Quattro Milioni/II
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II.
Aveva preso un quartierino di tre camere mobiliate discretamente, andava qualche volta a trovare qualche maestro di canto, passeggiava o sola o accompagnata da una certa sua amica sconosciuta e altrettanto brutta quanto lei era bella, come una donna che voglia conoscere la città o che cerchi il suo ideale perduto.
Gli agenti teatrali interrogati avevano conservato sui fatti suoi uno strano mistero. Non avevano però negato ch’ella fosse un’artista.
— E che artista! - aveva sclamato fra gli altri un celebre direttore d’orchestra.
Doveva essere una creatura bizzarra molto.
Ella amava immensamente di montare a cavallo, e passava delle ore in cavallerizza, ma non voleva cavalieri in fuori del maestro e ci andava nelle ore in cui era certa di trovare nessuno.
Ma il maestro, la prima volta ch’essa montò in sella, s’accorse ch’ella poteva insegnarne a lui.
Essa gli chiese se le poteva dare qualche cavallo molto difficile, ed egli l’accontentò. Andò a prendere uno zuccone di puledro, che anche i più abili palafrenieri trovavano pieno di tutti i vizi, e glielo presentò. Essa gli guardò un po’ negli occhi e si fece guardare da lui; lo accarezzò, gli diede dello zucchero, poi lo montò. Parve un agnello! Andava come un angelo!
Quando, essendo corsa la voce nella gioventù galante che la bella dai capelli di fuoco andava in cavallerizza all’alba, cominciò a vedersi venire intorno vagheggini e cavalieri e cascamorti, non si lasciò più vedere.
Non le si conosceva ancora nessun amante.
Chi la seguiva in istrada per tastarla, e cominciava ad ammirare di dietro il colore straordinariamente bello e fulgido di certi torciglioni di trecce che le cadevan sulla nuca, dubitando della loro autenticità - vere matasse di sole filato, - riusciva a vederla svoltare dignitosa nella sua porta, senza che ella si fosse mai degnata di rivolgergli uno di quei taciti e quasi impercettibili segni, che agli inseguitori di donne mettono il coraggio in corpo o di porsele a paro o di seguirle su per le scale.
Ell’era una di quelle figure, che vedute anche soltanto per di dietro non lasciano freddo un uomo in cerca di bonnes fortunes. Il suo corpo era una meraviglia! Quando poi le si vedeva il viso, l’uzzolo sensuale si mutava in ammirazione. Tutti erano del parere che ella fosse bellissima, e che il possederla fosse da mettersi nel numero delle grandi conquiste.
Far ritratti di donne non è, e non può essere, il mio forte.
Io abborro, anche quando leggo i romanzi degli altri, quel passare in rivista ad una ad una le parti del viso e del corpo duna bella creatura, come si farebbe l’inventario d’un rigattiere.
Tanto più che questo metodo, il quale può aver un certo effetto descrivendo una bellezza classica, non val nulla per una donna del genere della mia sconosciuta.
Essa non era bella nel senso classico della parola. Aveva gli occhi turchini, e la tinta calda, strano contrasto, per cui si sarebbe detto ch’ella fosse nata dell’unione d’una Svedese e d’un Arabo o viceversa. Era grande e piuttosto esile. Nelle sue orecchie piccole, come quelle di un bambino, brillavano due carbonchi che, dato non fossero di strass finissimo, potevano valere un ventimila franchi.
Ell’era da più giorni a...., quando una mattina verso le undici un giovine, che era uscito poco prima dalla Banca Nazionale, entrò in un caffè dove sei o sette persone che stavano facendo colazione parlavano appunto di lei.
— Tutto quello che io vi posso dire - stava raccontando un d’essi - è ch’ella ha nome Ida e non è niente affatto nè svedese, nè inglese, nè danese, nè russa, ma è italiana, come io e voi.
— E il cognome?
— Il cognome non l’ho potuto sapere.
Il nuovo venuto aveva salutati gli amici e si era seduto anche lui a un tavolino.
— Io sospetto ch’ella sia una confidente della Questura - saltò su un giovinetto sbarbatello e molto spiritoso.
— Che idea! - ribattè il nuovo arrivato - Non so d’onde ti possa essere venuta...
— L’altro giorno l’ho colta che entrava in Prefettura.
— Oh che non si possa andar in Prefettura senza essere una spia?
— Io invece - disse un quarto - credo che ella sia tout bonnement una cocotte come tante. Sarà una cavallerizza del Renz di Vienna, fuggita con qualche amante che l’avrà poi piantata.
— Ma se fosse una cocotte, a quest’ora qualcuno di noi l’avrebbe accostata - osservò un quinto.
— Starà facendo i suoi studi sul merlo da spennare.
— Iersera la vidi al teatro.... - E disse il nome del teatro.
— Sola?
— No, accompagnata dalla sua brutta indivisibile.
— E nessuno l’ha seguita?
— Io le vidi dopo lo spettacolo montare in brougham, loro due sole, e ho udita la brutta dare al cocchiere l’indirizzo della casa di lei.
— Ora che avete fatte le vostre induzioni - disse n giovine che era arrivato per ultimo parlerò io.
— Sai qualche cosa di positivo?
— So tutto - rispose questi. Poi voltosi al cameriere che gli cantava la litania del menu mattutino, per aguzzar la curiosità degli amici, disse - No, dammi invece una bistecca quasi cruda, au beurre d’anchois.
— Dunque?
— E uno chope di Puntingam.
— Dunque, dunque?
— E il giornale del mattino.
— Hai finito? Parla.
— La signora Ida è nata qui come io e tu, ma è figlia d’un generale austriaco e d’una madre croata.
— Ah! voleva ben dire io. Il padre le ha dato gli occhi cilestri, e la madre la carnagione meridionale!
— Essa è venuta a Milano per imparare il canto, perchè ha una delle più belle voci che si conoscano al mondo. Ha ventidue anni ed è onesta.
— E come fa a vivere? - domandò il giovinetto che l’aveva giudicata una spia della Prefettura.
— Ell’ha da uno sconosciuto una piccola pensione di trecento franchi al mese.
— Coi quali ha comprati i brillanti che porta alle orecchie?
— I brillanti glieli ha regalati il suo primo amante.
— Ma come fai tu a sapere tutte queste belle cose?
— Smentitemi se siete capaci.
— Fammi il santo piacere di non far il discreto con noi. Sputa fuori. Le hai parlato o non le hai parlato?
— Le ho anche toccato la punta delle dita.
— In che modo?
— Ho fatto quello che non avevo ancora fatto in mia vita. Le ho dato l’acqua santa.
— In chiesa?
— In chiesa. Vedendola entrare nella cattedrale l’ho seguita. Ella andò a inginocchiarsi all’altare della Madonna... mi pare che fosse la Madonna, ma non so bene. Io l’aspettai presso la pila, perchè aveva veduto che prima passando vicino ad essa s’era cavato in fretta in fretta il guanto della destra, aveva messa la mano nella vaschetta, e s’era fatto il segno della croce. Ella stette a pregare là un quarto d’ora. Poi si levò e venne verso di me senza vedermi, tutta raccolta nel rapimento della sua preghiera. Quando fu ad un passo dalla pila, io misi la mano nella vasca, e le tesi la punta delle dita. Ella mi fissò un istante con quei suoi occhi d’arcangelo Gabriele che dicono ave, toccò le mie dita, si segnò, mi fece un cenno modestissimo di ringraziamento, e prosegui la sua strada come una regina. Io credetti di aver ricevuto una scarica di macchina elettrica nel braccio.
— Non tanti particolari inutili! - disse il giovinetto.
— La seguii fuori di chiesa. Andò alla posta, ritirò una lettera raccomandata, dove c’era un vaglia, e tentò di riscuotere il denaro; ma uscì subito dall’ufficio, forse perchè non era ancora arrivato l’avviso di pagamento. Allora io ebbi un’idea luminosa. Avevo per caso nel portamonete sei biglietti da mille, e cinquecento franchi in spezzati, che avevo riscossi poco prima alla banca. Scrissi poche parole col lapis su un mio biglietto di visita, seguendola e non perdendola d’occhio; poi, trovato un facchino di piazza, e indicatogli la signora, gli diedi la carta da rimetterle. Io voltai indietro in fretta, e andai a postarmi nel bureau della posta. Ed ecco, dopo un quarto d’ora, vidi entrare la mia sconosciuta. Le andai incontro e le dissi: - Lei cerca forse per la riscossione del vaglia, che non le hanno potuto pagare poc’anzi all’ufficio? - Sissignore, mi rispose ella con una voce... ah che voce! - Vuol farmelo vedere? - Essa lo tirò fuori dalla busta e soggiunse: - Non sono che trecento lire. - D’onde viene? - Da Parigi, - mi rispose. Contai le trecento lire non senza farle vedere i biglietti da mille, e mi guardai bene di farle firmare il vaglia.
— Bravo! - saltò sù un ingenuo - e per riscuoterlo?
— Furbacchione! Capirai che quello era il mezzo di andarle in casa, precisamente per poter riscuotere poi il vaglia.
— Ahn! È vero!
— E il vaglia è qui. E domani io andrò a trovarla.
— Lascialo vedere.
— Eccolo, e qui c’è il nome e cognome. Ida Evanieff.
— Fortunataccio! Ma Evanieff sarebbe un nome russo! - osservò il giovinetto.
— Le son cose che si possono arrischiare quando si hanno in tasca sei mila e cinquecento lire; io per esempio non avrei potuto - interruppe un altro.
— Lo crediamo - sclamarono tutti.
Il giovine delle seimila e cinquecento lire era un agente di cambio, che guadagnava le sue diecimila lire l’anno, senza gran fatica.
Al tocco egli si faceva annunciare dalla cameriera della signorina Ida, dicendole di avere un affare urgente da comunicarle.
Fu questa frase imprudente che guastò forse ogni cosa, fin dal bel principio.
È vero che si sarebbe guastata lo stesso!
Ida lo ricevette con una grazia perfetta, e fin dal primo momento si impressionò di aver a trattare con un uomo di affari. Fosse stato bello come Antinoo, spiritoso come Voltaire, ricco come Rothschild, il nostro agente di cambio non sarebbe riuscito a nulla, con quella testolina romantica e piena di poesia.
Egli le spiegò la dimenticanza del giorno prima, e Ida senza altro dire corse allo scrittoio, impugnò una penna e disse col più bell’accento fiorentino:
— Subito fatto! Che storditi tutti e due!
— Io avevo ben ragione di esserlo! - arrischiò l’agente di cambio guardandola coll’occhio dolce.
— Perchè? - domandò Ida, fingendo di non capire la dichiarazione che stava nascosta in quella frase pronunciata colla bocca di miele.
— Perchè..... vedevo lei! rispose il giovine borsaiuolo senza reticenza.
— Ah! - fece Ida, che non poteva più fingere di non capire - E crede che basti la mia firma?
— Non credo - rispose l’altro, già un po’ sconcertato da quella noncuranza - Credo che sia necessaria la sua presenza.
— Oh Dio! Mi toccherà dunque di tornare alla posta?
— Sarà l’affare d’un minuto! E io avrò il vantaggio.
— Ma nessuno mi conosce lo stesso! - sclamò Ida interrompendolo.
— Per questo, non ci pensi. Io farò garanzia per lei, giacchè io sono conosciutissimo alla posta. Riscuoto migliaia di lire tutti i giorni.
Il povero agente di cambio non poteva dirla più grossa.
— Ma allora - notò ridendo la fanciulla trovo inutilissimo il venirci io stessa. Dal momento che lei è conosciutissimo, che bisogno c’è ch’io mi faccia vedere?
Il giovane si morse le labbra, si diede coscienziosamente dell’asino, e non potè a meno che risponderle:
— Questo, poniamo, è vero!
Il punto critico per la Ida era sorpassato. Ella aveva già capito che il giovine non era pericoloso, e che poteva prendersi con lui tutte le libertà della civetteria, tanto care alle donne.
Sentendosi al sicuro, le venne il capriccio di fargli fare una gran dichiarazione coi fiocchi.
Giacchè, noi donne, siamo fatte cosi! Finchè non siamo certe che lo sconosciuto che mostra di volerci fare la corte è dammeno di noi, stiamo in guardia e lo teniamo molto alla larga, andiamo coi piedi di piombo.
Ma non appena ci accorgiamo ch’egli è della pasta con cui si può far gnocchi, e non temiamo ch’egli prenda su noi il sopravvento, allora non ci lasciamo mai sfuggire il gusto supremo di innamorarlo di noi in pochi tratti, per godere l’incenso che esala dal braciere che noi ci divertiamo ad
— Ma allora - disse ella con una grande naturalezza - com’è stato che lei ha pagato il mio vaglia, prima che dalla posta le avessero dati i danari per pagarlo?
— Non l’ha capito il perchè? - disse l’agente con voce commossa.
— Io no davvero. E se il vaglia, poniamo, fosse stato falso, ella ci avrebbe rimesso il danaro e la fatica.
— Tanto meglio! - rispose l’agente di cambio.
— Come, tanto meglio?
— Oh, per lei si può far questo e altro! disse il povero giovine tentando di prenderle una mano per baciarla.
Ella la ritirò. L’altro non ritentò la prova.
Non pare, ma talvolta sono timidi anche gli agenti di cambio.
— Ma allora è una dichiarazione che lei vorrebbe farmi?
— E se fosse? Se fosse? Oh signora!
— Sarebbe un po’ troppo estemporanea.
— Oh perchè, angelo che siete! - sclamò il giovine con un sincero, ardente, improvviso scoppio d’amore.
Ida scoppiò invece alla sua volta in una gran risata. L’agente di cambio si levò pallido.
— Signore - diss’ella stendendogli la mano che poco prima aveva ricusata - io la prego di credere che non ho riso di lei. È un’idea che mi passò pel capo. Io capisco di esserle simpatica, e sarei una grande scimunita se, per questa ragione, dovessi burlarmi di un signore, che fu tanto gentile con me e mi rese un servizio.
— La ringrazio - disse l’agente di cambio, dopo di aver baciata la mano di Ida, che cercava a stento di star seria.
Ella aveva veduto di rado un uomo più imbarazzato di lui.
Egli non voleva andarsene e non trovava modo di riappiccare il discorso galante. Nondimeno dimandò:
— Questa sera andrà al teatro?
— Ah no, caro signore; io non ci posso andare se non quando qualche mio buon amico che è nell’arte mi manda una chiave di palco.
— Ma io ne ho di chiavi di palco finchè ne voglio.
— In che modo?
— Comprandole al camerino del teatro.
— Ah grazie! Sono precisamente quelle che io non posso accettare.
— Perchè mai?
— Appunto perchè costano denari.
L’agente di cambio era sempre più scombussolato. Egli aveva il torto di non essere mai stato più di trenta chilometri fuori della propria città, e di non aver mai avuto a fare se non con le grandi dame del lastrico.
— Ma se io l’avessi senza spender denaro? pensò di dire l’infelice.
— Oh, fi donc! Tanto peggio allora!
— Come mai? Non ne indovino dunque una sola con lei?
— Pare di no.
— Non mi diceva poco prima che non la avrebbe accettata se fosse costata denaro?
— Certamente! Ma, se non la compra, bisogna pure ch’ella se la faccia dare dall’impresario, 0 da qualche giornalista, o da qualche amico insomma. Ora la prego di pensare che figura farei io mostrandomi poi nel palco che mi sarebbe stato regalato da lei, a cui l’avrebbe regalato un altro?
— È vero! - ripetè il povero giovine.
Ida capì che non avrebbe assolutamente potuto frenare un secondo scoppio di ilarità. Si levò, rossa in viso, fece un gesto all’agente di cambio di scusarla, e si lanciò a corsa fuori della sala.
Giunta nell’altra camera non potè trattener... nulla di ciò che nelle nature nervose accompagna di solito la convulsione del riso.
Si rimise però tosto. Si diede due tocchi col piumino della veloutine, e tornò in salotto. Ma non volendo esporsi ad un terzo cimento, andò incontro risoluta all’agente di cambio e gli disse:
— Mi duole di dover troncare questo colloquio e la ringrazio nuovamente della sua cortesia. Io non ricevo nessuno e non posso invitarla a venir a trovarmi. Ma spero di aver sempre in lei un amico.
Il giovine le baciò un’altra volta la mano, come avrebbe fatto con sua eccellenza l’arcivescovo, e uscì senza aver la forza di pronunciare parola.
Quand’egli fu uscito, Ida si ravviò i capelli e sclamò:
— Dio! se son tutti così a..., sto fresca anch’io!
La mattina dopo, il borsaiuolo entrava nel caffè a far colazione.
Gli amici gli furono tutti addosso.
— E dunque?
— L’hai veduta?
— Le hai parlato?
— E simpatica?
— Ha spirito?
— L’hai già avuta?
— È difficile?
— Ha firmato il vaglia?
Lui non rispondeva: sorrideva e faceva il diplomatico.
— Scommetto che non t’ha neanche ricevuto - disse Cesare Vallieri, il nipote beneficato fra tanti dalla zia Eleuteria.
— O che ti ha messo alla porta.
— O che il vaglia era falso.
Si fece un po’ di silenzio.
— Cameriere - gridò l’agente di cambio. Poi voltosi ai compagni disse maestosamente:
— Prima lasciatemi ordinare, poi mi degnerò di darvi i deliziosi ragguagli della mia prima visita trionfale.
— Sì, ma ti preghiamo di tenere per te gli aggettivi.
L’ordinamento della colazione porto via un buon quarto d’ora. Finalmente cominciò:
— Che cos’ha telegrafato dalle Gallie Cesare il grande, se non sbaglio, con quelle tre famose parole latine che cominciavano in v?
— Senti senti che adesso mi diventa anche erudito!
— Veni, vidi, vici, non è vero?
— Ebbene?
— Ebbene, fate conto che io sia Cesare nelle Gallie.
— Fa il piacere!
— Non avresti un parente più prossimo da andargli a raccontar queste cose?
— Non credete?
— No.
L’agente di cambio, pensando di fare un gran colpo, cavò dal portafogli il vaglia postale sottoscritto da Ida e lo mostrò a tutta la comitiva.
— Bene. Ma che cosa prova questo? - domandò il Vallieri.
— Prova, che io ci sono stato.
— Che trionfo! di questo nessuno dubitava.
— Ma che cosa cercavate voi dunque?
— Noi cercavamo se l’avevi conquistata.
— Ah, questo è un altro discorso. Allora vi dirò francamente che non ci ho neppur pensato.
— Perchè?
— Perchè non ne val la pena.
— Come, come?
— È stupida come un’oca!
— Diamine! Davvero?
— E poi è sudicia in casa. Da avere schifo a metterle un dito addosso.
— To’! Chi lo direbbe?
— Ma se son tutte così! - sclamò il giovinetto sbarbatello.
— Non sa dire quattro parole in croce - continuò l’agente di cambio.
— Che peccato!
— Ride.... oh quello sì.... ride sempre come una scimunita, per far vedere i denti.
— Ah ride molto?
— Oh questo sì. Io le ho detto qualche barzelletta ed ella non fece che ridere.
— Dunque delusione completa?
— Delusione completa!