dedurre non essere ella mai stata incinta, e la voce pubblica concorde nell’accusarla di quella finzione, mi danno la incrollabile convinzione della sua reità.
«In conseguenza conchiudo:
«Ida nata principessa Dimbowsruki detta Evanieff, e Orsola Marchisella levatrice, essere accusate di avere la notte del febbraio 18** commesso volontariamente il delitto contemplato dal codice penale all’articolo ecc. con una vera e propria simulazione di parto e sostituzione d’infante.»
La levatrice aveva ascoltato questa lettura con una faccia da ebete.
La Ida invece aveva tenuta la sua testolina piegata in basso, e non aveva dato altro segno di vita che un leggero fremito di tutte le membra ogni volta che il procuratore formulava contro di lei qualcuna delle sue stolide accuse.
Allora il presidente si volse alle due donne e così loro rivolse la parola:
— Signora Dimbowsruki, e signora Marchisella, loro hanno udito che il pubblico ministero le accusa del reato di simulazione di parto e di sostituzione d’infante. Che cosa ha a dire lei, signora Dimbowsruki, a sua difesa?
Ida sollevò la testa con un movimento pieno di energia e rispose:
— Nulla!
— Nondimeno ella ha sempre negato di avere commesso questo delitto.
— Certamente, e lo nego ancora.
— Ma il negare non basta - ripigliò il presidente - Bisogna dire le ragioni che valgano a dimostrare che tale negazione è vera. Noi non siamo qui col preconcetto di condannare. Noi vogliamo fare la luce. Bisogna distruggere tutti gli indizi sfavorevoli, sforzandosi di far entrare nell’animo dei signori giurati la convinzione della propria innocenza.
— Ma come lo potrei - rispose Ida - se loro mi hanno trascinata fino a questo estremo punto? Come io potrei, se loro credono piuttosto a chi mi accusa che a chi mi ha pienamente difesa colla propria testimonianza? Oramai io non posso far altro che sfidare di nuovo la mia calunniatrice a guardarmi ben fissa negli occhi un solo minuto, come io guarderò lei, s’ella n’è capace.
Così dicendo, Ida si levò da sedere e fissò gli sguardi sulla levatrice che non aveva capito bene di che si trattasse.
— Ha udito? - disse il presidente rivolto alla Marchisella - la si alzi e ripeta qui in viso alla signora ciò che lei sostiene essere il vero.
La levatrice si alzò a stento dalla sedia cogli occhi che pareva cercassero un po’ di sicurezza ai mattoni del pavimento, e senza punto levarli in quelli della Ida sfolgoranti di sdegno, ripetè a voce bassa:
— Io sì... sostengo che è vero.
— Che cosa, che cosa? - sclamò la Evanieff.
La levatrice non rispose.
— Risponda - la eccitò il presidente - dica ciò che ha fatto e per ohi lo ha fatto.
— Ma no - rispose la levatrice - il figliuolo non l’ho fatto io.
Uno scoppio di risa, frenato immantinente dal campanello del presidente, s’intese nella folla.
— Non si dice che lei abbia fatto il figlio, ma che l’abbia portato alla Evanieff.
— Ah, questo sì! - rispose la Marchisella sempre a occhi bassi.
— E dove lo ha portato?
— Da quella donna lì - mormorò la levatrice.
— Ha udito? - ripigliò il presidente con visibile compiacenza, rivolto alla Evanieff.
— Ma non ha osato guardarmi in viso! - sclamò Ida rimettendosi sulla sedia con un inenarrabile sorriso di disprezzo.
La folla con un lieve grugnito mostrò di dar ragione alla levatrice.
— Bene - fece il presidente, dopo breve silenzio - ora, signora, dia ascolto a me e risponda alle domande che le verrò facendo.
La notte in cui sarebbe accaduto il reato e in cui, secondo lei, si sarebbe sgravata del bambino, chi c’era nella sua camera da letto?
— Il duca Raimondo Delpardo e la mia cameriera.
— E ci stettero finchè il bambino ebbe veduta la luce?
— No. Io pregai il duca di uscire appena la levatrice fu entrata.
Il grugnito della folla ostile alla imputata si fece più accentuato.
n presidente ne approfittò.
— E non le pare - diss’egli - che questa circostanza debba indurre nella giustizia un molto ragionevole sospetto?
— Io non so se la giustizia abbia o non abbia ragione di sospettare su un fatto che a me pare naturalissimo. Io so che questa è la verità.
— Ma perchè lei pregò il duca di uscire dalla camera?
— Siccome io comprendo che la mia risposta è di quelle che loro signori non sono disposti ad ammettere come probabili, giacchè il sentimento di pudore di una donna nella posizione in cui mi trovavo io, non è fra quelli che da lor signori vengono contati come indizi, così io mi taccio per non espormi al pericolo di vederlo anch’esso frainteso o calunniato.
La folla diede un nuovo segno di malcontento e di disapprovazione. Le donne specialmente bisbigliavano ridendo e ammiccando di qua e di là per la buona piega che prendeva il dibattimento contro la odiata mariuola.
— Chi è che andò a chiamare la levatrice? domandò il presidente dopo una certa pausa.
— La mia cameriera.
— Era la prima volta che lei vedeva la Marchisella, o l’aveva già veduta altre volte?
— L’avevo già veduta altre volte, giacchè il duca l’aveva mandata a chiamare per avere notizie sulla mia salute e sulle probabilità di un esito felice.
— Lei, signora Marchisella, che cosa dice su questo fatto?
— Dico che è vero.
— E che cos’avrebbe constatato lei nelle sue visite anteriori al reato?
— Che non era incinta.
Ida balzò sulla sedia come se fosse stata levata di scatto da una molla potente. Ma non disse nulla e obbedì al suo avvocato che le stava dietro e che le susurrò un: Calma, calma! eloquentissimo.
— Sente, signora Evanieff? La levatrice sostiene che lei non era incinta - ripigliò il presidente colla sua voce monotona e floscia - Che cosa contrappone lei a questa asserzione?
— Nulla.
— Dunque finalmente la ammette?
— Ah no per Dio! - sclamò Ida con impeto - Io non posso ammetterla, anzi la nego recisamente. Ma io non saprei umiliarmi al punto da andar a cercar le prove di un fatto di cui nessuno al mondo può essere più certo di me stessa. Io mi trovo circondata dal partito preso di calunniarmi, e vedo di non essere creduta, e so che non è neppur creduto il gentiluomo il quale aveva il supremo interesse di accertarsi che io ero la madre del proprio figlio.
— Lei fa troppo caso delle testimoniarne altrui - disse il presidente con un sorriso tra lo scettico e il beffardo. - Il tribunale vorrebbe sentire da lei la verità, e i signori giurati faranno delle testimonianze quel caso che crederanno di dover fare.
— Domando la parola - tonò l’avvocato difensore della Evanieff.
— Su che cosa? - gli domandò ironicamente 11 presidente.
— Sulla proposizione testò da lei enunciata.
— Dica pure, signor avvocato - rispose il presidente avanzando la testa per udir meglio la parola dell’oratore.
— Ella ha chiaramente formulato, già prima che il testimonio sia inteso, che a questo i giurati devono dar poca fede.
A tale uscita il presidente picchiò sulla tavola un colpo che fe’ trasalire uno dei due giudici, e gridò:
— Questo è falso, assolutamente falso. Questa è una insinuazione indegna della magistratura e della difesa.
L’interrogatorio di Ida Evanieff continuò per molto tempo su questo metro.
Anche un cieco, anche un sordo avrebbe scorso nel presidente la irremovibile convinzione della reità della fanciulla, e il proposito di condurre in modo il dibattimento che quella avesse a risultare anche ai giurati. C’era sul volto di lui quel risolino perenne, c’era nella sua voce un’intonazione di così marcata ironia, che si capiva essere impossibile che egli dovesse mutare di avviso ancorchè Gesù Cristo in persona fosse comparso a far testimonianza in favore della Evanieff.
A un certo punto, la coscienza della propria incolpevolezza e il sentimento della dignità offesa fecero nuova ribellione nell’animo della Ida, la quale rispose di non voler rispondere oltre, trovandosi troppo avvilita ed umiliata di dover spiegare la evidenza.
Il presidente annunciò che l’interrogatorio era chiuso e che si passava all’audizione dei testimoni.
Il primo ad essere udito fu il duca Raimondo Delpardo reduce dal Cairo.
Egli confermò punto per punto tutto quello elle aveva precedentemente deposto al giudice istruttore.
Il presidente e il procuratore ascoltarono il gentiluomo colla stessa aria colla quale egli era stato ascoltato dal cavaliere De Angelis.
Non dissero una sola parola, non mossero una sola domanda, e qualche volta anzi, a maggiore scherno, fecero qualche segno di assentimento.
Il duca, sempre calmo, dignitoso, modesto, quando fu congedato, passando vicino a Ida le stese la mano e le disse: Coraggio!
Il secondo testimonio chiamato dal pubblico ministero fu una bustaja, che serviva la Evanieff.
Essa entrò tenendo gli occhi bassi, visibilmente turbata.
E forse la prima volta che ella compare dinanzi a un tribunale.
Dopo le prime domande e le constatazioni, il presidente le domanda:
— Aveste voi occasione di andar in casa della imputata nei nove mesi in cui ella si dichiarava incinta?
— Sissignore.
— Vi siete accorta che la Evanieff fosse incinta?
— Ma ecco - rispose la bustaja - a dire la verità... - E s’arrestò.
— Parlate, parlate.
— Io non me ne sono mai accorta.
Un bisbiglio, misto di risa e di leggere imprecazioni, s’elevò nella folla.
Il procuratore del re, che stava colla testa appoggiata su una mano, si rizzò in tutta la persona e fu veduta la sua fisonomia rischiararsi per subitanea gioja.
Egli non contava su quel nuovo ajuto.
La Ida crollò mestamente il capo con un amaro sorriso.
Dopo avere scartabellato il processo verbale che si teneva dinanzi, il presidente disse:
— Ho il dovere di farvi osservare che questa circostanza riesce nuova in processo, giacchè voi non l’avete accennata al signor giudice istruttore. Anzi, dal contesto della vostra deposizione appare piuttosto che voi ammetteste la gravidanza della Evanieff.
— Mi sarò spiegata male.
— Può darsi benissimo. Ora dite chiaramente perchè oggi voi asseriate che ella non fosse gravida.
— Perchè si capiva.
— Perchè si capiva - ripetè il presidente dando uno sguardo verso i giurati.
— Vale a dire che le forme non erano tali in lei da lasciar credere che ella fosse incinta, non è vero?
— Sicuro.
— Che cosa ha da dire lei, Evanieff, su questa circostanza?
— Nulla.
— Dunque lei ammette?
— Giammai! - sclamò Ida di nuovo - Come potrei io ammettere un fatto assurdo? Può darsi che la mia conformazione sia tale da non lasciar apparire lo stato in cui mi trovavo. Ciò che io posso rispondere con sicurezza si è che quella fanciulla o mentisce ora spudoratamente, oppure ha mentito sempre in faccia mia, perchè ella non mi diede mai la benchè minima occasione di supporre che ella non mi credesse incinta.
La testimone aveva impallidito ed era rimasta silenziosa.
— Avete sentito? - le domandò il presidente.
— Io non so che cosa dire. Capirà, signor presidente, che io non volevo certo andar a dire alla mia pratica che mi pareva che ella fingesse d’essere incinta mentre non lo era.
Questa risposta era plausibile e fece un effetto eccellente sull’animo dei giurati, che cominciarono a persuadersi della reità della Ida.
Ad aggravare enormemente la posizione di lei, si aggiunse poco dopo la deposizione della sarta.
Anch’essa dichiarò di non essersi mai accorta che la Evanieff fosse in istato interessante.
Anche a lei il presidente fu obbligato di contrapporre l’esame fattole dal giudice istruttore, nel quale essa aveva invece deposto, pur senza formale affermazione, che ai due abiti fatti alla Ida durante i nove mesi aveva tenuta una misura più larga in vita di venti centimetri.
— Naturalmente! - rispose la sarta - È stata lei a volerli così, e noi, già si sa, attacchiamo l’asino dove vuole il padrone.
— Dunque lei non ha proprio mai creduto che la Evanieff fosse incinta?
— Mai, mai.
Non è mia intenzione riprodurre intero questo dibattimento.
Dirò soltanto, che, suffragato da tante prove in favore dell’accusa, non riuscì difficile al procuratore del re il sostenere la propria tesi, mentre fu enormemente difficile all’avvocato, il quale non poteva appoggiarsi che sulla testimonianza del duca, il difendere la propria cliente.
Chiuso il dibattimento, i giurati si ritirarono, e un’ora dopo uscirono dichiarando colpevoli le due donne - la Evanieff senza attenuanti, la levatrice con attenuanti. In forza di che, dal tribunale furono condannate la prima a cinque anni di reclusione e la seconda a due anni e mezzo.
Ida, udendo la sentenza e l’approvazione con cui era stata accolta dal pubblico, svenne.
La Marchisella con un sorriso idiota sclamò: - Due anni e mezzo passano presto! Nel volume, che farà seguito a questo, e che sarà intitolato Il tenebroso intrigo, si vedrà m che modo Don Gonzalo e Stambecchi riuscissero poi a scoprire la trama in forza della quale era stata condannata la Ida e... qual esito avesse...
Ma non precorriamo gli avvenimenti.
Chi leggerà, vedrà.
finis