Parte prima del Re Enrico IV/Atto quinto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
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ATTO QUINTO
SCENA I.
L’accampamento del re, vicino a Shrewsbury.
Entrano il re Enrico, il principe Enrico, il principe Giovanni di Lancastro, sir Gualtiero Blunt e sir Giovanni Falstaff.
Enr. Come s’innalza rosso e sanguinoso il sole dalle foreste che coronano quelle montagne! Il giorno impallidisce all’aspetto di quell’astro minaccioso.
P. Enr. Il suo cruccio si annunzia di già colla voce dei venti meridionali: il sordo muggito ch’essi mandano fra le foglie predice un dì di sciagure e di tempeste.
Enr. Lasciamo che gli elementi infieriscano a loro posta: non v’è giorno sì orribile che bello non somigli a chi vince (squillo di trombe; entrano Worcester e Vernon) Ebbene, milord Worcester? Noi non dovremmo incontrarci qui insieme per una tal causa. Voi avete delusa la nostra aspettativa, e ci avete costretti, a deporre le lievi vesti della pace per addolorare le nostre membra caduche e livide col ferro inflessibile. Questo non è bene, milord. Che potete risponderci? Volete voi sciogliere il nodo di una guerra aborrita da tutti, e rientrare in quella sfera d’obbedienza, in cui brillavate di splendore sì puro e naturale? Volete cessare di somigliare a una meteora esalata dalla terra, fenomeno di terrore, e presagio di calamità generale pei secoli avvenire?
Worc. Degnatevi ascoltarmi, mio sovrano. — Per ciò che si riferisce a me, sarei certo lieto di passare in pace gli ultimi giorni della mia vita, perocchè vi giuro ch’io non ho cercato il giorno di questa sinistra separazione.
Enr. Voi non l’avete cercato? Come è dunque venuto?
Fal. La ribellione stava sulla sua via, ed ecco come ei l’ha trovata.
P. Enr. Taci, civetta, taci.
Worc. È piaciuto a Vostra Maestà di togliere da me e da tutta la mia casa gli sguardi del vostro favore, quantunque, se ben rammentate, fossimo noi i primi e i più cari fra i vostri amici. Fu per voi ch’io ruppi il bastone del mio comando sotto il regno di Riccardo, e che vi corsi incontro senza fermarmi nè dì nè notte, impaziente di raggiungervi e di baciarvi la mano, in un tempo in cui, a giudicarne dalla vostra condizione e dall’opinion pubblica, voi non eravate nè potente, nè fortunato com’io. Io fui che, insieme con mio fratello e suo figlio, vi ricondussi in patria, affrontando tutti i pericoli. Voi ci giuraste allora che nulla meditavate contro lo Stato, che rivendicar non volevate che i vostri diritti, e sulla fede di tal giuramento ci consacrammo al vostro servigio. Ma in breve la fortuna versò senza misura i suoi favori sul vostro capo, e tutte le grandezze si accumularono su di voi, o meco il nostro soccorso, o a motivo della lontananza del re e della sua inconsiderata giovinezza, o per gli oltraggi che sembravate aver patiti, o forse anche pei venti contrarli che ritennero si a lungo Riccardo nelle sue sciagurate guerre d’Irlanda, onde tutta l’Inghilterra lo reputava estinto. — Allora approfittando delle vostre fortune, vi faceste pregare per prendere lo scettro dell’autorità sovrana, obliando così il giuramento di Doncaster. Innalzato mercè il nostro zelo, voi ne trattaste come l’uccello ingrato che distrugge il nido e i figli di quegli che lo allevò. Alimentato coi nostri benefizii, siete divenuto un colosso di tal grandezza che il nostro amore medesimo non osava più a voi mostrarsi per tema d’esserne divorato. Per tutelare la nostra salvezza, noi siamo stati costretti a fuggire rapidamente da voi, sollevando l’esercito che comandiamo: talchè se ne trovate qui armati come nemici, siete voi che avete fabbricate le armi che portiamo con ingiusti procedimenti, con una condotta dubbia e minacciosa, e colla violazione della fede e di tutti i sacramenti che usaste in principio della vostra impresa.
Enr. Queste cose infatti avete scritte, e gridate le avete nelle piazze pubbliche, nei tempii, onde adornare il mantello della rivolta con lucidi colori, proprii a sedurre spiriti inquieti e volubili, che col fremito della gioia attendono sempre alle innovazioni e ai rivolgimenti degli Stati. Non mai ribellione mancò di siffatti prestigi per attirarsi le ciurme faziose e i miserabili avidi di ricchezze e di anarchia.
P. Enr. Un gran numero di cristiani pagherà caro lo scontro dei nostri due eserciti, se mai essi vengono a battaglia. Dite a vostro nipote che il principe di Galles fa eco coll’universo al valore di Enrico Percy: e dichiaro che non credo siavi al mondo gentiluomo più generoso, più intrepido e prode. Nondimeno, dinanzi alla maestà di mio padre, son ben lieto di poter aggiungere che se egli vuole risparmiare molto sangue all’uno e l’altro partito, decideremo fra di noi due la contesa in tenzone parziale.
Enr. E noi, principe di Galles, ti permetteremo di correre tale ventura, in onta dei mille motivi che vi si opporrebbero. — Degno Worcester, noi amiamo il nostro popolo, amiamo quelli ancora che deviarono, seguendo le parti di vostro nipote, e tutti ridiverranno miei amici, com’io di loro. Ite ad offrir grazia a mio cugino, e ritornate colla sua risposta. S’egli nondimeno persiste in non cedere, il castigo e la vendetta compiranno severamente il loro ufficio. Ite da lui: noi non vogliamo ora alcuna risposta. Facciamo offerte benigne: ponderatele con attenzione.
(escono Worcester e Vernon)
P. Enr. Non saranno accettate sull’anima mia! Douglas e Hotspur uniti affronterebbero il mondo intero.
Enr. Ebbene, ogni duce vada al suo posto: perocchè, dopo la loro risposta noi gli attaccheremo. Così Dio ne secondi, come la nostra causa è giusta. (esce con Blunt e il principe Giovanni)
Fal. Enrico, se durante la battaglia mi vedi a terra e mi cuopri generosamente col tuo corpo, t’avrò in conto di schietto amico.
P. Enr. Non v’ha che un colosso che ti potesse dare tal prova di amistà. Recita le tue preci, addio.
Fal. Vorrei fosse tempo d’andar a letto, Enrico, e le cose procederebbero meglio.
P. Enr. Perchè? non devi tu forse a Dio la tua morte? (esce)
Fal. Ancora non la debbo, e sarei ben tristo a pagare il Cielo prima della scadenza. Perchè andrei io incontro a un creditore che non mi cerca? Ma è l’onore che mi stimola e mi dice di muover oltre. Però se l’onore mi facesse morire? Che diverrei io allora? L’onore può egli rimettermi una gamba o un braccio? No. Toglier il dolore di una ferita? No. L’onore non sa dunque nulla di chirurgia? Nulla. Che cosa è dunque l’onore? Una parola. E come si forma tal parola? Con un po’ d’aria. Bel ragionamento in fede. Che significa esso? Quegli che morì mercoledì sent’egli l’onore? No. L’ode egli? No. È esso adunque cosa insensibile? Sì, ai morti. Ma vivrà almeno coi vivi? No. Perchè? L’invidia nol patirà mai: dunque io non so che farne. L’onore è un vano stemma mortuario, e così termina il mio catechismo. (esce)
SCENA II.
Il campo dei ribelli.
Entrano Worcester e Vernon.
Worc. Oh, no, sir Riccardo, non è bene che mio nipote sappia le offerte generose del re.
Vern. Meglio sarebbe ch’ei ne fosse istrutto.
Worc. Se le sa, siamo tutti perduti. È impossibile che il re attenga la sua parola di amarci: noi gli rimarremo sempre sospetti, e in breve troverà occasione per punirci di questa rivolta. Finchè vivremo, il dubbio terrà cent’occhi aperti sopra di noi: non è da saggio il fidarsi al tradimento che, simile alla volpe, per quanto carezzata e blandita vibra improvviso il suo colpo. Qual che siasi il nostro contegno, sia serena o fosca la nostra fronte, disegni tristi verran sempre letti nei nostri sguardi; e come al bue nella stalla, più saranno i rispetti che ci si prodigheranno, e più vicini saremo alla nostra morte. Di mio nipote si potrà forse obliar il fallo; che egli ha in suo favore la scusa della giovinezza, dell’ardor del sangue, e un nome illustre; onde sarà riputato forse soltanto un garzone avventato e di spiriti troppo ardenti. Ma le colpe sue passeranno sopra di me e sopra suo padre. Siam noi che educato lo abbiamo: se egli è malvagio, a noi lo debbe; e sorgente del male toccherà a noi di scontarlo. Perciò, caro cugino, non sappia Enrico in nessun modo le offerte del re.
Vern. Dategli quella risposta che vorrete, io vi seconderò. Eccolo. (Entrano Hotspur e Douglas; Uffiziali e soldati indietro)
Hot. Mio zio è tornato? Rimandate milord di Westmoreland. — Zio, quali novelle?
Worc. Il re combatterà contro di voi fra poco.
Doug. Sfidatelo valendovi del lord, che se ne va.
Hot. Douglas, Andate e ditegli di recar l’ambasciata.
Doug. Di buon cuore, signore. (esce)
Worc. Il re non sembra voler far grazia.
Hot. L’avreste forse chiesta? Dio nol permetta.
Worc. Gli ho parlato con dolcezza de’ suoi falli; dei giuramenti rotti. Ecco com’ei risponde: giura che è spergiuro; ci chiama ribelli, traditori; e minaccia di punirci col ferro delle sue armi.
(rientra Douglas)
Doug. All’armi, all’armi, gentiluomini; all’armi! Io mandai un’audace sfida ad Enrico. Westmoreland, l’ostaggio che ci fu dato la reca ed ei non può tardare a venirne sopra.
Worc. Il principe di Galles si è fatto dinanzi al re, e vi ha sfidato, mio nipote, a singolar combattimento.
Hot. Oh, così da noi dipendesse la definizione di questa contesa! Così non vi fossero colà altri combattimenti che io ed Enrico! — Ditemi, ditemi: con qual tuono m’indrizzò egli la sua sfida? mostrando forse disprezzo di me?
Vern. No, sull’anima mia! Non mai in vita intesi alcuno sfidare con più modestia; si sarebbe detto fosse un fratello, che provocava altro fratello. Ei parlò di voi con tutto l’onore che ad uomo può rendersi; esaltovvi da principe egregio e generoso: fe’ menzione de’ vostri gesti come lo farà l’istoria, innalzandovi sempre al disopra delle sue lodi, lagnandosi dell’impotenza delle sue parole; e discorse di sè con nobile semplicità e rimproverandosi i suoi trascorsi giovanili con impeto sincero e glorioso. Qui pose termine al suo dire; ma io annuncio al mondo che s’ei soppravvive ai pericoli di questo dì, l’Inghilterra non possedè mai speranze più belle di quelle che si avvolgono fra le ombre della sua pazza giovinezza.
Hot. Cugino, credo veramente che vi siate invaghito delle sue follìe: non mai intesi parlare di principe alcuno che con tanta stravaganza fosse lasciato in libertà. Ma sia egli quello che vuole, certo è che prima di notte io lo stringerò così forte fra le braccia di un guerriero, che converrà ch’ei pieghi e soccomba sotto le mie carezze. — All’armi, all’armi, affrettiamoci! — Compagni, soldati, amici, vedete da voi stessi quello che oggi vi tocca di fare meglio che esprimere non vel potessero le mie esortazioni ei miei poveri detti. (entra un messaggere)
Mess. Milord, ecco lettere per voi.
Hot. Ora non ho tempo di leggerle. — Oh, miei amici, la vita è ben breve, ma questo breve corso, passato senza onore, sarebbe insopportabilmente lungo. Se noi sopravviviamo a questo giorno, vivremo per camminare sulla testa dei re; se moriamo, bello è il morire, allorchè vi sono principi che muoiono con noi! Rispetto alle nostre coscienze, le armi sono legittime, allorchè la causa che le fe’ prendere è giusta. (arriva un altro messaggere)
Mess. Milord, preparatevi; il re vien oltre a gran passi.
Hot. Lo ringrazio d’interrompermi, perocchè io so poco parlare. — Una parola sola, amici; faccia ognuno quel più che può. Io qui snudo la mia spada, di cui mi propongo tingere il ferro nel sangue più illustre che potrò incontrar fra le venture di questo giorno periglioso. Ora, speranza e Percy! Marciamo. Fate risuonare tutti gl’istrumenti da guerra, e a tal concento abbracciamoci tutti; perocchè avventurerei il cielo contro la terra, che vi sarà qualcuno di noi che non potrà più dare tal segno di amicizia.
(le trombe squillano: tutti si abbracciano ed escono)
SCENA III.
Pianura vicino a Shrewsbury.
Escursioni e combattimenti. Allarme ripetuto: poi entrano
da diverse parti Douglas e Blunt.
Blunt. Qual nome hai tu, tu che interrompi così i miei passi nella battaglia? Qual onore speri dalla mia morte?
Doug. Sappi che il mio nome è Douglas, e tu mi vedi dietro a te incessantemente, perchè alcuni mi dissero che sei il re.
Blunt. Il vero ti fu detto.
Doug. Lord Stafford pagò cara oggi la tua somiglianza. Questa spada troncò i suoi giorni invece dei tuoi, Enrico. Ma essa ti riserba il medesimo fato, se non ti arrendi prigioniero.
Blunt. Non son del numero di coloro che si arrendono, superbo Scozzese; e tu troverai un re che vendicherà la morte di Stafford. (combattono, e Blunt e ucciso; entra Hotspur)
Hot. Oh, Douglas, se tu avessi così combattuto a Holmedon, non avrei mai trionfato d’alcuno Scozzese.
Doug. Tutto è finito, la vittoria è nostra. Qui giace il re senza vita.
Hot. Dove?
Doug. Qui.
Hot. Questi, Douglas? No, io lo conosco bene. Fu un prode cavaliere chiamato Blunt, somiglievole in tutto al re.
Doug. Segua l’anima sua il suo volo insensato. Troppo caro ei pagò un titolo che non gli apparteneva. Perchè mi dicesti tu che eri un re?
Hot. Sua Maestà ha molti guerrieri che vestono come lui.
Doug. Ebbene, per la mia spada ucciderò tutti i suoi abiti: farò sperpero del suo guardaroba, fino a che mi abbatta nella sua persona.
Hot. Su, partiamo; i nostri soldati si mostrano dispostissimi per la battaglia. (escono; altro allarme. Entra Falstaff)
Fal. Quantunque in Londra mi sapessi sottrar al pagamento del mio scotto, temo di non potermene esimere qui dove è mestiere sborsar la testa. — (vede il cadavere) Adagio! Chi sei tu? Sir Gualtiero Blunt! Bene sta; verrai onorato! Qual eccesso di pazzia! — Io son caldo come il piombo liquefatto e del pari pesante. Voglia il cielo tener lontano da me il piombo! Di maggior peso non ho bisogno che di quello delle mie viscere. Condussi i miei guerrieri in parte in cui furono ben conci; di trecentocinquanta non ne rimangono tre in vita, e questi ancora in così buon aspetto che non potranno più che dimandar l’elemosina pel resto della loro vita alla porta di qualche città. Ma chi viene? (entra il principe Enrico)
P. Enr. Che! te ne stai qui oziando? prestami la tua spada. Mille nobili guerrieri giacciono estinti sotto i piedi dell’insolente nemico, e la loro morte non è ancora vendicata. Pregoti, dammi la tua spada.
Fal. Oh, Enrico, io ti supplico, accordami agio di respirare. Il fiero Solimano non fe’ mai tante stragi, quante io ne ho fatte oggi. Ho dato a Percy il suo conto: egli è in luogo salvo.
P. Enr. Sì, in verità, è in salvo e vive ancora per ucciderti. Prestami la tua spada, te ne scongiuro.
Fal. No, pel Cielo, Enrico. Se Percy vive, tu non avrai la mia spada: prendi invece le mie pistole.
P. Enr. Dammele. Che! Ancora nella custodia?
Fal. Sì, Enrico; sono ancor tepide del fuoco fatto. Con queste si può atterrare un’intera città.
P. Enr. Come! È questo il tempo di beffare? (cava un fiasco di vino, glielo getta ed esce)
Fal. Se Percy è in vita, io lo trapasserò ove mi venga contro. Ma saprò ben evitare tale avvenimento. A me non piace quell’austero onore che ora cotesto sir Gualtiero possiede. Lasciatemi in vita, finchè potrò serbarla: quando nol potrò più, l’onore venga allora senza che io lo cerchi, e sia tutto finito. (esce)
SCENA IV.
Altra parte del campo.
Allarme. Escursioni. Entrano il re, il principe Enrico,
il principe Giovanni e Westmoreland.
Enr. Pregoti, Enrico, ritirati: il tuo sangue sgorga in copia. Milord di Lancastro, ite con lui.
P. Gio. Non io, signore, finchè non sia ferito del pari.
P. Enr. Supplico Vostra maestà di restare qui, per tema che la vostra dipartenza non isgomenti i vostri amici.
Enr. Così farò. — Signore di Westmoreland, conducetelo alla sua tenda.
West. Venite, milord, io vi sarò compagno.
P. Enr. Compagno, milord? Non ho bisogno del vostro aiuto: e tolga il Cielo che una lieve scalfittura faccia partire il principe di Galles da un campo di battaglia, in cui giacciono tanti nobili bagnati nel loro sangue; in cui le armi dei ribelli trionfano in mezzo alla strage.
P. Gio. Perdiamo troppo tempo. Venite, cugino Westmoreland; è per questa via che il nostro dovere ci impone di andare. In nome di Dio, venite! (esce con West.)
P. Enr. Pel Cielo! Tu mi hai ingannato, Lancastro: io non ti credevo fornito di tanto coraggio: prima t’amava come un fratello; ma ora mi sei prezioso come la mia anima.
Enr. Lo vidi di fronte a Percy, comportarsi con tal valore, che il simile non avrei mai creduto esistesse in così tenera giovinezza.
P. Enr. Oh! quel garzone ne dà a tutti l’esempio del coraggio!
(esce; allarme. Entra Douglas)
Doug. Un altro re! E’ si moltiplicano come le teste dell’idra. — Io sono il Douglas, fatale a tutti coloro che sopra sè portano i fregi di cui ti veggo adorno. — Chi sei tu, che vesti le divise dei re?
Enr. Il re vero, il di cui cuore geme che tu abbia incontrati tanti che gli rassomigliavano, prima d’incontrar lui stesso. Ho due figli che cercano te e Percy nel campo di battaglia; ma poichè il caso ti guida fortunatamente da me, vuo’ metterti alla prova: pensa a difenderti.
Doug. Temo che tu ancora non sia un re mendace, sebbene da re ti comporti: ma chiunque tu sia, abbi certezza che a me non isfuggirai; ecco com’io m’impossesso di te. (combattono; e il re è in pericolo, allorchè entra il principe Enrico)
P. Enr. Alza il tuo capo, vile Scozzese; o più nol solleverai! Le anime di Shirley, di Stafford, di Blunt riposano sulle mie armi: è il principe di Galles che ti minaccia, e che compie quanto promette. (combattono; Douglas fugge) Siate lieto, signore; come sta Vostra Grazia? Sir Niccola Gawsey ha mandato a chieder soccorso, come pure Cliston. Volo da quest’ultimo.
Enr. Fermati e riposati un istante. Tu hai riconquistata tutta la mia stima, mostrando col soccorso opportuno che mi hai dato, in qual conto tu tenga la mia vita.
P. Enr. Oh Cielo! Troppo m’oltraggiarono coloro che vi dissero che io andato alla vostra morte. Se questo fosse, potevo lasciar libero sfogo all’ira di Douglas, che vi avrebbe tolta la vita con quella celerità che mostrar potrebbero i più efficaci veleni, risparmiando in pari tempo un delitto a vostro figlio.
Enr. Corri da Cliston, io raggiungerò Gawsey.
(esce; entra Hotspur)
Hot. Se mal non mi appongo, tu sei Enrico Monmouth?
P. Enr. Tu mi parli come s’io volessi negare il mio nome.
Hot. Il mio nome è Enrico Percy.
P. Enr. È un nome portato da un coraggioso ribelle. Io sono il principe di Galles: non isperare, Percy, di divider più a lungo alcuna gloria con me. Due astri non possono muoversi nella medesima sfera. L’Inghilterra non può patire in pari tempo il doppio regno di Enrico Percy e del principe di Galles.
Hot. Onde nol subirà; perocchè l’ora è venuta in cui l’uno di noi due deve cessare di esistere: e piacesse al Cielo che la tua fama nelle armi fosse così grande come è la mia!
P. Enr. L’amplierò prima di lasciarti; e tutti gli allori che fioriscono sul tuo pennacchio, li mieterò per farmene ghirlanda alla fronte.
Hot. Non posso sostenere più a lungo la tua baldanza.
(combattono; entra Falstaff)
Fal. Ben detto, Enrico! Coraggio, Enrico! Non troverete qui un giuoco da fanciullo, ve ne impegno la mia fede. (entra Douglas; egli combatte con Falstaff che si lascia cadere come morto, per cui Douglas esce. Hotspur è ferito e cade)
Hot. Oh! Enrico, tu mi hai tolta la mia giovinezza; ma tollero più volentieri la perdita di una vita fragile, che quella dei titoli gloriosi che mi hai rapiti. Questo pensiero ferisce più dolorosamente la mia anima, che la tua spada non abbia ferito il mio corpo. — Nondimeno l’anima regge la vita, e la vita è ludibrio del tempo, il cui imperio, sebbene si estenda sull’universo, deve pure un giorno finire. Oh!..... potrei predire per l’avvenire..... ma la pesante e fredda mano della morte mi agghiaccia la lingua. — Percy, tu non sei più che polvere e pasto solo..... (muore)
P. Enr. De’ vermi. Prode Percy! Addio, cuor generoso! Ambizione mal contesta, come raggrinzita ti sei! Finchè questo corpo racchiudeva un’anima, un regno non era abbastanza vasto per esso: ora due passi della più vil creta gli bastano. — Questa terra, che ti sorregge morto, non sostiene alcun guerriero più intrepido di te. Se tu fossi ancora sensibile alle lodi, non ti prodigherei tanti lamenti e tanti encomii. La mia mano officiosa veli il tuo volto, brutalmente mutilato; e in contemplazione di te, mi sia grato il renderti questi doveri di una generosa tenerezza. Addio, porta teco le tue lodi nel Cielo: la tua ignominia starà sepolta nella tua tomba, nè ricordata verrà nel tuo epitafio! (vede Falstaff) Oh! sei tu vecchio compagno! Massa sì enorme di carne non potè ella conservare un po’ di vita? Povero sir Giovanni addio dunque. Avrei potuto salvare un guerriero più prode di te. La tua perdita mi larderebbe un gran vuoto, se fossi vago di follie. La morte non atterrò oggi daino più grasso; quantunque abbia immolati mille più valenti. Vuo’ farti sparare fra breve: intanto resta qui sepolto nel tuo sangue accanto al nobile Percy. (esce)
Fal. (alzandosi adagio adagio) Sparare! Oh se mi fai sparar oggi, ti permetto anche di salarmi e di mangiarmi dimani. Pel Cielo! era ben tempo di farla da morto, se non volevo che quel dannato Scozzese m’assolvesse di tutti i debiti. Mentii forse? No, non mentii: è morendo che si mente: perocchè il cadavere simula le sembianze dell’uomo, sebbene più uomo non sia. Ma fingere la morte, quando con tal mezzo si vive, non è un mentire, è anzi un raffigurar la vera e perfetta imagine dell’esistenza. La miglior parte del valore è la prudenza; e usando di tal preziosa parte salvai i miei dì. Pel Cielo! ho paura di questo demonio di Percy, quantunque sia morto. Se egli pure avesse finto e stesse per rialzarsi? Tremo non mi si mostri miglior simulatore di me: e vuo’ assicurarmene, per giurar poscia d’averlo ucciso. Perchè non potrebbe egli rialzarsi come ho fatto io? Nulla mi tutela, tranne gli occhi... e alcuno non mi vede. Perciò, maledetto (pugnalandolo) ricevi anche quest’altra ferita nelle coscie, e vientene con me. (si reca Hotspur sulle braccia; rientra il principe Enrico col principe Giovanni)
P. Enr. Vieni, fratello Giovanni, usasti valorosamentee della tua spada ancor vergine.
P. Gio. Taci! chi è là? Non mi diceste voi che quel pingue uomo era morto?
P. Enr. Lo dissi; e lo vidi morto, esanime e sanguinoso sul suolo. — Sei tu vivo? o sei forse un’illusione che ci schernisce? Pregoti, parlaci. Ai nostri occhi non crederemo senza le testimonianze delle nostre orecchie. Tu non sei quello che sembri.
Fal. No, ciò è certo; io non sono un uomo doppio: ma se non sono Giovanni Falstaff, sono un malandrino. Questi è Percy: (gettando a terra il cadavere) Se vostro padre vuol ricompensarmi con qualche onore, sia; se no, uccida egli stesso il primo Percy che verrà ad investirlo, lo spero d’esser fatto conte o duca, re ne assicuro.
P. Enr. Come! Fai io che uccisi Percy e che ti vidi morto.
Fal. Tu l’uccidesti? Signore, signore, come questo mondo è vòlto alla menzogna! Riconosco con voi, ch’io era per terra fuor di lena, e così egli pure: ma noi ci rialzammo entrambi in un medesimo istante e combattemmo per una lunga ora suonata all’orologio di Shrewsbury. Se si vuole crederlo, bene; se no, quelli che dorrebbero ricompensar il valore portino sulla loro testa questo peccato. Io giuro sulla mia morte che fai io che gli inflissi quella ferita nella coscia: se ei fosse vivo e osasse smentirmi gli vorrei far ingoiare un pezzo della mia spada.
P. Gio. Quest’è il più strano racconto che mai udissi.
P. Enr. Ed è ben anche costui l’uomo più strano che mai abbiate veduto, fratello Giovanni. — Via, portate con onore quel fardello sopra il vostro dorso. Per me, se una menzogna può esser buona a qualche cosa, ti prometto di dorarla coi più bei colorì che saprò trovare. (Si ode battere la ritirata) I duci chiamano a raccolta: la giornata è vinta. Venite, fratello, andiamo fino al termine del campo per vedere quali dei nostri amici son vivi, e quanti ne abbiamo perduti. (esce col principe Gio.)
Fal. Io li seguirò confessi dicono per la ricompensa. Quegli che mi ricompensa sia ricompensato da Dio! Se divengo grande, sarò più piccolo; perchè mi purgherò, e lascierò il vino, e vivrò castamente come debbo fare un nobile.
(esce portando il cadavere)
SCENA V.
Un’altra parte del campo. — Le trombe squillano.
Entrano il re Enrico, il principe Enrico, il principe Giovanni, Westmoreland ed altri, con Worcester e Vernon, prigionieri.
Enr. Tale fu sempre il fine delle ribellioni! Perfido Worcester! non vi abbiamo noi offerto a tutti grazia, perdono, con parole piene di bontà? ma la tua mala fede ha pervertita le nostre offerte! Tu hai corrotto tuo nipote; e tre illustri cavalieri del nostro esercito, che questo di ha veduto perire, vivrebbero ancora, se da cristiano leale tu avessi intrattenuto fra i due partiti un’intelligenza fedele e sincera.
Wor. A quello che ho fatto, fui costretto dalla mia sicurezza, ed ora mi sobbarco rassegnato a quella sorte, che mi pende sul capo.
Enr. Fate morire costui e Vernon: degli altri colpevoli resti per ora sospesa la sentenza. (escono Wor. e Ver. fra le guardie) Qual è lo stato del campo?
P. Enr. L’illustre Scozzese, lord Douglas, allorchè ha veduto che la fortuna del combattimento si volgeva irreparabilmente contro di lui, che il nobile Percy era morto, che in tutto il suo esercito era entrata la paura, è fuggito col resto delle sue schiere, e cadendo da un colle si è concio in guisa che quelli che lo inseguivano l’han preso. Egli è nella mia tenda; e supplico Vostra Maestà, ond’io possa disporre di lui.
Enr. Con tutto il cuore.
P. Enr. Sarete voi, Lancastro, mio fratello, che riempirete quest’ufficio di generosità. Ite a trovare Douglas, e lasciatelo seguire la sua inclinazione, libero e senza riscatto. Il suo valore, che oggi si è mostrato contro di noi con tanta efficacia, ne ha insegnato ad ammirare le opere generose anche nei nostri nemici.
Enr. Ecco ciò che ci rimane da fare. — Dividiamo il nostro esercito. Voi Lancastro mio figlio, e voi cugino Westmoreland, marcierete verso York, e userete della massima sollecitudine per raggiungere Northumberland e il prelato Scroop, che secondo ciò che ne vien detto già trovansi armati in via. — Io e voi, mio figlio Enrico, andremo nella provincia di Galles per combattervi Glendower e il conte della Marca. — Ancora una vittoria simile a quella d’oggi, e la ribellione perderà tutto il suo impero in questo regno. Dopo inizio si luminoso, non ci riposiamo prima che compiuta non sia la nostra opera, rivendicando tutti i nostri diritti. (escono)
fine della prima parte dell’enrico iv.