Pensieri e discorsi/Eco d'una notte mitica

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ECO D’UNA NOTTE MITICA




Oh! io torno al Manzoni e ai Promessi Sposi! Che libro vivo, fresco, nuovo! Sì, nuovo, non ostante che d’allora in poi ci siamo provati, dietro le orme di stranieri, in tante novità! Ma erano, dunque, novità vecchie, nate con le grinze. Ma erano piante esotiche che, nel terreno non loro, o non attecchivano o subito tralignavano. Eppure dai Promessi Sposi avremmo potuto imparare a fare analisi psicologiche, pitture d’ambiente, descrizioni naturali (la vigna di Renzo, ricordate? e ripensate il Paradou dove tutto fiorisce a un tempo, e le piante inselvatichite fanno doppi i fiori), da non invidiare Flaubert, i Goncourt, Zola; e nei Promessi Sposi avremmo trovato in formazione tanti generi di romanzo che poi tennero e tengono il campo, cadendo e sparendo via via, perchè in essi è fatto elemento principale di vita quello ch’è il più piacevole ma il più fuggevole dei pregi: la novità. Ma i nostri vecchi dal grande capolavoro manzoniano imitarono, non impararono; e si sa che l’imitazione in arte è ciò che è la putrefazione in natura: dissolve un genere per dar luogo a un altro; e imitarono poi ciò appunto che persino all’autore pareva [p. 128 modifica]la cosa manchevole e assurda del suo quadro: la cornice! Quanto poi alla freschezza, alla vita, alla grazia, all’ordine, alla proporzione, al sorriso di malizia, al senso d’eleganza, queste cose sono rimaste nel quadro.

Dunque io torno al Manzoni e al suo immortale romanzo. Lo lessi la prima volta in un agosto come questo, in monti come questi1: quanti anni sono? Molti, molti, molti. Lo leggevo, finite le scuole e chiusi gli esami, in quei primi giorni di vacanza, che vi compensano, con la loro ineffabile pace, dei molti mesi di fatica e di soggezione. Sono come la pioggia estiva dopo l’afa a lungo durata: si gode come "in quella rinfrescata, in quel sussurrìo, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre„; si mettono "certi respironi larghi e pieni!„ O divino Manzoni, io risento ora sfogliando il tuo libro quello che sentivo allora leggendo nel cassetto del tavolino i tre piccoli tomi ben rilegati di un’edizione milanese; quando rapito, assente, altro, provavo in me (ma allora non avrei saputo citare Aristotele), mediante la pietà e il timore, compiersi la catarsi di così fatte passioni. Se non sapevo citare Aristotele, avevo per altro letto qualche poco di latino; e la mia mente, passando dalla difficile all’agevolissima lettura, non si sentiva staccare, nè a poco a poco nè a un tratto, dai suoi studi consueti, nei quali, per giungere in cima a vedere la luce, bisognava farsi largo a traverso monti di vocabolari e selve di grammatiche: no: godeva anzi come una sensazione doppia, un piacere [p. 129 modifica]complesso, formato di novità e di ricordo. Rileggo “la notte degli imbrogli e dei sotterfugi„ e quel piacere complesso, quell’incognito indistinto, si ripresenta al mio spirito. Io vedo la casetta di Lucia “in fondo al paese„ con “la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile„; vedo anche il casolare disabitato dove “vanno le streghe„ per solito, e ora sono postati i bravi col Griso. “Egli, col grosso della truppa, rimane nell’agguato ad aspettare„. Si fa sera, si fa “quel brulichìo, quel ronzìo (non ci rincresca rileggere le parole del Manzoni: dacchè è libro di testo nelle scuole, si legge più poco), quel ronzìo, che si sente in un villaggio, sulla sera, e che dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivano dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini con le vanghe e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci si vedean luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nelle strade barattare i saluti e qualche parola sulla scarsità della raccolta e sulla miseria dell’annata; e, più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno„. I promessi, con Agnese e i testimoni, vanno a sorprendere il curato: “Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta e preser la strada fuori del paese... Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero„. Nelle tenebre? Dopo la sorpresa che non riesce, il curato si affaccia a una finestra. “Era il più bel chiaro di luna; l’ombra... lunga e acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata [p. 130 modifica]sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno„. Di lì a poco Ambrogio suona a stormo: “Ton, ton, ton, ton: i contadini balzarono a sedere sul letto: i giovinetti, sdraiati sul fienile, tendon l’orecchio, si rizzano. Cos’è? Cos’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi? Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi per correre al rumore: altri stanno a vedere„. Intanto i bravi si erano mossi dalla capanna delle streghe. Il Griso “si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: — andiamo da bravi: zitti e attenti agli ordini — , s’incamminò il primo, gli altri dietro„. Nella casetta non trovano la lepre; “non c’è nessuno. Torna indietro, va all’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio„. Poi “il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse rumore... Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all’uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s’avvicinano in fretta... il calpestìo si ferma appunto all’uscio... Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia... Zitto! o sei morto. Lui invece caccia un urlo„. Ebbene? Ebbene, queste avventure del paesello innominato [p. 131 modifica]mi fanno l’effetto d’intese o lette altre volte, come di tutt’altri tempi e luoghi, di tutt’altre persone, con tutt’altri costumi. Dove? quando mai? Quei passini specialmente, i passini frettolosi di Menico, mi sembrano echeggiare da una profondità infinita... Ah! ho trovato. Qual maraviglia! Pare un sogno, in cui una persona ora è quella, ora un’altra, e si trovano insieme sensazioni vecchie e recenti, intrecciate e commesse a fare mostri di visioni, poi sparite subitamente in parte e in parte rimaste, come in un paese montano sotto la nebbia mattutina si vedono castelli e piantagioni per aria e un grigio uniforme tra e sotto loro. Ho trovato! Ho trovato! Quale incanto vedere il lavorìo forse inconscio, dell’ingegno che crea, e assistere alla genesi dell’opera d’arte!

Badiamo, io non dico di aver trovato una delle fonti del Manzoni, nè intendo fare uno studio critico e un lavoro d’indagini. Nemmeno pretendo che quello che dico sia proprio e infallantemente vero: mi accontento del verosimile. Sopratutto non si pensi a imitazione. Già tra l’imitazione e le fonti spesso noi confondiamo; e scoprendo fonti di qualche opera d’arte, noi diciamo o intendiamo o facciamo involontariamente credere d’aver tolto qualche fronda alla corona di lauro dell’artista. Il che è curioso parecchio, specialmente se si tratta di poeti epici, che di necessità, per istituto dell’arte loro, raccontano per disteso cose già in parte sapute, e raccontano quelle perchè proprio l’uditore vuol di quelle conoscere maggiori particolari e le avventure che le precederono e le seguirono. Sicchè il poeta, quando per caso deve narrare d’un personaggio nuovo e straniero ai soliti cieli, è costretto a prestargli, a fingergli, ad [p. 132 modifica]asseverargli una fama che non ha. Insomma, e per tutti i generi oltre che per l’epico, quando si fanno o si leggono certi studi “crenologici„, bisogna aver in mente due cose per tenere in misura e in tono i nostri giudizi; due cose: l’una, che lo scrittore non può inventare propriamente, chè non è la natura esso o Dio; l’altra, che, se anche lo scrittore potesse inventare proprio, il lettore gliene sarebbe tutt’altro che grato e respingerebbe l’opera sua. Dunque io non parlo d’imitazione che il Manzoni abbia fatto, nè di fonti a cui abbia derivato: voglio fare un cenno, un cenno solo, di qualche cosa di più e di meno nel tempo stesso: adombrare appena lo studio d’una grande mente nell’atto stesso che genera l’opera grande, la quale a lui medesimo, se volesse o potesse fare l’analisi degli elementi semplici di cui è composta, parrebbe più mirabile d’un sogno scomposto nelle sue spirituali molecole. Premesso questo, sapete donde io sento che echeggiano i passini frettolosi di Menico? Dalla più grande e famosa città dei miti, dalla città degli Dei, da Troia, nella sua ultima notte.

Manzoni amava e studiava Virgilio, da cui derivò anzi, si può dire, un, non voglio dire se pregio o difetto, carattere della sua maniera: quel prender parte con un sorriso, con un sogghigno, con una lagrima a ciò che narra; quell’assistere i suoi personaggi con un cenno ora di compassione, ora di rimprovero, ora d’ironia. Un esempio o due, come vien viene. Renzo lascia Lucia e Agnese la sera di quel giorno che doveva essere, e non fu, così felice, per lui, “col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle stesse parole: — a questo mondo c’è giustizia finalmente. — Tant’è vero che un uomo [p. 133 modifica]sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica”. Don Abbondio si scervella su Carneade: “Tanto il pover uomo era lontano dal prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!„ È il momento decisivo per Geltrude (così sin allora egli la chiama), che deve rispondere al prete sulla sincerità e libertà della sua vocazione. “Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata; raccontare una storia... L’infelice rifuggì spaventata da quest’idea„. La madre di Cecilia (chi non capisce subito di chi voglio parlare?) “stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finchè il carro non si mosse, finchè lo potè vedere; poi disparve. E che altro potè fare se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato„. Quest’ultimo passo mi dispensa dal cercare i tanti luoghi di Virgilio dove egli mostra, per così dire, il suo viso o commosso o sdegnato tra i personaggi e i fatti da lui creati (ricordate Aen. I 716 e segg.: “Essa con gli occhi, essa con tutta l’anima, sta fissa in lui, e talora nel grembo lo tiene, e non sa Didone qual potente Dio a lei infelice sia sopra!„); mi dispensa, dico, dal cercare altri esempi, perchè me ne suggerisce uno che val per molti: la chiusa dell’episodio di Eurialo e Niso (Aen. IX 435 e segg.), in cui la commozione tenera e forte del poeta si rivela con una soave comparazione di fiori e con una promessa calda, divina, d’immortalità. Mutate il romano antico in cristiano moderno, il poema in romanzo: il “Fortunati ambo„ di Virgilio diventa il [p. 134 modifica]tiratela a voi, lei e la sua creaturina„ del Manzoni, in persona di Renzo. Ma qui dunque il Manzoni avrebbe imitato Virgilio? Non credo: il Manzoni che, certo aveva pianto più d’una volta nel leggere quella chiusa, nel momento in cui scriveva la sua “madre di Cecilia„, forse non la ricordava nemmeno. A ogni modo, egli ha creato, e precisamente dove non si può negare che abbia imitato: nel paragone del fiore, così comune nella poesia antica e moderna. Ha creato per quel particolare nuovo del bocciuolo che cade col fiore sbocciato: il bambino del fiore! Piccola cosa? Queste piccole cose sono la poesia, solo queste: le grandi sono sovente vampate di retorica, che è una bella, bellissima arte, ma non è la poesia.

Come dunque per queste lagrime, così anche per i passini di Menico, può darsi che il Manzoni non pensasse a Virgilio, mentre scriveva. Ma la sua fantasia, senza che esso se ne rendesse forse conto, elaborava elementi virgiliani. La notte degli imbrogli e dei sotterfugi è l’ultima notte di Ilio trasformata in modo che nessuno, nemmeno il Manzoni, sospetterebbe la strana trasformazione. Eppure è così. L’impressione generale è la stessa. In tutte e due le mirabili creazioni, al brusìo, festivo e straordinario in Virgilio, consueto nel Manzoni, della sera, succede il silenzio notturno interrotto poi da grida, suoni, apparizioni, che finiscono là a un vecchio tempio di Cerere, dove si sono raccolti i destinati all’esilio — spunta sui cocuzzoli del monte la stella del mattino — ; qua nella chiesa d’un convento, donde i fuggiaschi vanno alla riva del lago e s’imbarcano. “Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il [p. 135 modifica]tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo„2. Con una grande pace, pace di singhiozzi dopo lo scroscio del pianto, pace di dolore tutto in sè raccolto, quando il dolore si gusta nel nostro segreto come un piacere, terminano le due notti. Gli esuli di Ilio si volgono, al chiaror del giorno, a rivedere la patria — i Danai occupavano in armi le soglie — ; al chiaror della luna guarda Lucia al palazzotto di Don Rodrigo e il suo paesello e la sua casetta, col fico che sopravanzava il muro del cortile. L’esilio... Si direbbe che il Manzoni, nell’anima semplice di Lucia, abbia voluto fare l’analisi, che Virgilio non poteva fare, dei sentimenti di quelli antichi, che lasciavano piangendo i lidi della patria, le nude spiagge, dove la patria non era più se non qualche maceria e qualche fumacchio.

Nell’una notte e nell’altra è un bel lume di luna. Notevole è che nella narrazione di Virgilio ora c’è, ora pare non ci sia (cf. II 340 e 360, 397, 621). Era giuoco di nuvole? d’ombre? Ma sopra tutto un verso, molto “suggestivo„ ci ferma, il 255: A Tenedo tacitae per amica silentia lunae. Tutti ammirano, e inclinano, bontà loro, a concedere, per questo e alcuni altri versi, a Virgilio un sentimento quasi moderno della natura. Nel fatto, che cosa vuol dire quel verso? Ha voluto veramente il poeta mescolare e far tutt’uno della sensazione della vista e di quella dell’udito? O ha voluto significare che la luna non s’era ancora levata, o che, levatasi, si era, per provvidenza [p. 136 modifica]di Dei in favore de’ Greci, nascosta tra le nuvole? Qualche argomento, che non è opportuno riportare qui, mi farebbe credere quest’ultima cosa: che fosse tra le nuvole, allora. Ma io vorrei saperne un’altra: che cosa ne pensasse il Manzoni, il quale, secondo me, deve aver derivata da quella frase, consciamente o inconsciamente, molta ispirazione. In vero è curioso osservare che anche nella sua notte la luna vien fuori dopo, come quella che non era nel primo quarto — parrebbe — , essendo che Renzo continua la sua strada “nelle tenebre crescenti„, e si avvia con Lucia e gli altri alla casa del curato “nelle tenebre„, mentre poco dopo, quando esso curato apre la finestra, può vedere che è il “più bel chiaro di luna„. Era la luna spuntata nel frattempo? Può darsi, e può anche darsi che il Manzoni interpretasse il luogo di Virgilio in un modo analogo. Ma in ogni modo, a questo solo volevo concludere che il chiaro di luna nella notte manzoniana serve a segnare il contrasto tra le inquiete operazioni degli uomini e la placida indifferenza della natura. “I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre„. Virgilio, tutto insieme, se ne è passato; ma quel famoso verso, così dubbio, sembra a molti che basti a suggerire una quantità di idee poetiche. Ha, per esempio, ispirato il Leopardi nel suo Bruto:

E tu, dal mar cui nostro sangue irriga
Candida luna, sorgi,
E l’inquïeta notte e la funesta
All’ausonio valor campagna esplori.

Che, in fatti, il Leopardi pensasse a Virgilio e a Troia, si presume da quel che segue: [p. 137 modifica]

 dalle somme vette
Roma antica ruina;

che deriva dalle parole di Ettore, pronunziate poco dopo quel tranquillo veleggiare al lume silenzioso della luna: ruit alto a culmine Troia.

Ma i passini di Menico? Eccoli. Il doloroso gruppo della famiglia fuggente era già alla porta della città e si poteva considerar salvo “quando a un tratto all’orecchio parve che venisse un trito scalpitìo„. Però nella mente del Manzoni (ripeto, forse ne era conscio, forse no) questo minuto calpestìo si contaminò, si confuse coi passi di Iulo, di cui poco prima Enea racconta: “alla destra si aggavignò il piccolo Iulo e segue il babbo coi suoi passettini non misurati ai miei„. Il Manzoni sentì il suono di tali piccole péste di bimbo sul suolo della patria morta, nell’oscurità notturna. E la casa in fondo al paese? col fico sul cortile? Eccola: “quantunque la casa d’Anchise, appartata, sia in fondo, coperta d’alberi„. Ben altro rumore è quello che sente al suo svegliarsi Enea: tuttavia l’effetto dei ton, ton, ton, ton, è, proporzionalmente, e con sapor di comico, lo stesso che quello del grande incendio o della grande piena. Panto che fuor di sé corre alla casa di Enea, ricorda quel tale “tutto trafelato, che stentava a formar le parole„; e le parole di Panto, pur nella solennità epica degli esametri, quando accennano al cavallo che versa armati, richiamano alla mente queste altre, sebbene contadine: “che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è„. E il pellegrino, cioè Griso, or mi pare [p. 138 modifica]Sinone, or coi suoi bravi in agguato fa pensare ai Greci nascosti nel cavallo, or ha l’aria dei Troiani travestiti da Greci (sebbene questi li ricorda più il bravo da Bergamo: Corebo che diventa Grignapoco!), or assomiglia nè più nè meno che a... Enea che arringa gli ultimi campioni d’Ilio. Si sa: il bravo non ha l’eloquenza dell’eroe: maggior concisione, per altro: “andiamo da bravi: zitti e attenti agli ordini„. Così una volta, e l’altra: “Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti„. Qui la salvezza è nell’unione; in Virgilio, può essere solo nella disperazione. E gli eroi di Enea somigliano nelle tenebre della notte un branco vagabondo di lupi famelici, e i bravi del Griso, una mandria di porci, cui il cane rimette in ordine.

Sì, sì: è un sogno pieno di bizzarre e incerte parvenze; il “casolare diroccato„ ha ora l’idea della macchina “feta armis„, ora le sembianze del “vecchio tempio deserto di Cerere„, nello stesso modo che Menico ora è Iulo, che sgambetta vicino al babbo, ora par tutto... Androgeo: “a un tratto... si accorse d’essere incappato in mezzo ai nemici. Stupì; e ritirò indietro a un punto il piede e la voce. Come chi pestò un serpente, che non aveva veduto... Così Androgeo esterrefatto... voleva andarsene„. Ma non tutto vorrei credere effetto dell’immemore accozzarsi d’idee e sensazioni. Come a me pare che il Manzoni con la sua analisi della divulgazione misteriosa del segreto (cap. XI), “che d’amico fidato in amico fidato gira e gira... tanto che arriva all’orecchio [p. 139 modifica]di colui o di coloro„ ecc., abbia, dirò così, tradotto in sorriso vernacolo la stupenda descrizione epica della Fama (Aen. IV, 173); così credo che volutamente e pensatamente in un altro luogo dei Promessi Sposi, nel cap. VII che precede la notte degli imbrogli, abbia trasformato, volgarizzando ma vivificando, in Renzo e Lucia nientemeno che Enea e Anchise. Oh! Lucia! Eppure è così. Lucia non si vuol persuadere al matrimonio di sorpresa, e pensa al filo che ha il padre Cristoforo. Come finalmente si persuade? Renzo comincia a andare in su e giú per la stanza, a proferire parole sempre più chiare di minaccia contro Don Rodrigo, tra lo spavento e i pianti delle due donne, finchè: “Ebbene! gridò Renzo, con un viso più che mai travolto: io non vi avrò; ma non v’avrà neanche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del... „ E allora Lucia piange, supplica, con le mani giunte, gli si butta in ginocchioni davanti; e Renzo: “Che bene mi volete voi? Che prova mi avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no! — Sì sì — rispose precipitosamente Lucia... „ Or bene, leggete del solito libro dell’Eneide i versi 634-704. Anchise, il vecchio fulminato, ricusa di salvarsi. Nulla può smuoverlo. Enea allora dichiara che non sopravivrà nemmeno lui e tornerà tra i nemici per morire: morire senza vedere la strage de’ suoi: “Arma, viri, ferte arma... „ La moglie gli si oppone sulla soglia, abbracciandogli le ginocchia (era dunque in ginocchioni) e tendendogli il figlioletto. Qui avviene un prodigio e il vecchio finalmente cede, dopo avere avuta di quel prodigio la sanzione divina. Era più ostinato di Lucia, Anchise! Ma si assomigliano, non [p. 140 modifica]è vero? Salvo che in Lucia è, oltre Anchise, anche Creusa. E Renzo somiglia a Enea? Oh! più che non si possa credere. Enea sta per fare una cosa irragionevole: glielo dice bene Creusa: “Se vai per morire, porta anche noi: se hai qualche speranza dell’effetto delle tue armi, resta qui a difenderci„. Come sarebbe andata a finire la cosa, se non interveniva il prodigio? Probabilmente, Enea non avrebbe messo in opera il suo proposito e Anchise si sarebbe persuaso. E qui ci domanderemmo: “Aveva Enea pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Anchise e Creusa? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla... „ Queste parole del Manzoni, mutati quei due nomi, sembrano suggerite dalla lettura di Virgilio. Noi sappiamo, noi italiani, fedeli al genio italico, che due grandi e perfette anime ha guidate e ispirate l’anima cortese Mantovana: Dante e Manzoni.

Per questo, io ragazzo, leggendo nel collegio, dentro il cassetto del mio tavolino, i bei tre tomi dell’edizione milanese, provava una sensazione doppia di cui un elemento mi sfuggiva. Nella scuola io aveva già studiato il secondo libro dell’Eneide e mi ero commosso all’esclamazione: “O patria, o divum domus Ilium!„ come poi mi commovevo per l’addio ai monti, alla casa natia, alla chiesa del paesello. E così allora, senza rendermi conto delle somiglianze, seguii trepidando, nella loro fuga, sì la famiglia di Enea, sì Renzo e Lucia, con un amore e una tenerezza particolari per i due bimbi che camminavano tra i grandi facendo due passini per ognun de’ loro.

Note

  1. I monti di prima sono quelli d’Urbino; i monti di poi, quelli di Barga.
  2. Aen. VII 8 e 9: nec candida cursus Luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus. Per il resto: VIII 87 e segg.: tacita refluens ita substitit unda, Mitis ut in morem stagni placidaeque paludis Sterneret aequor aquis, remo ut luctamen abesset.