Pensieri, Moralisti greci/Appendice/III Abbozzi e frammenti/2. Novella - Senofonte e Niccolò Machiavello

2. Novella - Senofonte e Niccolò Machiavello

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2. Novella - Senofonte e Niccolò Machiavello
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2.

NOVELLA

SENOFONTE E NICCOLÒ MACHIAVELLO.

(1822)

Non si legge negli antichi che Plutone e Proserpina avessero mai figli. Ultimamente si sa che ne è nato uno, del quale si è fatto gran chiasso per tutta casa del diavolo. E siccome tutti i demoni chi piú chi meno s’intendono dell’arte d’indovinare, si sparse voce che quel diavoletto, essendo figlio di re, e perciò dovendo regnare, e non potendo nell’ inferno, perché il padre non avrebbe lasciato mai vóto il trono, avrebbe regnato in terra sotto figura umana, non si sa dove né quando, e sarebbe stato gran principe, e avrebbe portato alla sua corte molti altri diavoli sotto la stessa forma. Si disse ancora che altri figli di Plutone in diversi tempi avessero regnato nello stesso modo, creduti uomini, ecc., e cosi vadano per le storie ecc. Insomma il fatto sta che volendo dargli un istitutore, concorsero Senofonte e Machiavello, tutti due maestri e scrittori in vita dell’arte di regnare. Di Senofonte potrebbe far maraviglia che, essendo stato sempre cosi modesto ecc. allora ecc. Ma tutti gli uomini cadono in qualche debolezza ecc., o fu per puntiglio ecc. o finalmente conservando grande amore alla sua patria, e vedendo che i principi di razza umana, benché potessero facilissimamente, contuttociò non facevano nulla per lei, e piuttosto pensavano a tutt’altre conquiste dannose, perché volendo intraprendere, hanno sempre grandissimo riguardo che l’impresa non giovi altrui ma faccia danno, sperò che il diavolo potesse far quello che non era da sperare dagli uomini. Concorso. Descrizione burlesca e immaginosa del trono, corte, assistenti ecc. di Plutone, del suo figliuolino, colle corna nascenti ecc. Orazione di Senofonte. Orazione di Machiavello. Sebbene parecchi principi hanno proibita la mia opera, tutti però l’hanno seguita, e non s’è mai trovato (il principe di Senofonte) un principe come quello di Senofonte, [p. 332 modifica]ma tutti sono stati e sono come il mio. Prevale Machiavello. Qui la novella finirebbe; ma dirò, come per giunta, che Baldassar Castiglione fu eletto maestro de’ paggi del diavoletto. Questo può parer meraviglioso, ma si vuole che il Conte, a forza di considerar meglio le cose di questo mondo, e informarsi dai morti che venivano discendendo all’inferno, circa il carattere presente delle cose, degli uomini, degli avvenimenti, delle corti, de’ negozi umani ecc. deponesse affatto l’idea ch’ebbe in vita del perfetto cortigiano. Anzi si crede che avesse pubblicato dalla stamperia reale dell’inferno, in carta fatta con peli di diavolo, e in caratteri impressi col nero di carbone ecc. invece d’inchiostro, una nuova edizione del Cortigiano corretta e riformata appresso a poco nel modo che l’Alfieri corresse il panegirico di Plinio a Traiano. Sicché fu scelto maestro de’ paggi alla corte del principino. E siccome queste sono notizie recentissime, arrivate dall’inferno per mezzo (di quello che immaginerò a suo tempo), cosi staremo a vedere quello che succederá, e se nel mondo ci sará niente di nuovo, che non credo, ancorché s’avverasse quello che i diavoli indovini hanno pronosticato. Dirá pure Machiavello. E quel Ciro stesso ch’egli prese e descrisse come modello, tutti sanno che fu tutt’altro, e gran birbante, e tu, Plutone, lo sai meglio degli altri, che come tale lo hai ricompensato, e fatto tuo consigliere segreto ò).

per la novella

senofonte e machiavello

Dirá Machiavello. Moltissimi e prima e dopo di me, antichi, come sei tu, Senofonte, e moderni, come sono io, hanno o dato precetti espressamente, cosi di governare e di viver sul trono o nelle corti ecc., come di viver nelle societá e di governar sé stesso rispettivamente agli altri uomini; ovvero hanno trattato in mille maniere di questa materia, senza prender l’assunto di ridurle ad arte (come abbiam fatto tu ed io) : e ciò ne’ loro libri di morale, (i) In un foglietto staccato è questa nota dell’autore: «Alla novella Senofonte e Machiavello: si potrá anche dire che il diavoletto essendo figlio di una donna, era una specie di Ermafrodito, mezz’uomo e mezzo diavolo, e quindi si credeva che non dovesse regnare nell’inferno, ma piuttosto su terra». [p. 333 modifica]di politica, d’eloquenza, di poesia, di romanzi ecc. Da per tutto si discorre principalmente d’ammaestrar gli uomini a saper vivere, ché qui alla fine consiste l’utilitá delle lettere, e della filosofia, e d’ogni sapere e disciplina. Ma tutti costoro, o certo quasi tutti, son caduti in uno di questi due errori. Il primo, e principale e piú comune, si è d’aver voluto ammaestrare a vivere (sia sul trono o privatamente) e governar sé stesso o gli altri, secondo i precetti di quella che si chiama morale. Domando io: è vero o non è vero che la virtú è il patrimonio dei coglioni ; che il giovane bennato, e beneducato che sia, pur ch’abbia un tantino d’ingegno, è obbligato poco dopo entrato nel mondo, (se vuol far qualche cosa, e vivere) a rinunziare quella virtú ch’avea pur sempre amata; che questo accade sempre e inevitabilissimamente: che anche gli uomini piú da bene, sinceramente parlando, si vergognerebbero se non si credessero capaci d’altri pensieri e d’altra regola d’azioni se non di quella che s’erano proposta in gioventú, e ch’è pur quella sola che s’impara ordinariamente dai libri? È vero o non è vero che per vivere, per non esser la vittima di tutti, e calpestato e deriso e soverchiato sempre da tutti, (anche col piú grande ingegno e valore e coraggio e coltura, e capacitá naturale o acquisita di superar gli altri) è assolutissimamente necessario d’esser birbo; che il giovane finché non ha imparato ad esserlo, si trova sempre malmenato; e non cava un ragno da un buco in eterno; che l’arte di regolarsi nella societá o sul trono, quella che s’usa, quella che è necessario d’usare, quella senza cui non si può né vivere né avanzarsi né far nulla e neanche difendersi dagli altri, quella che usano realmente i medesimi scrittori di morale, è né piú né meno quella ch’ho insegnata io ? Perché dunque essendo questa (e non altra) l’arte del saper vivere, o del saper regnare (ch’è tutt’uno, poiché il fine dell’uomo in societá è di regnare sugli altri in qualunque modo, e il piú scaltro regna sempre), perché, dico io, se n’ha da insegnare, e tutti i libri n’insegnano un’altra, e questa direttamente contraria alla vera? e tale ch’ell’è appunto il modo certo di non sapere e non potere né vivere né regnare? e tale che nessuno de’ piú infiammati nello scriverla, vorrebb’esser quello che l’adoperasse, e nemmeno esser creduto un di quelli che l’adoprino? (cioè un minchione). Torno a dire: qual è il fine dei libri, se non di ammaestrare a vivere? Ora perché s’avrá da dire al giovane, o all’uomo, o al principe, * fate cosi ’, ed essere fisicamente certo [p. 334 modifica]che se fará cosi, sbaglierá, non saprá vivere, e non potrá né conseguirá mai nulla? Perché dovrá l’uomo leggere i libri per istruirsi e per imparare, e nel tempo stesso, conoscere ad essere disposto di dover fare tutto il contrario precisamente di quel ch’essi libri gli prescrivono? Fatto sta che non per altro il mio libro è prevaluto nell’opinione degli uomini al tuo, a quello del Fénelon, e a tutti i libri politici, se non perch’io dico nudamente quelle cose che son vere, che si fanno, che si faranno sempre, e che vanno fatte; e gli altri dicono tutto l’opposto, benché sappiano e vedano anch’essi niente meno di me, che le cose stanno come le dico io. Sicché i libri loro sono come quelli de’ sofisti: tante esercitazioni scolastiche, inutili alla vita, e al fine che si propongono cioè d’istruirla; perché composti di precetti o di sentenze scientemente e volutamente false, non praticate né potute praticare da chi le scrive, dannosissime a chi le praticasse, ma realmente non praticate neppure da chi le legge, s’egli non è un giovane inesperto, o un dappoco. Laddove il mio libro è e sará sempre il codice del vero ed unico e infallibile e universal modo di vivere, e perciò sempre celebratissimo, piú per l’ardire, o piuttosto la coerenza da me usata nello scriverlo, che perché ci volesse molto a pensare e dir quello che tutti sanno, tutti vedono, e tutti fanno. yuel che mi resta a desiderare pel ben degli uomini, e la vera utilitá specialmente de’ giovani, si è che quello ch’io ho insegnato ai principi s’applichi alla vita privata, aggiungendo quello che bisognasse. E cosi s’avesse finalmente un codice del saper vivere, una regola vera «della condotta da tenersi in societá», ben diversa da quella dettata ultimamente dal Knigge, e tanto celebrata dai tedeschi, nessuno de’ quali vive né visse mai a quel modo. L’altro errore in cui cadono gli scrittori, si è che se anche talvolta hanno qualche precetto o sentimento vero, lo dicono col linguaggio dell’arte falsa, cioè della morale. Che questo sia un puro linguaggio di convenzione, oramai sarebbe peggio che cieco chi non lo vedesse. Per es. «virtú» significa •< ipocrisia», ovvero «dappocaggine», — «ragione» ; «diritto» e simili significano «forza»; «bene* «felicitá» ecc. «dei sudditi» significa «volontá», «capriccio», «vantaggio» ecc. «del sovrano», Cose tanto antiche e note che fa vergogna e noia a ricordarle. Ora io non so perché, volendo esser utile piú che si possa, ed avendo il linguaggio chiaro ch’ho usato io, si voglia piuttosto [p. 335 modifica]adoperare quest’altro oscuro che confonde le idee, e spesso inganna, o se non altro, imbroglia la testa di chi legge. Il valore di questa nomenclatura a cui si riduce tutta quanta la morale effettiva, è giá tanto conosciuto, che nessuna utilitá ne viene dall’usarla. Perché non s’hanno da chiamare le cose coi loro nomi? Perché gl’ insegnamenti veri ecc. s’hanno da tradurre nella lingua del falso ? le parole moderne nelle parole antiche? Perché l’arte della scelleraggine (cioè del saper vivere) s’ha da trattare e scrivere col vocabolario della morale? Perché tutte le arti e scienze hanno da avere i loro termini propri, e piú precisi che sia possibile, fuorché la piú importante di tutte, ch’è quella del vivere? e questa ha da prendere in prestito la sua nomenclatura dall’arte sua contraria, cioè della morale, cioè dall’arte di non vivere? A me pare che fosse naturale il non vergognarsi e il non fare difficoltá veruna di dire quello che niuno si vergogna di fare, anzi che niuno confessa di non saper fare, e tutti si dolgono se realmente non lo sanno fare o non lo fanno. E mi parve che fosse tempo di dir le cose del tempo co’ nomi loro : e d’esser chiaro nello scrivere, come tutti oramai erano e molto piú sono chiari nel fare: com’era finalmente chiarissimo e perfettamente scoperto dagli uomini quel ch’è necessario di fare. Sappi eh’ io per natura, e da giovane piú di molti altri, e poi anche sempre nell’ultimo fondo dell’anima mia, fui virtuoso ed amai il bello, il grande, e l’onesto, prima sommamente, e poi, se non altro, grandemente. Né da giovane ricusai, anzi cercai l’occasione di mettere in pratica questi miei sentimenti, come ti mostrano le azioni da me fatte contro le tirannide in prò della patria. (V. i miei pensieri p. 2473). Ma come uomo d’ingegno, non tardai a far profitto dell’esperienza, ed avendo conosciuto la vera natura della societá e de’ tempi miei (che saranno stati diversi dai vostri), non feci come quei stolti che pretendono colle opere e coi detti loro di rinnovare il mondo, che fu sempre impossibile, ma quel ch’era possibile, rinnovai me stesso. E quanto maggiore era stato l’amor mio per la virtú, e quindi quanto maggiori le persecuzioni, i danni e le sventure ch’io ne dovetti soffrire, tanto piú salda e fredda ed eterna fu la mia apostasia. E tanto piú eroicamente mi risolvetti di far guerra agli uomini, senza né tregua né quartiere (dove fossero vinti), quanto meglio per esperienza m’accorsi ch’essi non l’avrebbero dato a me, s’io fossi durato nell’istituto di prima. Poi volgendomi a scrivere e filosofare, non diedi precetti di morale, [p. 336 modifica]ch’era giá irreparabilmente abolita e distrutta quanto al fatto, sapendo bene (come ho detto) che il mondo non si può rinnovare ; ma da vero filosofo insegnai quella regola di governare e di vivere ch’era sottentrata alla morale per sempre, che s’usava realmente, e che realmente e unicamente poteva giovare e giovava a chi l’avesse imparata. E in questo solo mancai al mio proposito di nuocere e di tradire. Perocché facendo professione di scrittore, (e quindi di maestro de’ lettori e della vita), non ingannai gli uomini considerati come miei discepoli, e promettendo loro di ammaestrarli, non li feci piú rozzi e stolti di prima, non insegnai loro cose che poi dovessero disimparare: e in somma professando come scrittore didascalico, di mirare all’utilitá de’ lettori, non diedi loro precetti dannosi o falsi, ma spiegai loro distintamente e chiaramente l’arte vera ed utile; istituendo non quanto al fatto, ma quanto all’osservazione de’fatti, eh’è proprio debito del filosofo, e quanto alle dottrine che ne derivano, una nuova scuola o filosofia da sostituire alla tua socratica, sua contraria, e da durare e giovare (per quel ch’io mi pensi) assai piú di lei, e d’ogni altra, e forse mentre gli uomini saranno uomini, cioè diavoli in carne. E dove gli altri filosofi, senza odiar gli uomini quanto me, cercano pure di nuocer loro effettivamente co’ loro precetti, io effettivamente giovai, giovo, e gioverò sempre a chiunque voglia e sappia praticare i miei. Cosi che il misantropo ch’io era, feci un’opera piú utile agli uomini (chi voglia ben considerare) di quante mai n’abbia prodotte la piú squisita filantropia, o qualunque altra qualitá umana, come io mi rimetto all’esperienza di chiunque saprá mettere, o avrá mai saputo mettere in opera l’istruzione ricevuta dal mio libro. E io non poteva far cosa piú contraria al mio istituto di quella ch’io feci: come non avrei potuto far cosa piú conforme al medesimo, che scrivendo precetti sull’andare del tuo libro che passi per filantropo. Tanto è vero quello ch’io ti dissi poco innanzi, che, non ostante il mio rinnegamento degli antichi principi umani e virtuosi, fui costretto di conservare perpetuamente una non so se affezione o inclinazione e simpatia interna verso loro. (13 giugno 1822).