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Ai lettori II
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no dei tanti avvocati, che, per mia mala sorte, ho dovuto consultare nella mia vita burrascosa, mi diceva un giorno, che, fra qualche tempo, quelli che verranno, si maraviglieranno assai dei due codici che servono a regolare certi diritti e certi doveri dei cittadini, ed a punirti quando essi li trasgrediscono.

— Fra cento anni, mi diceva, tutte le idee sulla proprietà, e sul delitto, che noi abbiamo ereditate dai nonni, saranno ricordate come curiosità archeologiche, come facciamo noi adesso per la tortura, la scomunica, la prova del fuoco, che nel medio evo erano tenute per rispettabili ed erano rispettate. [p. 10 modifica]

I lettori non si spaventino, se io, donna, ho voluto cominciare con questo esordio poco femminile.

Non sono io che parlo, è il mio avvocato.

Quella specie di religione, per esempio, colla quale noi consideriamo per inviolabile l’ultima volontà dei defunti, anche quando essa impone condizioni contro natura o gravide di conseguenze funeste, e nè più nè meno che un avanzo di barbarie, una superstizione indegna di gente civile.

E certe procedure barocche, con cui si lascia piena facoltà a certi procuratori della legge balordi o pornografici di agguantare e di metter in stato d’accusa chi loro pare e piace, faranno sorridere sdegnosamente di commiserazione gli uomini del secolo XX. Vi giuro che gli uomini del secolo XX sono una grande risorsa per gli avvocati filantropi del XIX felicemente decrepito.

In tutti i giornali di una città di questa nostra bella Italia, città che è perfettamente inutile di nominare, un giorno di febbraio 187... [p. 11 modifica] si leggeva nell’ultima colonna di terza pagina questo modestissimo, sincero e straziante avviso di morte:

«Il conte Gabriele Rocca-Serena, grande ufficiale dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e Senatore del Regno, e la contessa Brigida nata dei Principi Sergardi Fracassa di Silavegna sua consorte — la marchesa Eulalia vedova Trevisani nata dei conti Rocca-Serena — don Annibale Trevisani e donna Bice Argenti nata Trevisani — la contessa Eleonora vedova Rocca-Serena nata marchesa Ceriani Gandolfi e donna Clara Bianchetti nata Rocca-Serena — il marchese Galeazzo Tricorno e la marchesa Eulalia dei conti Rocca-Serena sua consorte — don Carlo Tricorno e la principessa Adelina Ormenti Sparati Gabba di Crevacuore, nata dei marchesi Tricomo — il conte Bario di Rocca-Serena e la contessa Annetta sua consorte e il contino Eleuterio minorenne loro figlio — annunciano col più profondo e inconsolabile dolore la morte della loro amatissima Eleuteria Stambecchi, vedova del marchese Emanuele Tricorno e nata dei conti Rocca-Serena, che era di loro rispettivamente sorella, suocera, cognata, zia e prozia, rapita al loro affetto nell’età di 79 anni con tutti i conforti della nostra santissima religione ecc.» [p. 12 modifica]

— Chi mai avrebbe detto che quella matta d’una Eleuteria Stambecchi avesse tanti parenti aristocratici! - sclamò un assiduo lettore di annunci mortuari che aveva conosciuto la defunta, e s’era trovato in casa sua con molta canaglia.

Donna Eleuteria nata dei conti di Bocca-Serena aveva portato, nel 1836, al suo primo marito il marchese Emanuele Tricomo, un mezzo milioncino di dote. Allora i Bocca-Serena erano, ancora in grande auge. Il quarantotto non li rovinò, ma diede loro un fiero calcio... nel patrimonio avito.

Il marchese Tricomo che non s’annasava con suo fratello Galeazzo il quale aveva sposato anche lui una Bocca-Serena, aveva lasciato tutto il suo avere a sua moglie donna Eleuteria, che si era trovata, nel 1847, già matura di senno e di età, padrona di circa tre milioni e mezzo di sostanza.

La vedova Tricomo era una donna molto bizzarra e debole di cuore. Un certo signor Alfonso Stambecchi, assai bell’uomo e [p. 13 modifica] nerboruto, che le bazzicava per casa, vivente il marchese, la accivettò così bene, che riusci a farsi sposare, con grandissimo scandalo di tutti i quarti araldici del parentado.

Nondimeno, siccome, passata la luna di miele, egli s’ubbriacava come un turco e la batteva disperatamente, ella si era separata da lui, dopo soli pochi anni di convivenza; e lui, intascata una discreta somma, che sua moglie gli diede per fare il viaggio e tentar la fortuna, s’era imbarcato per l’America.

E non se n’era più saputo nulla.

Alla morte del vecchio Rocca-Serena, il pater familias che aveva seminati intorno tanti figlioli e nipoti, a donna Eleuteria era toccata la sua quota legittima: un altro piccolo mezzo milioncino; così che, quando la poverina venne a morte, i parenti, come vedemmo, addoloratissimi, avevano già fatto il calcolo ch’ella avesse lasciati non meno di un paio di paia di milioni.

L’agitazione nei Tricomo e nei Rocca-Serena parenti laterali della morta era grandissima, perchè sapevano che donna Eleuteria, oltre ad essere assai bisbetica e chiusa con tutti, se l’era legata al dito per la guerra accanita che essi avevano fatto al suo matrimonio col signor Stambecchi: che non era mai stato ricevuto nè riconosciuto da nessuno, tranne [p. 14 modifica] che da quel caposcarico d’un suo nipote, conte Dario Rocca-Serena, il quale aveva imitata la zia al rovescio, sposando - dicevano loro una prostituta.

Fortunatamente, era noto che donna Eleuteria aveva sempre saputo tener salde in mano le chiavi dello scrigno e della cassa, e che quel signor Stambecchi era riuscito a mangiargliene ben pochi.

Era poi venuta la separazione di letto e di mensa, che li aveva riconciliati tutti quanti con lei; e non è a dirsi se que’ parenti vedessero l’ora di aver il pretesto per rifarsi buona la zia milionaria e per tornare da lei.

Se non che, questa volta avevano fatti i conti senza l’oste. Donna Eleuteria mostrò d’infischiarsene di loro, delle loro visite, dei loro doni e delle loro gentilezze, e li mandò tutti al diavolo.

Cosicchè, quantunque ella non avesse mai lasciato trapelar nulla delle sue intenzioni circa il testamento, gli aristocratici parenti s’erano rassegnati a vedersi dimenticati, o tutt’al più toccare ben piccola parte della vistosa sostanza.

La Stambecchi prediligeva, come dissi, il peggiore dei suoi nipoti: Dario di Rocca-Serena figlio del conte Asdrubale, suo fratello maggiore, il quale, matto anche lui come un cavallo, [p. 15 modifica] s’era giuocato quasi tutto il suo, e aveva lasciato al figlio Dario la miseria di ottanta mila franchi in tutto e per tutto. Questi poi a Dario non erano bastati neanche a pagar interamente i debiti fatti a babbo morto; e siccome i creditori gli erano saltati addosso come pantere, non appena il padre era spirato, Dario s’era trovato perfettamente al verde, colla ballerina sua consorte da mantenere.

Alla morte di suo padre Asdrubale il conte Dario avea ventott’anni, e la sua ballerina l’aveva sposata a ventidue.

Divenuta contessa di Rocca-Serena, l’Annetta aveva dato un caro addio a Tersicore e al palcoscenico. Vivevano con quello che passava loro la zia.

Da lei non aveva mai avuto nessun figliolo; sicchè la schiatta dei Rocca-Serena stava per estinguersi. Non ce n’era altri in prospettiva, fuori del vecchio don Gabriele.

Dario, con sua moglie e un loro cugino Cesare Vallieri figlio d’una sorella di Eleuteria, erano stati, come accennai, i soli parenti di questa che non le avessero fatto il muso pel suo matrimonio col mascalzone, e che avessero anzi legata amicizia con lo Stambecchi.

E la zia ne aveva sempre serbata loro grande riconoscenza e s’era messa a mantenere il [p. 16 modifica] povero conte al verde e la sua ex ballerina; di sana pianta.

Ella, che era sempre stata piuttosto avara, passava a suo nipote venti franchi al giorno.

E talvolta gli diceva:

— Fortuna che tu non hai figlioli, se no, anche tu colla tua testa matta, un giorno o l’altro, li lasceresti sul lastrico come ha fatto tuo padre con te.

— Ti giuro, cara zietta - le rispondeva Dario - che se Dio mi manderà un figlio, metterò giudizio, e mi restringerò a non spendere che dieci franchi al giorno dei venti che mi dài; e gli altri li metterò alla cassa.

— Davvero, me lo prometti?

— Davvero.

— Il più sta nell’averlo, un figlio - diceva ridendo la zia - perchè, se debbo credere a certe lamentazioni di tua moglie... via, tu mi capisci.

— L’Annetta ti ha parlato di questo?

— Eh... eh!

— Se ella però ti ha detto che io sono veramente giù.... del tutto, mi calunnia.

— Dunque c’è ancora speranza?

— Altro che!

— Tu non saresti - disse la contessa - non saresti degno dei Rocca-Serena, i quali furono tutti alti e potentissimi signori di padre [p. 17 modifica] in figlio. È vero che hanno abbondato nelle femmine, ma non per loro colpa.

— Bene, non sono io, se non obbligo mia moglie a disdirsi su tutta la linea.

— Birba ohi manca. Pensaci sul serio. Diamine! Ormai sono passati sei anni; dovresti già averne una-nidiata. È un pezzo che non vedo l’ora di stringermi un bel nipotino, non aristocratico, fra le braccia. Tutte quelle gonfianugole di mie nipoti e cognate contesse e marchese non si degnavano di lasciarmi venir in casa i loro marmocchi; tal sia di loro. Verrà tempo che piangeranno.

Un giorno il conte Dario lo dimandò:

— Ti piacerebbe più un maschio o una femmina?

— Ma che maschio, ma che femmina! Fammelo anche ermafrodito, se vuoi, sarà sempre il ben venuto. Però - soggiunse - quantunque io non ci tenga molto a conservare il nome dei Bocca-Serena nei secoli futuri, se fosse un maschio, lo avrei più caro. Mi son sempre piaciuti più i maschi che le femmine... [p. 18 modifica]

— Ebbene - disse Dario, parlando sottovoce all’orecchio della zia - erano ormai cinque anni e mezzo che io non mettevo il piede nella stanza da letto di mia moglie...

— Lo so, lo so! - sclamò la contessa Eleuteria ridendo. - Belle cose! Vergogna!

— Se tu, cara zietta, mi prometti che il rampollo dei Rocca-Serena non sarà poi un povero diavolo come suo padre, io ti prometto di tornare a far letto insieme coll’Annetta.

— E se fosse una femmina? Una pettegola?

— Se fosse una femmina, dovresti prometterle almeno una dote.

— Va là, va là! Tu fa in modo di fartelo fare, e poi lascia pensare a chi tocca - conchiuse la contessa, dando a suo nipote un buffetto sulla guancia.

Il conte Dario, che sapeva essere ciò superiore alle proprie... inclinazioni, prese un partito. Egli, che fino allora aveva chiuso un occhio e mezzo sulle scappate di sua moglie, chiuse anche l’altro mezzo. Il male è che la signora Annetta non voleva dare ascolto al [p. 19 modifica] precetto della fisiologia, che insegna alla donna di non avere più d’un amante alla volta, se ha desiderio d’essere madre.

La ex ballerina contessa era sinceramente appassionata invece per la poliandria e per la varietà.

Passando da un amplesso all’altro, come le accadeva già nei balli coreografici, le restava poco tempo e poca probabilità di concepire. Questo era il gran punto!

Nondimeno, siccome non è assolutamente detto che anche una peccatrice non possa aver figli, così accadde che una bella sera il felice marito potè finalmente portare alla zia la splendida notizia che la sua Annetta era incinta.

— Eh! Bisognerà poi vedere! Delle volte è un’illusione!

— Sicuro già, che per ora non ci sono che i primi indizi: ma intanto gli è già un bell’innanzi!

— Dille di star bene riguardata.... di non ballare, di non andare in carrozza.

— Eh, puoi imaginarti, già, puoi imaginarti, se glielo raccomando.

— Generalmente, quando non si ha il primogenito che dopo otto anni di matrimonio i riguardi non sono mai troppi. [p. 20 modifica]

Tornato a casa, il conte disse a sua moglie:

— Va a trovare domani la zia Eleuteria e dille che hai molto vomitato, mi raccomando... accusa una gran nausea. sappi fare. già non c’è dubbio di ingannarsi... deve essere.

Passò qualche mese. Il vomito della contessa non diminuiva, e la grossezza aumentava. S’era in agosto. Ne mancavano ancor quattro al parto.

— Assolutamente - disse la zia - questa sera faccio chiamare il notaio e muto il testamento. Così, casomai dovessi morire prima che un nuovo Rocca-Serena veda la luce, avrò pensato a’ casi suoi e morirò contenta. [p. 21 modifica]

Questa era stata la sola frase che fosse uscita chiara dalla bocca della contessa Eleuteria, circa la destinazione ch’ella intendeva di dare a’ suoi milioni dopo morte.

Annetta disse a tutti di andare in campagna, lontano, e non si lasciò più vedere fino a novembre.

Ed ecco infatti una mattina di novembre il conte Dario, raggiante di gioia, presentò nelle braccia d’una balia fiorita e bella un piccolo Eleuterio, di cui la sua Annetta s’era felicemente sgravata la notte innanzi.

Fu tale la gioia della buona contessa zia, che, lì per li, fu colta da un colpetto apoplettico.

Rimase otto giorni senza potere spiccicare una parola, ne muovere braccio o gamba. Solo i suoi occhi, fissati amorosamente in quelli del bambino pronipote, pareva volessero da lui aspirare la vita che si sentiva sfuggire dal corpo semicadavere.

La casa cominciò a brulicare di parenti, che venivano a cercar di sue nuove, a farsi [p. 22 modifica] vedere, a condolersi, a spiare, a tener d’occhio, a fare la ronda. I ricchi per dovere di parentela, perchè non si dicesse che l’avevano lasciata morire come un cane, per sorvegliare che non mancassero a tempo giusto i preti, le stole, il viatico e il funerale di prima. I meno ricchi per questo e per molte altre cose si occhieggiavano con diffidenza, e fra loro non avevano nulla da dirsi; s’intrattenevano invece assai volentieri coi preti nelle anticamere e coi dottori nella stanza della moribonda.

Ai preti era toccato di stare in anticamera, perchè la contessa cogli occhi ferocemente aggrottati aveva fatto segno di non volerli vedere.

Da tutti questi segni precursori, i parenti attingevano la consolante certezza che la lettura del testamento non si sarebbe fatta aspettare molti giorni. Era spedita! Allora alzavano gli occhi al cielo come a dire: che disgrazia! e se potevano far in modo che fossero velati di lagrime, meglio ancora!

Al nono giorno capitò alla contessa Eleuteria un secondo colpetto più fiero del primo. Dei cinque sensi a lei non erano rimasti che la vista e l’udito. L’aceto, per quanto fosse dei sette ladri, non le titolava menomamente la membrana olfattoria. Il tatto era [p. 23 modifica] completamente perduto, il senso del gusto.... non se ne parla.

Ma furono precisamente i due sensi che le erano rimasti, quelli che la mandarono più presto al cimitero.

Ella udì il campanello del viatico, poi vide il prete entrare in camera, e fu colta da tale paura della morte, che ne morì.

Senza questo sarebbe forse campata ancora un bel pezzo.

Sepolta che fu, tutti i parenti si radunarono nel palazzo Tricomo per sentir leggere il testamento olografo che era stato consegnato ad un notaio.

A onor del vero non venne in mente a nessuno di stupirsi ne di lamentarsi, quando risultò esservi nominato erede universale il neonato del conte Dario, il contino Eleuterio di Bocca-Serena, e lui usufruttuario della ingente sostanza, coll’obbligo di pagare un legato all’altro nipote Cesare Vallieri, per una piccola somma in usufrutto, che ammontava a qualche cosa come cinquemila franchi all’anno. [p. 24 modifica]

— Ma, e il marito? - osservò un giovinotto figlio d’una sorella della defunta, maritata al marchese Trevisani - quel signor Stambecchi, se tornasse dall’America, non potrebbe accampare delle pretese?

— No - rispose il notaio - perchè l’articolo 812 del codice, che riguarda il conjuge, dice chiaramente, che il marito ha un diritto alla legittima sulla sostanza dell’altro conjuge, soltanto nel caso che non sia separato di letto e di mensa.

— Ho capito - fece il Trevisani.

I Tricomo riconobbero ch’ella aveva il diritto di risollevare il nome dei Rocca-Serena dal nulla in cui stava per cadere. I Rocca-Serena lodarono la misura presa dalla defunta per legare le mani a suo nipote scialacquatore. Non s’aspettavano quel lascito così isolato a Cesare Vallieri, e non gliene fecero i loro complimenti.

Quanto a Dario, esultò di poter disporre d’allora innanzi di una rendita di circa centocinquanta mila franchi, mentre, finchè la zia era stata viva, non gli era mai riuscito di poterle cavare un soldo di più delle fissate miserabili venti lire al giorno.

Finita la lettura, l’adunanza si sciolse, e il conte Dario e Cesare Vallieri si attaccarono al [p. 25 modifica] braccio dell’esecutore testamentario, don Felice Carnelli, per sentire quante migliaia di lire contanti si fossero trovate nello scrigno e quante nella cassa della zia.

Ciascuno tornò a casa propria invidiando la fortuna di Dario e del piccolo Eleuterio, che ignaro d’ogni cosa stava in quel punto facendo pipì, e strillando come un ossesso per fame, in braccio a sua madre puerpera, la quale però aveva dichiarato bellamente di non volerlo allattare.

La balia accorse.

E il neonato milionario, abboccando con avidità il pavonazzo capezzolo della contadina, s’ebbe da sua madre un:

— Che Dio ti benedica! Ti vorrò tanto bene, lo stesso!