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eco d’una notte mitica 135

molare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo„1. Con una grande pace, pace di singhiozzi dopo lo scroscio del pianto, pace di dolore tutto in sè raccolto, quando il dolore si gusta nel nostro segreto come un piacere, terminano le due notti. Gli esuli di Ilio si volgono, al chiaror del giorno, a rivedere la patria — i Danai occupavano in armi le soglie — ; al chiaror della luna guarda Lucia al palazzotto di Don Rodrigo e il suo paesello e la sua casetta, col fico che sopravanzava il muro del cortile. L’esilio... Si direbbe che il Manzoni, nell’anima semplice di Lucia, abbia voluto fare l’analisi, che Virgilio non poteva fare, dei sentimenti di quelli antichi, che lasciavano piangendo i lidi della patria, le nude spiagge, dove la patria non era più se non qualche maceria e qualche fumacchio.

Nell’una notte e nell’altra è un bel lume di luna. Notevole è che nella narrazione di Virgilio ora c’è, ora pare non ci sia (cf. II 340 e 360, 397, 621). Era giuoco di nuvole? d’ombre? Ma sopra tutto un verso, molto “suggestivo„ ci ferma, il 255: A Tenedo tacitae per amica silentia lunae. Tutti ammirano, e inclinano, bontà loro, a concedere, per questo e alcuni altri versi, a Virgilio un sentimento quasi moderno della natura. Nel fatto, che cosa vuol dire quel verso? Ha voluto veramente il poeta mescolare e far tutt’uno della sensazione della vista e di quella dell’udito? O ha voluto significare che la luna non s’era ancora levata, o che, levatasi, si era, per provvidenza

  1. Aen. VII 8 e 9: nec candida cursus Luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus. Per il resto: VIII 87 e segg.: tacita refluens ita substitit unda, Mitis ut in morem stagni placidaeque paludis Sterneret aequor aquis, remo ut luctamen abesset.