Pensieri, Moralisti greci/Appendice/III Abbozzi e frammenti/1. Sopra il frontone del Mai

1. Sopra il frontone del Mai

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Appendice - III Abbozzi e frammenti III Abbozzi e frammenti - 2. Novella - Senofonte e Niccolò Machiavello
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III

ABBOZZI E FRAMMENTI

i.

SOPRA IL FRONTONE DEL MAIO).

Lettera

al Ch. Pietro Giordani.

(1818)

Mio carissimo. Io credo che delle scoperte del nostro Mai pubblicate finora quella del Frontone e per l’apparenza e per la sostanza sia la principale: e dico per l’apparenza perché autore antichissimo e novissimo, maestro di Lucio Vero, e quel eh’è piú, di Marco Aurelio ; lettere di lui a’suoi discepoli imperatori e dei suoi discepoli a lui, due tomi di scritture per l’addietro ignotissime, sono parole grandiose che fanno romore ed empiono gli orecchi e destano la meraviglia e solleticano la curiositá. E dico per la sostanza, perché nessuno vorrá mettere Frontone con Simmaco né con Temistio, e non è chi per una lettera di quello non desse volentieri un trattato di Porfirio, né alcuni frammenti di una storia, della quale la maggior parte sopravviveva, potranno competere di nobiltá con quelli di un oratore tanto famoso, né (i) M. CORNELII FRONTONIS opera inedita cum epistuiis item ineditis Antonini Pi: M. Aureli: L. Veri et Appiani, nec non aliorum veterani fragnientis. Invenit et commentario praevio notisque illustravit Angelus Maius Bibliothecae Ambiosianae a linguis orientalibus. Mediolani, Regiis Typis, MDCCCXV, voi. II, in-4.» [p. 310 modifica]perché sieno preziosi gli scritti del principe dell’eloquenza romana, diremo che un tomettino di frammenti di Cicerone, aggiunti ai molti tomi d’opere che n’avevamo, vaglia tutti questi di un altro oratore celebratissimo, atteso massimamente che Cicerone giá senza quelli lo conoscevamo tanto che meglio per essi non lo conosciamo, e Frontone è stato fin qui sconosciutissimo; né questo pregio della novitá è sempre lodato dal volgo solo, perché un ingegno di piú e un artefice di piú e una nuova maniera di scrivere, se sia veramente buona e celebrata, come questa è, da quelli che giá la conobbero, sono cose notabili e insigni nelle lettere. Anzi io credo che i cultori dell’arti belle brameranno sempre che si scopra piú tosto un’egregia opera di un maestro sconosciuto che un’egregia opera di un maestro giá da tutti conosciuto e studiato; e questo non per amore solamente di un diletto infruttuoso o della maraviglia, ma dell’utile vero dell’arte soprattutto. Ed io per me non dubiterei di comperare, potendo, qualche ode d’Alceo o di Stesicoro o di Simonide con qualche ode di Pindaro, né di dare parecchie elegie d’Ovidio per qualcheduna di Callimaco, e due o tre commedie di Plauto per altrettante di Cecilio o d’Afranio. Del valore poi e della fama di Frontone, in lodare il quale gli antichi arrivarono piú oltre che noi al presente non arriveremmo in lodare chicchessia, non consentendo pure che s’arrendesse a Cicerone, se io volessi parlare, ripeterei quello che il nostro Mai ha detto, né io potrei dir meglio, e che oramai tutti sanno. Resta che io conchiuda che prendendo a scrivervi del Frontone del Mai, come l’anno addietro vi scrissi del Dionigi, non ho scelto materia frivola e da nulla, ma piú veramente grave e delle piú gravi, di maniera che se questa lettera per altre tacce potrá e dovrá, per la vanitá del soggetto non potrá essere ripresa: e la scelta del soggetto non è piccolo né facile assunto di chi scrive. Voi senz’altro dovete sapere che io due anni fa tradussi in volgare il Frontone appena uscito in luce, e questa mia traduzione, aggiunteci parecchie note e una I tta dell’autore, fu veduta ed esaminata dal Mai, il quale stretto da continue e gravi occupazioni, non credè buttato quel tempo che concedeva all’umanitá e alla cortesia: e se bene queste stesse persuasero al Mai di perdonarle molte cose e di scrivermene dissimulando o stenuando o scusando il male e amplificando il bene, io contuttociò fui da tanto che poco appresso la condannai a quello che meritava; e fui giusto giudice del mio parto. Ma se non lo sapete, [p. 311 modifica]non rileva; né io ve ne voglio dir altro, fuggendo, come dice Luciano, «il visco di questa faccenda», perocché non posso credere che non vi siate accorto ch’io parlo volentieri di me medesimo, e come son facile a cominciare questo discorso e difficile a finirlo. Basterá che sappiate che quelle osservazioni ch’io feci allora e scrissi, che il Mai vide, non faranno appena un terzo di queste che ora vi scriverò, e le altre le ho fatte poi rileggendo le reliquie frontoniane in diverse occasioni. Né dovrá parere intempestivo questo mio scrivervi sopra una scoperta pubblicata giá da due anni e piú, se non si credono intempestive le fatiche dei moderni sopra gli scrittori classici ritrovati nel quattrocento o prima, e se non è intempestivo quello eh’è maturo; e il maturare par proprio del tempo. Entrando dunque in materia, la prima cosa, recherò un passo di Claudiano Mamerto, scrittore, come sapete, del quinto secolo; il qual passo al Mai, quando raccoglieva le testimonianze degli antichi intorno a Frontone, non diede nell’occhio, cosi com’era fuor di mano e sepolto sotto una stipa di controversie ereticali e di cronache di monasteri e di lettere d’abati e di testamenti e di formole e d’atti e di privilegi e d’altri tali orrori. Lo recherò distesamente acciocché vediate parole opposte ai concetti, e in uno stile barbaro buoni consigli e sentenze intorno allo scrivere; onde costui parrebbe di quella gente della quale dice Omero: ch’altro in petto si cela, altro favella: ma in quegl’infelici tempi si peccava molto piú per impotenza che per malizia. Dice dunque ( Epist. ad Sapaudum rhetoretn appresso il Baluzio Miscellatt., edizione di Parigi, t. VI, f. 535; edizione del Mansi, Lucca 1761-1764, t. Ili, f. 27: ma in questa il passo che segue è scorretto): Illud iatn in fine sermottis perquarn familiariter quaeso, ut spretis novitiarum ratiuncularum pueriiibus nugis, nullum lectitandis his tetnpus insumas, quae dunt resonantium sermunculorum taureas rotant, oratoriam fortitudine in plaudentibus concinnentiis evirant. Naevius et P/autus Ubi ad elegantiam. Calo ad gravitatem, Varrò ad peritiam, Graccus ad acrimoniam, Chrysippus ad disciplinam, Fronto ad pompam. Cicero ad eloquentiam capessendam usui sint. Quisquis enim recentiorum aliquid dignum memoria scriplitavit, non et ipse novitios legit. Itti ergo reventilandi me moriaeque mandamii sunt, de quibus isti potuere perficere quos [p. 312 modifica]tniramur. Vedete che questi attribuisce a Frontone la «pompa», al qual Macrobio la «secchezza» ; e queste due qualitá paiono meglio ripugnanti che disparate, secondoché dirò poco stante. Ma prima mi voglio assicurare che non rigettiate l’autoritá di Mamerto, come scrittore di nessuna levatura e non antichissimo, perché, lasciando stare che Macrobio fu chiamato la scinda di Gellio, e paragonato alla cornacchia d’Esopo, e parve balbettante nel latino, e del resto non fu tutto un mezzo secolo avanti a Mamerto, la quale autoritá, senza che per sé stessa non è gran cosa, per cagione del gusto allora parimente corrottissimo fa poca o nessuna forza; io non dubito che Mamerto non parlasse secondo l’opinione universale stabilita dal consenso degli studiosi e discesa dal secolo di Frontone infino al suo, la quale, come non è da dire che fosse falsa, cesi né meno è da credere che Mamerto l’ignorasse, o non ne facesse conto e parlasse di suo capo. Certamente oggi nessuno è, tra quelli che scrivono e stampano, tanto idiota, il quale chiamasse Dante delicato, né il Petrarca austero, né il Boccaccio secco, né l’Ariosto nervoso, né l’Alfieri molle; e similmente nessuno è che se, discordando dal parere comune, chiamasse qualcheduno di questi o altri tali autori altrimenti che non li chiamasse l’universale, non solamente non portasse nessuna ragione per la quale cosi facesse, ma né anche desse segno di sconsentire dall’opinione pubblica. Piú tosto saranno moltissimi che, ancorché non intendano propriamente perché il Petrarca sia leggiadro ed elegante e il Boccaccio copioso e soave e cosi dite degli altri, non per tanto a un bisogno li chiameranno cosi perché sanno che cosi si chiamano. E Mamerto non fu al suo tempo de’ piú goffi, ma per lo contrario de’ piú dotti, o vogliamo dei meno ignoranti. Ma tutto questo si può e dèe parimente dire di Macrobio e della testimonianza di lui che attribuisce a Frontone la secchezza. Ed io so bene che san Girolamo e Sidonio ascrissero a Frontone la gravitá: ma la gravitá può stare colla secchezza e forse anche l’ama, la pompa non pare che possa; perché, se io non fallo, non si dá pompa senza una certa copia, e la copia, poniamo che non sia l’opposto, certo è nemica della secchezza, e sono nemici della secchezza certi ornamenti dei quali la pompa non pare che possa far senza. E che la gravitá sia cosa diversa dalla pompa, comunque per lo piú l’accompagni, né dovrebbe essere per sé oscuro, e lo viene a dire manifestamente lo stesso Mamerto proponendo per la gravitá Catone, e Frontone per la [p. 313 modifica]pompa, e forse da quello che diremo sará chiarito da vantaggio. Pomposo non mi pare che di tutti quegli oratori antichi, i quali ci è conceduto di leggere e giudicare da noi medesimi, si possa ordinariamente chiamare nessuno, fuori soltanto Cicerone: poiché Demostene, mentovato dagli antichi come fonte e specchio di gravitá, non è pomposo, eccetto, se volete, in alcuni luoghi, contuttoché s’accosti alla pompa quanto nessun altro greco; imperocché quel suo concitamento e quell’ardire e quel fuoco e quello strepito e quell’avventarsi e quel precipitare e segnatamente quel ripetere, che è stranissimo tra i suoi, fanno che se alcuno giá pratico dello scrivere dei greci, cosi viene per la prima volta a toglier Demostene, oltreché stupisce della gagliardia dell’oratore, creda subito di trovarci un non so che di non greco o di piú che greco: ma la gagliardia non è pompa, né il fervore né l’impeto, né la gravitá che con queste cose si congiunge; e possono stare senza la pompa, come la pompa alle volte potrá stare senza esse. Ho detto della gravitá, «che con queste cose si congiunge», avendo rispetto a quello che ora comunemente s’intende per gravitá in materia di discorso; ma se avessi voluto adoperare questo vocabolo nel senso che spesso l’adoperavano gli antichi, avrei detto che in queste cose principalmente consiste, cioè nella gagliardia e nell’impeto e in cose tali: perché i latini ragionando d’eloquenza, solevano colla voce grazntas significare non questo che noi intendiamo per «gravitá», e che i greci chiamavano oepvóxTixa, o piu veramente non questo solo, ma quella proprietá che dai greci era detta Bsivóxyjg, e massimamente era riposta nella forza e nella veemenza: e di questa presso i greci era il capitale e piú solenne esempio Demostene del quale dice Cicerone mW Oratore che nessuno fu piú c grave» ; di maniera che ^ Ay]|íooOívous 5 eivóxy]s andava per le bocche degli uomini non altrimenti che ■#) ‘0[iT;poo aocpicx o vero IlXccxeovoc jieYaXocppoaúvrj. Laonde io non discredo che san Girolamo e Sidonio, dove accennano la gravitá di Frontone, vogliano dinotare questa qualitá, che è insomma quella primaria qualitá di Demostene che io ho descritto poco sopra e che tanto s’ammira e si celebra: e, dato che io m’apponga, anche converrá dire che san Girolamo e Sidonio concordano in certa guisa con Mamerto, assegnando a Frontone una proprietá vicinissima alla pompa; se bene a ogni modo non ne discorderebbero attribuendo a Frontone la gravitá la quale, intendasi pure questo vocabolo come ora s’usa, difficilmente desidererassi dovunque la [p. 314 modifica]pompa non si desideri. Come ho detto, non è dubbio che quella qualitá primaria di Demostene non sia strettamente affine alla pompa ; non però si può dire che questa e quella sieno tutt’uno, quando tra l’una e l’altra non ci corre cosi poco divario che sia bisogno aguzzare le ciglia per iscoprirlo, ma tanto che di primo lancio corre agli occhi di qualunque prende a paragonare con Demostene Cicerone, il quale come è, si può dire, il solo oratore latino che ci rimanga, cosi è il solo pomposo, non confacendosi la pompa allo stile dei greci: ma non tanto perch’è il solo latino, quanto perché fu il sommo, avviene che si trovi in lui quello che in nessun altro antico, col calore e col vigore e coll’ impeto quel largo e splendido ornato di parole e di sentimenti, quella ricchezza quell’ubertá quello sfoggio, quella perenne, non dirò gravitá né nobiltá, ma piú tosto altezza e maestá, quell’ampiezza, quel suono vasto e solenne, quel clamore, quel plauso, quella baldanza, quel giubilo dell’orazione: e tutto questo si vuole intendere per «pompa». Ma Demostene, piu rotto e piú aspro e piú fiero e sempre nerboruto e robustissimo, non si dá gran pensiero degli ornamenti e, purché sia gagliardo, non s’affatica d’esser magnifico; e, purché atterri e distrugga come il fulmine, non fa troppo caso dello splendore; e, purch’egli vinca colla forza, non si cura ch’altri possa combattere con piú maestá, né bada gran cosa nella palestra alla dignitá dei movimenti, sol che non gli venga manco la lena, e ancora alle volte tra la gravitá e l’energia non si fa coscienza per amore di questa di lasciar quella, e in genere non è pomposo ma veemente, nel che differisce da Cicerone; non giá che a questo manchi la veemenza, ma manca a Demostene la pompa, fi quale si potrebbe paragonare a un torrente che, dirocciando da una montagna caschi in un burraio, e di li con ispessi salti per dirupi e scheggioni vi vada voltolando. Ma Cicerone si dovrebbe rassomigliare a un fiume non meno largo e profondo e poderoso e rapido che maestoso, né meno atto a schiantare e a sommergere che a far mostra della sua gran massa d’acque, correndo fastosamente per la china delle montagne o per mezzo ai campi e rintronando del continuo le ripe. Non ignoro che questa differenza non è per maniera effetto della diversitá degl’ingegni, che non pervenga piú specialmente dalla diversitá delle nazioni, e sopra ogni cosa, dell’etá, e dall’avere Cicerone potuto leggere Demostene e Demostene non aver potuto Cicerone; né che questi cosi appunto è piú ornato di Demostene, come Virgilio piú elegante e artifizioso d’Omero [p. 315 modifica]e Orazio di Pindaro e Livio di Tucidide; e non intendo in nessunissimo modo di mettere Cicerone sopra Demostene, o di paragonare la fierezza colla pompa, né la negligenza magnanima colla diligenza, né la natura coll’arte: ma queste cose ho dovuto dire o piú tosto ripetere (giacché non ho detto niente di nuovo) per chiarire che cosa propriamente sia la pompa del ragionare che s’attribuisce al nostro Frontone, e come si diversifichi dalla gravitá che parimente gli s’attribuisce, e come sia nemica della secchezza che gli è assegnata da Macrobio. E per la «secchezza» del dire non bisogna mica intendere né povertá, né grettezza, né fiacchezza né cose tali, ma quella proprietá degli attici tanto famosa e lodata anticamente, che consisteva massime nella semplicitá e nella sobrietá: la chiamavano i latini non pure siccitatem, ma tenuitatern e subtilitatem , e anche sanitatem e integritatem , dai quali nomi si può comprendere di che natura fosse. Imperocché la piú parte degli oratori attici (io dico degli antichi, e veramente, attici non tanto di patria quanto di stile), e non solamente Lisia, ch’era portato per esempio di questa maniera di ragionare, (ma possiamo dir tutti qual piú qual meno quelli che ci restano, eccettuati Eschine e Demostene che si volsero alla grandezza), soleva nelle orazioni seguitare piú tosto la naturalezza e schiettezza e verecondia che lo splendore, e piú tosto la posatezza che l’impeto, e piú tosto la parsimonia che la copia; talmente che, non curandosi della ricchezza degli ornati, e contenta della semplicitá e del candore dello stile vigoroso veramente ed efficace ma tuttavia positivo e piano, non cercava il rumore non il dibattito, non s’infiammava, non s’innalzava, ma con molta precisione e con molta disinvoltura s’innoltrava speditamente verso la mèta, tenendosi al tutto lontano dalla copia; o se non al tutto, certo non usavala altro che tenue e rimessa e riposata, gittando i concetti con una bella sprezzatura, dalle quali cose non è maraviglia che l’orazione venisse a ricevere quell’austeritá e quell’asciuttezza e quella secchezza sana e incorrotta che tanto si decantava. Ora se egli sia credibile che un oratore fosse a un tempo secco e pomposo, a ciascheduno è chiaro senza ch’io parli; perciò non sarò molesto inutilmente: solo dirò che la «pompa» e la «secchezza» tanto non pareano compatibili agli stessi antichi che, stimandosi propria degli attici la secchezza e di Cicerone essendo propria la pompa, questi a’ suoi giorni era tacciato di non dire atticamente, perocché voleva piú tosto essere [p. 316 modifica]grandioso che secco; censuravano la sua magnificenza espressamente come nemica della secchezza e non punto attica; ond’egli in un luogo delle sue opere {De optimo genere oratorum, cap. 4) si difende contro chi riputava che, collocato l’esercito nel fóro e ne’ tempii che erano intorno al fóro, fosse convenuto dire per Milone non altrimenti che si costumasse in causa privata avanti al giudice solo. Ma le parole di Mamerto non sono l’unica, anzi né meno la Principal cagione ch’io non sappia come attribuire al nostro Frontone la secchezza: imperocché molto piú grave argomento di dubitare mi nasce da quello che avanza degli stessi scritti di Frontone, dov’ io vedo e larghezza d’ornamenti e nessuna scarsezza (anzi non so perch’ io non dica ubertá) cosi di parole come di cose, e molto splendore d’immagini e di sentenze, e maniera e garbo e leggiadria, e una certa soavitá e un certo che di pastoso e di morbido nel colorito, e se bene la pompa propriamente parlando, non ce la trovo, perché non si conviene la pompa a lettere e tali scritture, nondimeno lo stile in genere mi pare a maraviglia acconcio a sollevarsi e a pigliare grandi forme e a vestire panni magnifici e ad atteggiarsi maestosamente e a procedere pomposamente quando faccia a proposito, cioè massime nelle orazioni; ma nessuna orazion di Frontone e nessun frammento d’orazione s’è lasciato vedere, stante che quei pochissimi rimasugli giudiziali sieno piú tosto rimasugli di lettere che di orazioni. Certo che gli ornamenti dello siile frontoniano sono ben bene incorporati col resto e non lussureggiano né soprabbondano; e nei frammenti che abbiamo non appariscono né smorfie, né sfacciataggini, né gonfiezze, perocché Frontone non era effemminato né temerario né ampolloso, e non esagerava né sbracciava, né sputava paroioni, né cercava miracoli e cose dell’altro mondo, e non gittava sentenze sopra sentenze alzandone mucchi e cataste, ma metteva solo quelle che il soggetto gli porgeva e quasi frattanto gli produceva; né le andava cercando, come i nostri antichi dicevano, col fuscellino, né si mugneva e spremeva il cervello per cavamele quando non voleano uscire, e non riputava vote quelle pagine o quegli scritti dove non fosse nessuna sentenza che, spiccandosi dal piano del discorso e soprastando, súbito désse nell’occhio come un bitorzolo sulla pelle liscia, e nessuno di quei cavalletti di sentimenti o di parole che, puntellandosi l’une l’altre e cosi scambievolmente sostenendosi, fanno quella vaga figura della [p. 317 modifica]contrapposizione, o antitesi che se la chiamino, e nessun’arguzia, e nessun concetto a facce o specchietti che quasi penzolo dondolando tremolasse e luccicasse. E se principalmente di queste cose, che Frontone fuggiva, si compone la grassezza del dire e il carattere dello stile di Plinio giovane e di Simmaco, che Macrobio mette per capitani del genere pingue e fiorito, certamente tra lo stile di Frontone e quello di Plinio e di Simmaco ci corre lo spazio, dicevano i latini, di tutto il cielo; e s*e la «grassezza» è il contrario della «secchezza», sapremmo che cosa sia la secchezza di Frontone: ma il fuggire quelle cose è necessario si bene alla secchezza, non però basta; o che saranno secchi e Cicerone, a cui Macrobio attribuisce non la secchezza, ma la copia, e Livio e tutti i buoni non che gli ottimi, tra i quali molto è lungi ch’io metta Plinio, poiché di Simmaco dove si parla dei buoni e degli ottimi non può esser parola. Pensando io alla maniera d’aggiustare coll’autoritá di Mamerto, e soprattutto collo stile dei frammenti frontoniani, la testimonianza di Macrobio, la quale sono persuaso per le ragioni addotte in proposito di Mamerto che sia vera testimonianza di quello né piú né meno che era voce e opinione universale degli antichi, considerava quanta parte del dire sieno le parole e la lingua, e come sovente le proprietá loro che si possono chiamare estrinseche nello stile sieno considerate quasi proprietá intrinseche; e questo dai savi e dotti, non solamente dal volgo, imperocché come non è scrittura senza parole, anzi di questo e non d’altro materialmente si compongono le scritture, e non da altro che dalle parole hanno corpo e vita le forme dello scrivere, si come scrivendo non con altro si dimostrano ed esprimono i concetti dell’animo; laonde volere o non volere, avviene che uno scrittore negligente nelle parole non possa far, comunque nel resto sia nobile e segnalato, che a corto andare non perisca e non cada della memoria degli uomini; cosi è per maniera difficile il cernere e sceverare diligentemente le une dalle altre le proprietá di due cose, talmente l’una dall’altra inseparabili, dico la favella e le ’forme, che di radissimo si riesce a fare in guisa che nessuna celatamente ne rimanga, o di queste tra quelle o di quelle tra queste, confusa e mescolata; onde poi non si ragioni di cosa attenente per esempio a quella parte che consiste nelle parole e che noi chiameremo la persona, come se fosse propria di quella parte che consiste nelle forme e che noi chiameremo le fattezze e gli atti e [p. 318 modifica]le maniere del discorso, restando che si rassomiglino all’anima i sentimenti e i concetti che possono animare infiniti e diversissimi corpi di svariatissimi atti e sembianze, che è quanto dire esser espressi con forme e parole innumerabili e disparatissime. Ed effettivamente il vocabolo «stile» che comprende si la persona che le sembianze e gli atti di lei, o vogliamo tutte e due le parti che dirò visibili dell’orazione, comunissimamente s’usa senza divario per dinotare quando l’una quando l’altra di queste parti staccatamente, non avuta nessuna considerazione di quella parte della quale si tace, e senza che chi scrive si dia pensiero d’ammonire i lettori quale di esse parti voglia significare con quella voce, il che si viene a intendere solamente dal contesto, e noi non ci badiamo piú che tanto: pare che il vocabolo sia proprio di ciascuna delle due parti presa da per sé tanto dell’una quanto dell’altra, onde spessissimo vediamo accadere ch’altri intantoché va dicendo ch’egli parla dello stile di qualche scrittura, non tocchi però niente fuorché le parole e la lingua: in somma si confondono insieme le due parti dello stile, che tuttavia differiscono pure assai. E spero che se porrete mente alle cose che ho dette, vi dobbiate certificare che in veritá la forza e l’uso della parola «stile» sono oscuri e quasi fluttuanti, io non dico presso i piú, ma eziandio presso i dotti e oculati i quali parimente l’adoprano nei modi specificati di sopra; e che dove è bisogno discernere le qualitá delle forme dello stile dalle qualitá della materia o sia delle parole e della favella, lo strettissimo collegamento e quasi incorporamento di quelle con queste tratto tratto fa gabbo anche alle viste piú fine e penetrative: e quando dico «forme», intendo tutto l’intrinseco dello stile, come dire l’ingenuitá, la piacevolezza, la forza, la dignitá; e quando dico «parole» e «favella», tutto l’estrinseco. Onde ci ebbe chi stimò che la gente prenda in affetto uno di quegli errori ch’io dico, attribuendo all’intrinseco dello stile di Sallustio la brevitá che, secondo lui, sta tutta nell’estrinseco; cioè i periodi in veritá sono brevi, e di punti non c’è carestia; ma, colui diceva, perch’altri valichi un certo spazio a forza di salti, ei non fa mica meno strada di chi tragitti quel medesimo o altrettanto spazio camminando alla distesa: e Sallustio non si sbriga de’ suoi concetti in poco d’ora, ma li volge e li rimena e li frega e li ruzzola, e anche alle volte, posati che gli ha, da capo li ripiglia: ora uno scrittore cosi fatto non è breve, né la brevitá consiste nei molti punti. Ma questo parere io l’ho portato sola[p. 319 modifica]mente per esempio, non perch’io ne faccia gran caso; però tal qual è lo lascio stare senz’altre parole, e mi basterá che serva a dichiarare le cose dette di sopra; dalle quali io voglio inferire in ultimo, che la secchezza attribuita alla «forma» dello stile frontoniano può essere che in vece s’aspetti alla materia, cioè alle parole. Imperocché quanta austeritá soglia derivare al discorso dalle parole e dai modi o antichi o disusati o singolari, se io mi mettessi a dimostrarlo accuratamente, farei sembianza d’avere dimenticato che scrivo a voi: si che, tralasciando i molti esempi che si potrebbero con poca o nessuna fatica raccogliere dalla nostra lingua, sarò contento di uno solo, fatto, si può dire, a posta per questo luogo, essendo preso da un autore del quale il nostro Mai pubblicò numerosi e splendidi avanzi non molto dopo il Frontone, e in proposito di cui mandaste fuori voi medesimo un libro, non fa per anche un anno, e io quindi a poco vi scrissi distesamente: e questi è Dionigi d’Alicarnasso il quale, come vago che fu di voci e maniere insolite, fu giudicato da Fozio che avesse dell’aspro: ora quest’asprezza è vicinissima e compagna della secchezza; ma bisogna che intendiate non la secchezza intrinseca dello stile, propria degli attici, della quale s’è detto piú sopra, ma la secchezza estrinseca, cioè delle parole, giacché adesso non ragioniamo d’altro che di parole. Ed è curioso a notare che le due primarie scoperte del Mai sono state di due scrittori in ciascheduno dei quali è osservabile l’aver voluto non solamente per molti pregi, ma oltracciò per molte stranezze grammaticali essere osservati: ma in questo io crederei che Frontone, se si può dire vittorioso chi .soprabbonda dove piú tosto è vittoria lo scarseggiare, vincesse Dionigi di non poco; tuttavia non l’affermo, perché ci vorrebbe molto piú pratica dello stile di Dionigi che non ho io. Tacerò di quei vocaboli trovati in Frontone che per l’addietro non si conoscevano; parecchi ne segnò il Mai da principio; altri dopo, in fondo alle giunte e correzioni; altri ne restano da segnare, e gl’indicherò piú avanti. Della stranezza dei quali basta dire che non si trovano in nessun libro né scrittarello né frammento latino, in nessuna parte salva del Lazio, che si sappia. Lascerò questo, che pure è molto: e come no? tante parole sconosciute in due volumi che comodissimamente si ristringerebbero in uno, e dove non si tratta di cosa che in genere non sia conosciutissima e usuale! Ma di voci, se bene giá le avevamo ne’dizionari, nondimeno al tempo di Frontone antichissime o fuor d’uso, di costruzioni, [p. 320 modifica]di frasi, di significati rarissimi e stravaganti ne trovate pressoch’io non dissi a ogni pagina, e il Mai dietro a schiarire grammaticalmente quando uno quando altro passo, non dico buio ma non di rado oscuro, sempre per la lingua maraviglioso: aggiungeteci un’ortografia giá vecchia, decrepita di piú secoli, con cui Frontone anche le parole giovani aggrinza e incanutisce. Da queste cose la materia, o sia l’estrinseco del suo stile, si dèe credere per certo che ricavasse un sapore asciutto e brusco, e che in tutta quanta essa materia s’incarnasse e immedesimasse quell’austeritá che vediamo in tanti de’ nostri ne’ quali, purché cápiti l’occasione, non dubitiamo di chiamare questa qualitá «secchezza», che infatti viene a esser tutt’uno. E se altri opponesse che Frontone non ci fa punto al palato quell’effetto che ci fanno scrittori italiani ogni volta che tirino tanto o quanto al secco e stitico, anzi dá risolutamente nel dolce, facendomi dalla seconda opposizione che si spaccerebbe in un batter d’occhio, risponderei che la dolcezza può benissimo stare con quella qualitá ch’io dico; e senza piú, potendo dir molte cose, citerei Fozio che in Dionigi d’Alicarnasso trovò l’una e l’altra. E rimontando alla prima difficoltá, domanderei che fosse attribuito non a pertinacia di mantenere l’assunto ma a confidenza nel vero e a maturitá di riflessione fatta, se francamente e piú largamente che non occorresse per salvare il detto di sopra, affermassi che né di questa né d’altra tale proprietá di nessuno scrittore sia latino sia greco sia di qualsivoglia altra lingua morta, non è possibile presentemente di sentire il sapore fuorch’oltremodo svanito. Intendo tutte quelle proprietá che s’appartengono al di fuori dello stile, cioè alla favella, ma particolarmente certe piú recondite per le quali, a volere che si sentissero, ci sarebbe piú special bisogno ch’altri avesse imparata e adoprata quella tal lingua da fanciullo, o se la fosse col lungo e assiduo uso di favellarla si cogli altri e si con sé medesimo, dimesticata non altrimenti o quasi come l’imparata da fanciullo: tra le quali l’«asprezza» di cui si ragionava, non è l’ultima. Imperocché quando altri si mette a leggere un libro scritto nella sua propria lingua (dico propria in qualunque si sia delle due maniere qui sopra specificate), non s’aspetta di trovare novitá né raritá né difficoltá in quello eh’è per lui cosi antico e ordinario e che egli quando bene si tenesse ignorante di ciascun’altra cosa, senza fallo si penserebbe d’avere su per le dita; e trovandone si maraviglia; e come chi palpa con mano nuda un panno ispido e [p. 321 modifica]setoluto, cosi prova e sente in sé stesso vivacemente gli effetti di quell’asprezza eh’ io diceva. Ma noi come prima diamo di piglio a un libro, per esempio latino o greco, ci mettiamo naturalmente in animo di dover fare un sentiero non dico nuovo ma insolitissimo a petto al consueto, vale a dire alla lingua nostra propria ; e leggendo, non ci possono dar troppo nell’occhio la raritá dove tutto è in certo modo raro; né ci può far maraviglia, per una strada che non siamo usati di frequentare piú che tanto, rabbatterci in qualche oggetto, cioè in qualche vocabolo o modo, nuovo o poco noto; né questi vocaboli o modi ci sanno punto d’aspro, perché di quell’asprezza di cui parliamo non è mica ingenita e nativa a quelle tali parole o frasi, ma sta solamente nell’esser queste o vecchie o comunque inusitate; ora dell’inusitato accorgendoci noi poco o niente, e quel piú o meno d’antico che può avere una voce o un modo non facendo quasi nessuna differenza di sapore in un libro antichissimo tutto, ci avviene caso che questo sia veramente aspro, come a chi palpi quella roba ruvida ch’io diceva con mano inguantata, il quale sa bene che il panno punge perciocché vede com’egli è irsuto, non però si sente pungere, per molto eh’ ei lo tasti. Io so che la mia sperienza non fa forza, so che altri m’opporrá i dotti e gli eruditi, e vorrá sgomentarmi coll’apparato della fama e della dignitá, e sostenere che l’uomo possa coll’ingegno e collo studio lungo e continuo e diligente farsi il palato latino o greco di maniera che vaglia a sentire efficacemente e distintamente le diverse qualitá degli stili in questa o in quella lingua, non altrimenti che faccia nella propria: ma io allora crederò che questo possa essere, quando vedrò un dotto favellare ordinariamente in latino o in greco o in altro tale idioma, e favellare com’è credibile che favellassero i latini o i greci, almeno quanto alla dizione, e favellare non con gente che non l’intenda o non gli risponda o gli risponda in altra lingua o ciancicando il latino o il greco, ma con gente che parli quella tal favella né piú né meno come lui, essendo di primissima necessitá, per arrivare a dimesticarsi una lingua nella maniera che ho detto, il sentirla favellare, e non a caso o di quando in quando, ma regolarmente e tutto giorno; e saprò ch’egli nel pensare adoperi il latino o il greco non artatamente né a posta, ma per forza d’abito sbadatamente e per lo piú senz’avvedersene. E finattantoché non saprò né vedrò queste cose; e finattantoch’esse per lo contrario si stimeranno e saranno impossibili, io mi riderò di [p. 322 modifica]chiunque crede che in una lingua che si studia solamente e si legge, altri possa acquistare un senso tanto o quasi tanto squisito, quanto in una lingua che si parla e si pensa. E che il fatto stia cosi come io dico, me ne rimetto alla coscienza dei dotti i quali sanno che se, leggendo un libro per esempio latino, inciampano in qualche parola o frase che anche senza essere troppo antica, nondimeno giunga loro nuova o mal nota, qual se ne sia la cagione, a segno che non la possano intendere fuorché dando di mano al vocabolario (il che può benissimo accadere o accade), non se ne sentono però l’orecchio in nessuna maniera offeso, né quella voce o quel modo par loro aspro né stiracchiato: laddove se a noi italiani vien trovato in un libro italiano qualche parola o modo niente o poco inteso, come subito ci accorgiamo quasi di uno stridere che faccia quella parola in mezzo alle altre; come spiccatamente sentiamo non so che di rincrescevole che ci fa dare al vocabolo del duro e del fastidioso e allo scrittore dell’affettato!

ABBOZZO

Non si trova di gran lunga in Frontone quel pungente, quell’acutezza, quel sale e insomma quella forza dello spirito di Luciano. In effetto, leggendo De bello portico, trovo tutto quanto lo stile di Frontone efficace e vibrato del continuo, per cagione principalmente della gran proprietá e bella scelta delle parole (e nervoso) e cosi pure le immagini, benché prosaiche come conviene, e le similitudini e le figure ecc. sono energiche e vivaci e risaltano, e lo stile è robusto e di colorito forte e nervoso. Chi sa che questo non sia quello che chiamano secchezza. Certo la copia frontoniana non è punto lassa né floscia, ma soda consistente e vigorosa, per la gagliardia delle parole, frasi, immagini, similitudini, figure, traslati, ecc. come ho detto. Nondimeno Frontone ha certo che fare con Luciano, non solo pel tempo ma per lo studio e amore degli antichi, e bella lingua e la continua energia e proprietá dell’espressione. Frontone di piú buon cuore che Cicerone, buono per natura, non solo per filosofia. — Piú affetto. — Scherzi piú affettuosi. — [p. 323 modifica]Secchezza, non grettezza però, la pompa del suo dire mentovata da Mamerto. Non lussureggia non ha ornamenti fuori del corpo del discorso, come Plinio chiamato pingue da Macrobio (opposto al secco) ma non però manca di ornamenti, benché tutti sieno interni o vogliamo intessuti e legati strettamente coll’orazione soda e robusta. Congettura che questa secchezza venga dall’uso delle parole e stile antico, e sia lo stesso che quell’asprezza di Dionigi alicarnasseo, notata da Fozio, procedente dalle frasi che per essere inusitate hanno del duro come per es. «innanzi lui» ecc. Difficoltá per noi italiani di sentire quest’asprezza e forse anche affettazione e ricercatezza di stile antico, come anche gl’idiotismi e proverbi latini, che per noi non hanno quel familiare che aveano certo per gli antichi, mentre tutto il latino (de’ classici) ci par nobile. — Certo a Frontone non manca la copia né delle parole né delle cose. — Gravitá frontoniana notata da Sidonio. — Non giá che Cicerone non sia affettuoso; ma egli è sempre piú serio, anche negli scherzi... anche cogli amicissimi... sempre piú grave, sostenuto, moderato anche nelle dichiarazioni d’affetto (come è naturalissimo in un politico, dato all’amministrazione de’ negozi e della repubblica) e non dá in quell’espansioni di cuore in quei trasporti di Frontone. — La difficoltá ch’io dico sta nel conoscere e sentire e distinguere i colori e le proprietá dello stile quanto alle parole e alla lingua, si che comprende l’eleganza ecc. — Secondo me, non è dubbio che i greci avranno trovato differente il sapor dello stile degli attici noti, e di quelli che aveano studiato quello stile: e a me stesso, paragonando il purissimo e atticissimo Luciano samosatense con Isocrate tanto studiato, parea di trovare molto piú studio e ricercatezza di eleganza in quello, e non dubitava che ai greci quella sua eleganza e atticismo (benché bello) non dovesse parere studiato e non punto spontaneo; ma a noi non è dato di sentir queste cose cosi bene, come noi italiani sentiamo a prima giunta l’affettazione e lo studio ne’ nostri per es. nel Bembo. — Ma questo fonte bellissimo di osservazioni utilissime, forse non mai fatte e nuove, dico il paragone dello studio del dialetto attico tra’ greci con quello del toscano tra noi, porterebbe lungo discorso, e però ecc. — Altro è la gravitá che può star colla secchezza e anche l’ama, altro è la pompa attribuita a Frontone che pare che non possa stare senza una certa copia. [p. 324 modifica]Brusca austeritá dello stile in chi cerca la purezza della lingua e l’imitazione degli antichi, che si vede ne’ nostri e potea essere in Frontone, e farlo chiamar secco. E se in cosa manifesta ci fosse bisogno o utile, per autoritá allegherei Plutarco Vita Demosthenis nel principio, ove dice di sé ecc. e riprende Cecilio ecc., contuttoché la lingua latina allora non solo fosse viva ma in fiore, ed egli avesse convissuto coi romani ecc. Bisogna forse confessare che Frontone in qualcuno di que’ suoi precetti oratorii ed usi e modi di esercitarsi, dá nel sofistico e s’accosta all’uso dei sofisti greci nell’ imitare gli antichi e lo stil loro: cosa di cui finora forse non si aveva esempio tra’ latini. E qualche precetto è forse proprio nel confine dell’arte vera e giusta, e dell’eccessiva e sofistica. Simmaco pare una traduzionaccia latina di qualche arringa francese. Non vi so dire come mi faccia stomaco vedere la lingua latina in quest’arnese barbaresco, che par proprio una statua del Canova vestita a panni e imparruccata (a Luciano detto di sopra aggiungi, per l’eleganza ricercata, Longino) o meglio, se la lingua va piuttosto paragonata a un sentimento essa, e i pensieri alla figura, par la pelle del leone nemeo sulle spalle... ma non voglio dir di Deianira, la quale credo che fosse bella da vero e non da beffe come queste sfrontate delle opericciuole di Simmaco e de’ suoi pari. Nelle opere presenti di Frontone piuttosto si vede scarsitá che secchezza. Lo stesso M. Aurelio (p. 65) loda Frontone ob cemulaiionis felicitatemi che insomma vuol dire per l’emulazione. Mi par che Longino, Luciano ecc. stieno agli antichi greci, come Senofonte, Tucidide, Erodoto, Platone ecc., come i cinquecentisti ai trecentisti. — Credo certo che la Ep. 12 ad Piunt sia di Frontone ad Aufidio Vittorino genero. i° Non sarebbe probabile che Antonino imperatore si trattenesse a parlare con interesse a M. Aurelio Cesarei d’un fanciullo alieno, 2 0 né che lo chiamasse nostro. 3 0 E naturalissimo nella mia supposizione il passaggio dal periodo precedente a quello curri isto quidem ecc. 4 0 II fine dell’epistola consuona col carattere morale di Frontone espresso nel libro De nepote amisso. 50 Quel Frontone o sia Vittorino sará quello stesso di cui dice (p. 208): quem ipse sinu rneo educo ecc., onde è manifesto che lo teneva con sé anche in assenza di Aufidio. 6° Osservo per mia regola che in questa supposizione non c’è piú bisogno del calcolo sull’etá del fanciullo nel tempo della guerra Cattica ecc. [p. 325 modifica]Insomma, dato che si parli di un Frontone fanciullo, è sempre piú probabile che sia sempre di Frontone piú che d’Antonino: e noto che quasi per complimento dice prima Vittorino poi Frontone. Non giá piú belle, ma piú studiate (che non è tutt’uno il piú studiato e il piú bello, massime nelle lettere familiari). Frontone ha spesso molta efficacia ed evidenza e splendore d’imagini (come p. e. p. 254 lin. io) e robustezza ed energia, per la proprietá delle parole e delle frasi ecc., robustezza ed energia cosi di frasi come d’imagini. È curioso che il Mai abbia fatto le due sue scoperte del Dionigi e Frontone ambedue vaghi di parole e modi rari, onde spessissimo è convenuto al Mai illustrare grammaticamente molti luoghi di Frontone, ancorché non abbiano parole nuove, vale a dire che son rare, o è rara l’ortografia o la costruzione, significato ecc. Però mi pare che Frontone ai latini non dovesse mancar di parere alle volte piú tosto affettato e aspro e salebrosus con tutte queste raritá: p. e. p. 232 lin. 1, in quella frase che era giá antiquata due secoli prima, cioè al tempo di Cicerone. Efficacia di Frontone viene anche dai traslati, come, p. 215, verbapdicularia, p. 246, sententi<r cordaces, p. 254, sermones gibberosos , e cosi spessissimo, né solo di parole ed epiteti ma di frasi e d’intere figure ecc. Frontone messo con Cicerone o coi piú antichi non può stare in veritá come i cinquecentisti ai trecentisti, ma piú tosto si rassomiglia ai settecentisti o a quelli del tempo nostro per lo studio impiegato pel risorgimento della lingua, e cosi pure per lo stile assolutamente ecc. ecc. Lo stesso convien pur dire di Luciano e di Longino in qualche parte, ma non in tutto; che Demostene, Senofonte ecc. era piú vicino ad Erodoto per esempio e al trecentismo che non Cicerone ai suoi antichi (anzi Senofonte è quasi un perfetto trecentista) e i tempi della Grecia forse non corrispondevano come quelli del Lazio; Frontone vivente, al nostro settecento e ottocento. Né la lingua era cosi corrotta ecc. secondo che dice Giordani. Nelle epistole greche si vede un certo stento; massime, mi pare, nella 1.; e anche li ci è uno studio di frasi singolari piuttosto che eleganti o parole ecc. tratto tratto, non sempre. Assento al Mai p. xlviii lin. 18, sino al fine. [p. 326 modifica] Volendo lodare un amico non gli direi: dai versi che m’avete mandati conosco quanto.in cotesto genere ridondante e frugoniano E ho detto «volendo» lodare; non ho detto «dovendo»: ché quando bisogna lodare, per lo piú si finge una certa pazzia e alle volte si loda qualche difetto, col pretesto di qualche insigne autore che ne pati, quasiché gli fosse stato non macchia ma ornamento; come Marziale lodava quel Gauro perché, ubbriacandosi, imitava Catone e, vomitando, rassomigliava Antonio e, straviziando, Apicio. Ma Frontone non lodava qui Cesare perché dovesse, ma bensí perché voleva, essendo entrato a parlare delle sue lettere cosi d’improvviso e senza che la materia in nessun modo lo richiedesse; laonde non è credibile che essendosi messo in barca pensatamente, prima d’adagiarvisi, cominciasse a far getto di masserizia per non affondare. Non par che la pompa si possa accordare con quella semplicitá che è inseparabile dalla secchezza (almeno cosi presa come noi la prendiamo); e pomposo veramente tra gli oratori appena saprei chiamare lo stesso Demostene, se non in qualche luogo. Pomposo veramente è Cicerone; di lui è proprio la grandiloquenza, e quell’esultazione e quel grande e splendido ornato {grandis verborum ornatus, dice Cicerone) e di parole e di pensieri, e quelle ripetizioni di parole che nei greci, fuori di Demostene, difficilmente si troveranno; onde a chi è pratico degli altri greci e non di Demostene, leggendolo, parrá di trovare un non so che di non greco. La secchezza attica consiste in una schiettezza e semplicitá, e in quello che chiamano verecondia, senza gran copia di parole né di pensieri, o se anche ce n’è copia, esposti pianamente, con un procedere disinvolto e spedito, e un avanzarsi seriamente e gravemente e austeramente verso il suo fine, senza grandi ornati, senza gran plauso, senza grande strepito, insomma con quella gran naturalezza tutta propria dei greci delle parlate omeriche ecc., dove anche l’importantissimo non è trattato con troppa veemenza, ma quasi con una certa freddezza. Del resto questa sobrietá d’ornato, fa che lo stile sia piú conciso, ma veramente la secchezza non è lo stesso che la brevitá; e Macrobio mette per la brevitá Sallustio, e Frontone per la secchezza: massime se si prenda per la brevitá di parole: piú tosto ha che fare con una brevitá e sobrietá di pensieri, onde Cicerone esporrebbe certo l’istessa cosa con piú carte, perché anderebbe [p. 327 modifica]dietro a piú ornamenti ecc. — Frontone non è certo turgido, né ridondante di parole o di pensieri, né concettoso oltre il debito, né esageratore né delizioso e illecebroso ecc.; ma queste, benché sieno proprietá della secchezza, non bastano, e sono anche di Cicerone. Luciano partecipa ancora, ma solamente tanto quanto basta per somigliare anche in questo a Frontone, di quel sofistico della sua etá che appartiene all’ imitazione ecc. dei classici e allo studio classico e in particolare degli artifizi rettorici e di quei luoghi comuni ab exemplo , a party a simili, e che so io, che si vedono molto spesso usati, per esempio in molte parlate che egli o mette in bocca ad altri o dice da sé: non parlo delle buffonesche, nelle quali questi artifizi saranno usati per metterli in ridicolo. Altra somiglianza è quel frequente uso di similitudine, o meglio del parlar figurato e metaforico che ad ambedue dá occasione di sfoggiare la loro ricchezza di lingua e la proprietá ed efficacia dei vocaboli ; per es., p. 447, mezzo). Quest’uso è piú artifizioso che non conveniva perché potesse esser frequente nei primi ingenui classici ecc. ecc. Anche Mamerto nello stesso luogo propon Catone per la gravitá, distinguendola cosi dalla pompa. 1. Pompa non è lo stesso che la gravitá. Demostene non è pomposo. — Che cosa intendessero gli antichi per gravitá, cosa vicina alla pompa, ma non la stessa. A voler la pompa, bisogna andare a Cicerone. Descrizione della pompa. 2. Questa è la pompa; ma la secchezza pare che si debba intendere tanto in Macrobio che in Cicerone ecc. quella degli Attici, e questa consiste ecc. Descrizione della secchezza. Or questa non può star colla pompa, ma né anche si accorda con quello che noi vediamo negli scritti di Frontone. — Soavitá piuttosto ecc. Certo non è turgido, non lussureggia ecc. e non è come Plinio; e se la secchezza è l’opposto della pinguedine, certo Frontone non ha questa pinguedine, e sarebbe scoperta la sua secchezza, ma cosi secchi sono Cicerone e Livio e tutti i buoni. 3. Pensando io come accordare insieme Macrobio e Mamerto e piú gli scritti presenti, considerava che lo stile antiquato ecc. — 1: difficoltá di capirlo per noi ecc. — 2: sofisticherie di Frontone. Affettazioni ecc. — 3: Lingua attica. Luciano cinquecentisti ecc. — 4: Dionigi d’Alicarnasso, — Tucidide, asprezza: due scoperte d’autori [p. 328 modifica]di parole rare. — 5: Ristoratore della lingua latina, del buon gusto, paragonabile agli ottocentisti ecc. 4. La brevitá è cosa diversa e Macrobio la distingue ; e Frontone non è propriamente breve, se non nei Principi di Storia ecc. La brevitá no, ma forse quella che ha molto che fare con la brevitá cioè la... 5. Proprietá (la proprietá si avverta non è qualitá intrinseca ma estrinseca. Si osservi che la brevitá di Sallustio s’è detta essere non solo estrinseca ma intrinseca). Efficacia, traslati, gagliardia ecc. di Frontone potrebbero aver che far con questa secchezza. Paragone con Luciano, con Cicerone nelle epistole. Certo pare che la secchezza fosse in qualche modo propria di Frontone, poiché egli nella Lett. 1, Lib. 1. a M. Aurelio oppone l’attico al tulliano che è appunto l’opposto suo e l’attico l’ascrive a sé, e chiama «rcmissioretn» lo stile tulliano, il che assento al Mai che sia un quid simile al copioso. E questo stesso stile pare che indichi M. Aurelio nell’Ep. io, Lib. 1, pag. 64 fine 65 init. Ma forse Frontone avrá accomodato questo stile alle orecchie latine avvezze a Cicerone ecc., e questa secchezza non sará stata cosi stretta; il che si deduce cosi da Mamerto come dagli scritti presenti: e l’avrá accomodata allo stile latino, ecc. E questo sia detto dello stile di Frontone, preso argomento (ovvero) non motivo ma occasione dal passo di Mamerto, che del resto non avrebbe meritate tante parole; tutto insieme insomma, cioè lingua affettata, asprezza, proprietá ecc. potevan fare ragionevolmente chiamare il suo stile secco: (se ben è secchezza piú di parole che di altro) quantunque la secchezza degli attici sia lontana dagli scritti presenti. E forse era nelle orazioni, che non ne abbiamo nessuna. E gli scritti presenti non si adattano male (e non indicano cattiva disposizione) alla pompa. Si paragoni a Cicerone, preso argomento dal luogo dell’epistola a Marco, dicendo che quanto allo stile epistolare Frontone è piú studiato ecc. (Epistole greche). Copia, ricchezza, splendore, ubertá, ornato, grandiloquenza, magnificenza, sonito, clamore, plauso, nobiltá, maestá, esultazione, baldanza, baldanzeggiare, festeggiare, giubilare, suono, romore, sontuositá, sfoggio, solennitá. Sobrietá, schiettezza, semplicitá, piano, senza ornamenti, disinvoltura, spedito, austero, tenue, verecondo, ingenuitá, naturalezza, sprezzatura, candidezza, rimesso, posato, riposato, posatezza, precisione, asciuttezza, parsimonia. [p. 329 modifica]Inguantato, non insito fuor di luogo, sconvenienza, italiani, scienze, trecentisti antichi ecc. piú sensibile assai l’affettazione di parole nelle prose: in versi, appena per la preparazione. Toscani, accompagnamento di parole note. Complesse, la stessa lingua ecc. suono della frase ecc. italiano. Se riprende in Cicerone la copia, che cosa loda in lui, che pur tanto loda, chiamandolo «summum supremumque os», ecc. Maggiore ricchezza di lingua in chi l’ha studiata che in chi l’ha naturale. Luciano, Isocrate, onde in molti scrittori greci attici si trova frequentissimo uso di certe parole in ciascuno che pare una certa povertá. Dionigi alicarnasseo ei pèv, vúv Ss. Moreto. Trasferire dalla sentina, spurgatoio, mondezzaio. Ci figuriamo questo sapore, ma non lo sentiamo. Dal discorso di Luciano, atticismo ecc. si passi a dire per la prima volta che parimente Frontone dèe essere affettato. Asprezza. Familiaritá. Bambini. Figurarsi sapere non sentire. Tutto par nobile, tutto è strano, né anche dotti ci adattiamo sin dal cominciare a leggere a sentir cose nòve. Forse cerchiamo nel Dizionario ecc.? Proverbi. Cicerone, Terenzio, Lasca. Immaginiamo, non sentiamo. Anche la lingua francese, chi non la parla, né l’ha parlata che di rado, non si sente familiare, benché si sappia. — Plutarco. Da questo all’affettazione o fluiditá. Luciano, Atticismo, Cinquecentisti. Probabile che Frontone sia affettato. Parola antiquata al tempo di Cicerone. Tuttavia con ragione cercava l’antichitá, ma forse non lo facea perfettamente. Sofisticherie: altra somiglianza con gli ottocentisti. Lettere greche. Frontone non lussureggia soverchiamente; ma certo il carattere delle sue opere presenti non si può di gran lunga dire che sia quella sobrietá e precisione e semplicitá stretta degli attici, e astenersi per lo piú dagli ornamenti ecc.; e insomma quella robusta secchezza e schiettezza attica; anzi vi si vede piuttosto della grassezza e degli ornamenti sufficienti, e copia cosi di cose o di pensieri come di parole, e dolcezza, e mollezza e pinguedine ec. Dum e nini italicam linguam quaqua possimi excolo, penitiora eius etc. abditissima etc. latinae quoque linguae penitus investigandae tcmpus et vires et animus deficiunt. Accipe haec igitur uti sunt iitelegantia, in quibus si utililatem non desideres, elegantiam quaeras facile patiar. Verum a perficiendo opus tum rei diurnitas et fastidiavi tuoi prorsus immutata studiorum ratio, prceterea multa vitae me ce incomvwda me ut hactenus deterruerunt, ita semper ut puto deterrebunt. [p. 330 modifica]Sed hcec ille obiter et festinanter, facile e min indisset vir doctissimus de Frontonis estate frustra qua eri, quitm Epistolae eetas perspecta sit quatti coniecturce mete non repugnare, itntno cum ea niirifice congruere modo ostendi. Neque enirn hic vellicare Tullium potest quin M. Caesarem simili vellicet quem in bis remissuni et Tulliutn pollere ait. Sed neque dispicio quid nani hic Pronto in Ciceronem rcprehendere putari possit. Si enim Tulliutn remissioris stili in scribendis epistolis exemplum dicit, stillini utique optimum Tullio tribuit, nanique epistola, ut fert natura honiinum familiaritá inter se conloquentium, facili humilique stilo imprimis gaudere manifestimi est. (V. p. 141, lin. 16 fin.). Se riprende Cicerone come poco lavorato nelle Epistole , Frontone stesso quanto alle parole e al culto della frase e alla proprietá ed eleganza ecc. ecc. pare in veritá piú studiato; ma quanto alle cose e ai pensieri e al nucleo dell’eloquenza e al corpo ecc., anche Cicerone nelle lettere è coltissimo e lavoratissimo, e agli artifizi dell’eloquenza e metter frizzi e astuzie... Da certe minuzie mi par di raccogliere per congettura che l’Arione sia traduzione dal greco; dico da certe parole o frasi o giri, che mi paiono scoprire la traduzione ed esser derivate dal greco. Non sarebbe facile andar dietro a tutte, essendo cose che poi per la loro piccolezza difficilmente le potrei dare ad intendere, ma per esempio, quel «secundum questum» la ripetizione (p. 376, 1. 6 di p. 374, 1. io) e quel «composita» (p. 376 1. ult.) che non pare al tutto latino o almeno è raro assai; e nel Forcellini non ci sono esempi che facciano veramente al caso, e pare dal greco èaxe!>ao|iévos o xaxsavce’jaopévog. Ma si cerchi nello Scapula il vero significato di questo verbo, e se è composto forse di otiaxeui^eiv ossia o’jvsoxe’jaojrévoc. Frontone è notabile che p. 400 e 408 (dove v. anche le emendazioni) per nominare l’imperatore in greco, che altri dicevano a’jxoxpitiop, non volendo chiamarlo re, ch’era piccola cosa alle orecchie dei romani trionfatori e calpestatori di tanti re, e per proprio abito e genio disprezzatori e avvilitori della dignitá regia, lo chiama il gran re, come appunto chiamavano i greci il re di Persia prima di Alessandro. Povera Roma cosi assomigliata all’impero persiano. Il Peyron (p. 11) scioccamente rende «di un gran re» per «del gran re». Gran re, detto all’imperatore de’romani, si vede anche nel Misopogone di Giuliano (p. 339, d.).