Orlando innamorato/Libro secondo/Canto secondo

Libro secondo

Canto secondo

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1   Se quella gente, quale io v’ho contata
     Ne l’altro canto, che è dentro a Biserta,
     Fusse senza indugiar di qua passata,
     Era Cristianità tutta deserta,
     Però che era in quel tempo abandonata
     Senza diffesa: questa è cosa certa,
     Ché Orlando alora e il sir de Montealbano
     Sono in levante al paese lontano.

2   De Orlando io vi contai pur poco avante,
     Che Brigliadoro avea perso, il ronzone,
     Quando la dama con falso sembiante
     L’avea fatto salire a quel petrone.
     Ora lasciamo quel conte d’Anglante,
     Ch’io vo’ contar de l’altro campïone,
     Dico Ranaldo, il cavalliero adorno,
     Qual con Marfisa a quel girone è intorno.

3   E mentre che Agramante e sua brigata
     Va cercando Rugier, qual non se trova,
     Ranaldo, che ha la mente anco adirata,
     Poi che visto non ha l’ultima prova
     Della battaglia ch’io ve ho racontata,
     Sempre il sdegno crudel più si rinova:
     Dico della battaglia ch’io contai,
     Ch’ebbe col conte con tormento assai.

4   Né sa pensar per qual cagion partito
     Sia il conte Orlando da quella frontera,
     Perché né l’un né l’altro era ferito,
     Poco o nïente d’avantaggio vi era.
     Ben stima lui che non serìa fuggito
     Mai con vergogna per nulla maniera:
     Ma, sia quel che si voglia, è destinato
     Sempre seguirlo insin che l’ha trovato.

5   Poi che venuta fu la notte bruna,
     Armase tutto e prende il suo Baiardo,
     E via camina al lume della luna.
     Astolfo a seguitarlo non fu tardo,
     Ché vôl con lui patire ogni fortuna.
     Iroldo è seco e Prasildo gagliardo;
     E già non seppe la forte regina
     De lor partita insino alla mattina.

6   E mostrò poi d’averne poca cura,
     O sì o no che ne fusse contenta.
     Cavalcano e baroni alla pianura
     D’un chiuso trotto, che giamai non lenta.
     Ora passata è via la notte scura,
     E l’aria de vermiglio era dipenta,
     Perché l’alba serena, al sol davante,
     Facea il ciel colorito e lustrigiante.

7   Davanti a gli altri il figlio del re Otone,
     Astolfo dico, sopra a Rabicano,
     Dicendo sue devote orazïone,
     Come era usato il cavallier soprano.
     Ecco davanti sede in su un petrone
     Una donzella e batte mano a mano;
     Battese ’l petto e battese la faccia
     Forte piangendo, e le sue treccie straccia.

8   - Misera me! - diceva la donzella
     - Misera me! tapina! isventurata!
     O parte del mio cor, dolce sorella,
     Così non fosti mai nel mondo nata,
     Poi che quel traditor sì te flagella!
     Meschina me! meschina! abandonata!
     Poi che fortuna mi è tanto villana,
     Ch’io non ritrovo aiuto a mia germana. -

9   - Qual cagione hai, - Astolfo gli diciva
     - Che ti fa lamentar sì duramente? -
     In questo ragionar Ranaldo ariva,
     Gionge Prasildo e Iroldo di presente.
     La dama tutta via forte piangiva,
     Sempre dicendo: - Misera! dolente!
     Con le mie mane io mi darò la morte,
     S’io non ritrovo alcun che mi conforte. -

10 Poi, vòlta a quei baron, dicea: - Guerrieri,
     Se aveti a’ vostri cor qualche pietate,
     Soccorso a me per Dio! che n’ho mestieri
     Più che altra che abbia al mondo aversitate.
     Se drittamente seti cavallieri,
     Mostratimi per Dio! vostra bontate
     Contra a un ribaldo, falso, traditore,
     Pien di oltraggio villano e di furore.

11 Ad una torre non quindi lontana
     Dimora quel malvaso furibondo,
     Di là da un ponte, sopra a una fiumana
     Che poi fa un lago orribile e profondo.
     Io là passava ed una mia germana,
     La più cortese dama che aggia il mondo;
     E quel ribaldo del ponte discese,
     La mia germana per le chiome prese,

12 Villanamente quella strascinando,
     Sin che di là dal ponte fu venuto.
     Io sol cridavo e piangia lamentando,
     Né gli puotea donare alcuno aiuto.
     Lui per le braccia la venne legando
     Al tronco de un cipresso alto e fronduto,
     E poi spogliata l’ebbe tutta nuda,
     Quella battendo con sembianza cruda. -

13 Abondava alla dama sì gran pianto,
     Che non puotea più oltra ragionare.
     A tutti quei baron ne incresce tanto
     Quanto mai si potrebbe imaginare;
     E ciascadun di lor si dona vanto,
     Sapendo il loco, de ella liberare,
     Ed in conclusïone il duca anglese
     A Rabicano in croppa quella prese.

14 E forse da due miglia han cavalcato,
     Quando son gionti al ponte di quel fello.
     Quel ponte per traverso era chiavato
     De una ferrata, a guisa di castello,
     Che arivava nel fiume a ciascun lato;
     Nel mezo a ponto a ponto era un portello.
     A piedi ivi si passa de legieri,
     Ma per strettezza non vi va destrieri.

15 Di là dal ponte è la torre fondata
     In mezo a un prato de cipresso pieno;
     Il fiume oltra quel campo se dilata
     Nel lago largo un miglio, o poco meno.
     Quivi era presa quella sventurata,
     Ch’empiva di lamenti il cel sereno;
     Tutta era sangue quella meschinella,
     E quel crudele ognior più la flagella.

16 A piede stassi armato il furïoso:
     Dalla sinistra ha di ferro un bastone,
     Il flagello alla destra sanguinoso;
     Batte la dama fuor de ogni ragione.
     Iroldo di natura era pietoso:
     Ebbe di quella tal compassïone,
     Che licenzia a Ranaldo non richiede,
     Ma presto smonta ed entra il ponte a piede,

17 Perché a destrier non se puote passare,
     Come io ve ho detto, per quella ferrata.
     Quando il crudele al ponte il vide entrare,
     Lascia la dama al cipresso legata.
     Il suo baston di ferro ebbe a impugnare,
     E qui fo la battaglia incominciata;
     Ma durò poco, perché quel fellone
     Percosse Iroldo in testa del bastone;

18 E come morto in terra se distese,
     Sì grande fu la botta maledetta.
     Quello aspro saracino in braccio il prese,
     E via correndo va come saetta,
     Ed in presenzia a gli altri lì palese
     Come era armato dentro il lago il getta.
     Col capo gioso andò il barone adorno:
     Pensati che già su non fie’ ritorno.

19 Ranaldo de l’arcione era smontato
     Per gire alla battaglia del gigante,
     Ma Prasildo cotanto l’ha pregato,
     Che fu bisogno che gli andasse avante.
     Quel maledetto l’aspetta nel prato,
     E tien alciato il suo baston pesante;
     Questa battaglia fu come la prima:
     Gionse il bastone a l’elmo nella cima.

20 Quel cade in terra tutto sbalordito;
     Via ne ’l porta il Pagano furibondo,
     E, proprio come l’altro a quel partito,
     Gettalo armato nel lago profondo.
     Ranaldo ha un gran dolore al cor sentito,
     Poiché quel par d’amici sì iocondo
     Tanto miseramente ha già perduto,
     E presto sì, che a pena l’ha veduto.

21 Turbato oltra misura, il ponte passa
     Con la vista alta e sotto l’arme chiuso;
     Va su l’aviso e tien la spada bassa,
     Come colui che è di battaglia aduso.
     Quell’altro del bastone un colpo lassa,
     Credendol come e primi aver confuso;
     Ma lui, che del scrimire ha tutta l’arte,
     Leva un gran salto e gettasi da parte.

22 Lui d’un gran colpo tocca quel fellone,
     Ferendo a quel con animo adirato;
     Ma l’arme di colui son tanto bone,
     Che non han tema di brando arrodato.
     Durò gran pezzo quella questïone:
     Ranaldo mai da lui non fu toccato,
     Cognoscendo colui che è tanto forte,
     Che gli avria dato a un sol colpo la morte.

23 Esso ferisce di ponta e di taglio,
     Ma questo è nulla, ché ogni colpo è perso,
     E tal ferire a quel non nôce uno aglio.
     Mosse alto crido quello omo diverso,
     E via tra’ il suo bastone a gran sbaraglio
     Contra a Ranaldo, e gionselo a traverso,
     E tutto gli fraccassa in braccio il scudo:
     Cade Ranaldo per quel colpo crudo.

24 A benché in terra fo caduto apena,
     Che salta in piedi e già non se sconforta;
     Ma quel feroce, che ha cotanta lena,
     Prendelo in braccio e verso il lago il porta.
     Ranaldo quanto può ben se dimena,
     Ma nel presente sua virtute è morta:
     Tanto di forza quel crudel l’avanza,
     Che de spiccarsi mai non ha possanza.

25 Correndo quel superbo al lago viene,
     E come gli altri il vol gioso buttare;
     A lui Ranaldo ben stretto si tiene,
     Né quel si può da sé ponto spiccare.
     Cridò il crudel: - Così far si conviene! -
     Con esso in braccio giù se lascia andare;
     Con Ranaldo abracciato il furïoso
     Cadde nel lago al fondo tenebroso.

26 Né vi crediati che faccian ritorno,
     Ché quivi non vale arte di notare,
     Perché ciascuno avea tante arme intorno,
     Che avrian fatto mille altri profondare.
     Astolfo ciò vedendo ebbe tal scorno,
     Che è come morto e non sa che si fare.
     Perso Ranaldo ed affocato il vede,
     Né, ancor vedendo, in tutto bene il crede.

27 Presto dismonta e passa la ferrata,
     In ripa al lago corse incontinente.
     Una ora ben compita era passata,
     Dentro a quell’acqua non vede nïente.
     Or s’egli aveva l’alma adolorata
     Dovetelo stimar certanamente;
     Poi che perduto ha il suo caro cugino,
     Più che si far non sa quel paladino.

28 Passava il ponte ancor quella donzella
     Ed a l’alto cipresso se ne è gita;
     Dal troncon desligò la sua sorella,
     E de’ soi panni l’ebbe rivestita.
     Astolfo non attende a tal novella,
     Preso di doglia cruda ed infinita:
     Crida piangendo e battese la faccia,
     Chiedendo morte a Dio per sola graccia.

29 E tanto l’avea vento il gran dolore,
     Che se volea nel lago trabuccare,
     Se non che le due dame con amore
     L’andarno dolcemente a confortare.
     - Che? - dician lor - Baron d’alto valore,
     Adunque ve voleti disperare?
     Non se cognosce la virtute intera
     Se non al tempo che fortuna è fiera. -

30 Molti saggi conforti gli san dare,
     Or l’una or l’altra con suave dire,
     E tanto seppen bene adoperare,
     Che da quel lago lo ferno partire.
     Ma come venne Baiardo a montare,
     Credette un’altra volta di morire,
     Dicendo: - O bon ronzone! egli è perduto
     Il tuo segnore, e non gli hai dato aiuto? -

31 Molte altre cose a quel destrier dicia
     Piangendo sempre il duca amaramente;
     In mezo de due dame ne va via,
     Baiardo ha sotto il cavallier valente.
     Sopra de Rabican l’una venìa,
     L’altra de Iroldo avea il destrier corrente;
     Quel de Prasildo, tutto desligato
     E senza briglia, rimase nel prato.

32 E caminando insino a mezo il giorno,
     Ad un bel fiume vennero arivare,
     Dove odirno suonare uno alto corno.
     Ora de Astolfo vi voglio lasciare,
     Perché agli altri baron faccio ritorno,
     Che ad Albraca la rocca hanno a guardare,
     E sempre fan battaglia a gran diffesa
     Contra a Marfisa di furore accesa.

33 Torindo era di fuor con la regina,
     Ed ha un messaggio a Sebasti mandato,
     Alla terra di Bursa, che confina
     A Smirne, a Scandeloro in ogni lato:
     Per tutta la Turchia con gran roina
     Ciascun che può venir ne venga armato.
     Questi conduce il forte Caramano,
     Che de Torindo è suo carnal germano.

34 Egli ha giurato mai non si partire
     D’intorno a quella rocca al suo vivente,
     Sin che non vede Angelica perire
     Di fame o foco, e tutta la sua gente;
     Però sì gran brigata fie’ venire,
     Per esser fuor nel campo sì potente,
     Che non possan gir quei de dentro intorno,
     Che or mille volte n’escon fuora il giorno.

35 Perché il fiero Antifor e il re Ballano
     Stan sempre armati sopra dello arcione;
     Oberto dal Leone e re Adrïano,
     Re Sacripante e il forte Chiarïone
     Sopra la gente di Marfisa al piano
     Callano spesso a gran destruzïone;
     La dama esser non puote in ogni loco,
     Ché ben fuggian da lei come dal foco.

36 Acciò che ’l fatto ben vi sia palese,
     Aquilante non vi era, né Grifone,
     Né Brandimarte, il cavallier cortese.
     Questo fo il primo che lasciò il girone,
     Perché l’amor de Orlando tanto il prese,
     Nel tempo che con lui fu compagnone,
     Che, come sua partenza oditte dire,
     Subitamente se ’l pose a seguire.

37 E figli de Olivieri il simigliante
     Ferno ancor lor la seguente matina,
     Dico Grifone e ’l fratello Aquilante:
     E tanto ogni om de’ duo forte camina,
     Che al conte Orlando trapassarno avante.
     Essendo gionti sopra a una marina,
     In mezo ad un giardin tutto fiorito
     Trovarno un bel palagio su quel lito.

38 Una logia ha il palagio verso il mare,
     Davanti vi passarno e duo guerreri;
     Quivi donzelle stavano a danzare,
     Ché vi avean suon diversi e ministeri.
     Grifon passando prese a dimandare
     A duo, che tenian cani e sparavieri,
     Di cui fosse il palagio; e l’un rispose:
     - Questo si chiama il Ponte dalle Rose.

39 Questo è il mar del Baccù, se nol sapeti.
     Dove è il palagio adesso e ’l bel giardino,
     Era un gran bosco, ben folto de abeti,
     Dove un gigante, che era malandrino,
     Stava nel ponte che là giù vedeti;
     Né mai passava per questo confino
     Una donzella o cavalliero errante,
     Che lor non fusse occisi dal gigante.

40 Ma Poliferno fu bon cavalliero,
     E da poi fatto re per suo valore,
     Occise quel gigante tanto fiero;
     Tagliò poi tutto il bosco a gran furore,
     Dove fece piantar questo verziero,
     Per fare a ciascadun che passi, onore.
     Ciò vedreti esser ver, come io vi dico;
     Al ponte anco ha mutato il nome antico.

41 Ché ’l Ponte Periglioso era chiamato,
     Or dalle Rose al presente si chiama:
     Ed è così provisto ed ordinato,
     Che ciascun cavalliero ed ogni dama,
     Quivi passando, sia molto onorato,
     Acciò che se oda nel mondo la fama
     Di quel bon cavallier, che è sì cortese
     Che merta lodo in ciascadun paese.

42 Là non potreti adunque voi passare,
     Se non giurati, a la vostra leanza,
     Per una notte quivi riposare;
     Sì ch’io ve invito a prender qui la stanza,
     Prima che indrieto abbiati a ritornare. -
     Disse Grifon: - Questa cortese usanza
     Da me, per la mia fè, non serà guasta,
     Se ’l mio germano a questo non contrasta. -

43 Disse Aquilante: - Sia quel che ti piace. -
     E così dismontarno alla marina.
     Verso il palagio va Grifone audace,
     Ed Aquilante apresso li camina.
     Gionti a la logia, non se pôn dar pace,
     Tanta era quella adorna e peregrina.
     Dame con gioco e festa, ministreri
     Vennero incontra a quei duo cavallieri.

44 Incontinenti fôrno disarmati,
     E con frutti e confetti e coppe d’oro
     Se rinfrescarno e cavallier pregiati,
     Poi nella danza entrarno anche con loro.
     Ecco a traverso de’ fioriti prati
     Venne una dama sopra Brigliadoro;
     Istupefatto divenne Grifone,
     Come alla dama vide quel ronzone.

45 Similmente Aquilante fu smarito,
     E l’uno e l’altro la danza abandona,
     E verso quella dama se ne è gito,
     E ciascadun di lor seco ragiona,
     Dimandando a qual modo e a qual partito
     Abbia il destriero, e che è della persona
     Che suolea cavalcar quel bon ronzone.
     Lei d’ogni cosa li rende ragione,

46 Come colei che è falsa oltra misura,
     E del favolegiare avea il mestiero.
     Dicea che sopra un ponte alla pianura
     Avea trovato morto un cavalliero,
     Con una sopravesta di verdura
     E uno arboscello inserto per cimiero;
     E che un gigante apresso morto gli era,
     Feso d’un colpo insino alla gorgiera;

47 Che già non era il cavallier ferito,
     Ma pista d’un gran colpo avea la testa.
     Quando Aquilante questo ebbe sentito,
     Ben gli fuggì la voglia di far festa,
     Dicendo: - Ahimè! baron, chi t’ha tradito?
     Ch’io so ben che a battaglia manifesta
     Non è gigante al mondo tanto forte,
     Qual condutto se avesse a darti morte. -

48 Grifon piangendo ancor se lamentava,
     E di gran doglia tutto se confonde;
     E quanto più la dama dimandava,
     Più de Orlando la morte gli risponde.
     La notte oscura già s’avicinava,
     Il sol di drieto a un monte se nasconde;
     E duo baron, ch’avean molto dolore,
     Nel palagio alogiarno a grande onore.

49 La notte poi nel letto fuor’ pigliati,
     E via condutti ad una selva oscura,
     Dove fôrno a un castello impregionati,
     Al fondo d’un torrion con gran paura,
     Dove più tempo sterno incatenati,
     Menando vita dispietata e dura.
     Un giorno il guardïan fuora li mena,
     Legati ambe le braccia di catena.

50 Seco legata mena la donzella
     Che sopra Brigliadoro era venuta;
     Un capitano con più gente in sella
     In questa forma quei baron saluta:
     - Oggi aveti a soffrir la morte fella,
     Se Dio per sua pietate non ve aiuta. -
     La dama se cambiò nel viso forte,
     Come sentì che condutta era a morte.

51 Ma già non se cambiarno e duo germani,
     Ciascuno è bene a Dio racomandato.
     Avanti a sé scontrarno in su quei piani
     Un cavalliero a piedi e tutto armato.
     Eran da lui ancor tanto lontani,
     Che non l’avrebbon mai rafigurato;
     Ma poi dirovi a ponto questo fatto,
     Che nel presente più di lor non tratto;

52 E tornovi a contar di quel castello
     Qual era assedïato da Marfisa.
     Chiarïone ogni giorno era al zambello
     Con gli altri che la istoria vi divisa;
     La regina cacciava or questo or quello,
     Ma non la aspetta alcun per nulla guisa;
     Già tutti quanti, eccetto Sacripante,
     L’avian provata nel tempo davante.

53 Esso non era della rocca uscito,
     Però che nella prima questïone
     De una saetta fu alquanto ferito,
     Sì che non può vestir sua guarnisone.
     Già tutto un mese integro era compito
     Poi che qua gionto fu il re Galafrone,
     Quando tutti e baroni una matina
     Saltâr nel campo di quella regina.

54 Cridan le gente: - Ad arme! - tutte quante;
     Ciascun di quei baron sembra leone.
     Il re Ballano a tutti vien davante,
     Poi Antifor e Oberto e Chiarïone,
     Il re Adrïano è drieto e Sacripante:
     Di quella gente fan destruzïone.
     Ben ha cagion ciascun de aver paura,
     Tutta è coperta a morti la pianura.

55 L’un doppo l’altro de quei baron fieri
     Venian di qua di là, gente tagliando;
     I scudi hanno alle spalle e bon guerrieri,
     E ciascuno a due man mena del brando.
     Vanno a terra pedoni e cavallieri,
     Ogniom davanti a lor fugge tremando;
     Rotti e spezzati vanno a gran furore:
     Ecco Marfisa gionta a quel rumore.

56 Giunse alla zuffa la dama adirata:
     Già non bisogna tempo a lei guarnire,
     Però che sempre se trovava armata.
     Quando Ballano la vide venire,
     Che ben sapea sua forza smisurata,
     In altra parte mostra di ferire,
     E più li piace ciascuno altro loco
     Che la presenza di quel cor di foco.

57 Già tutti insieme avean prima ordinato
     Che l’un con l’altro se debba aiutare,
     Perché la dama ha l’animo adirato
     E contra a tutti vôlse vendicare.
     Come Ballano adunque fu voltato,
     Lei prende dietro a quello a speronare,
     Cridando: - Volta! volta! can fellone,
     Ché oggi non giongi tu dentro al girone. -

58 Così cridando il segue per il piano;
     Ma il forte Antifor de Albarossia
     Di drieto la ferisce ad ambe mano;
     Lei non mostra curare e tira via.
     Disposta è di pigliare il re Ballano,
     Che a spron battuti innanzi le fuggia;
     Vien di traverso Oberto a gran tempesta,
     E lei ferisce al mezo della testa.

59 Non se ne cura la dama nïente,
     Ché dietro al re Ballano in tutto è volta.
     Or Chiarïone a guisa di serpente
     Mena a due mani e ne l’elmo l’ha còlta,
     Ma lei non cura il colpo e non lo sente;
     Tutta a seguir Ballano è lei disciolta.
     Lui, che a le spalle sente la regina,
     Voltasi e mena un colpo a gran ruina.

60 Mena a due mano e le redine lassa,
     Gionse nel scudo alla dama rubesta;
     Come una pasta per traverso il passa,
     E mezo il tira a terra a gran tempesta.
     Lei gionse lui ne l’elmo e lo fraccassa,
     E ferillo aspramente nella testa;
     Sì come morto l’abatte disteso,
     Dalle sue gente incontinente è preso.

61 Ma non vi pone indugio la donzella,
     Per la campagna caccia Chiarïone;
     Ciascun de gli altri adosso a lei martella;
     Non gli stima lei tutti un vil bottone.
     Già tolto Chiarïone ha fuor di sella,
     E via lo manda preso al paviglione;
     Questo veggendo quel de Albarossia,
     A più poter davanti li fuggia.

62 Ma lei lo gionse e ne l’elmo l’afferra;
     Al suo dispetto lo trasse de arcione,
     E poi tra le sue gente il getta a terra
     Come fusse una palla di cottone.
     Or comincia a finirse la gran guerra,
     Però che ’l re Adrïano è già pregione;
     Re Sacripante qui non se ritrova,
     Altrove abatte e fa mirabil prova.

63 Oberto dal Leon, quel sire arguto,
     Mette a sconfitta sol tutta una schiera.
     Marfisa da lontan l’ebbe veduto,
     Spronagli adosso la donzella fiera;
     Da cima al fondo gli divise il scuto,
     E fende sotto il sbergo ogni lamiera,
     E maglia e zuppa tutta disarmando
     Sino alla carne fie’ toccare il brando.

64 Quel cavallier, turbato oltra misura,
     Lascia a due mano un gran colpo di spata.
     Di cotal cosa la dama non cura,
     Né parve aponto che fosse toccata:
     Ché l’elmo che avea in capo e l’armatura
     Tutta era per incanto fabricata;
     Ma lei contra de Oberto s’abandona,
     Sopra de l’elmo un gran colpo gli dona.

65 Con tal roina quel colpo discende,
     Che l’elmo non l’arresta de nïente;
     La fronte a mezo il naso tutta fende,
     Il brando calla giù tra dente e dente,
     E l’arme e busto taglia, e ciò che prende.
     Mena a fraccasso la spada tagliente,
     Né mai si ferma insino in su l’arcione:
     Cadde in due parte Oberto dal Leone.

66 Re Sacripante col brando a due mano
     Fende e nemici e taglia per traverso;
     Tuttavia combattendo, di lontano
     Ebbe veduto quel colpo diverso,
     Quando Oberto in due parte cadde al piano.
     Non ha l’animo lui per questo perso,
     Ma, speronando con molta roina,
     Col brando in mano afronta la regina;

67 E nella gionta un gran colpo li mena:
     Non ebbe mai la dama uno altro tale,
     Che quasi se stordì con grave pena.
     Par che il re Sacripante metta l’ale,
     Né l’estrema possanza e l’alta lena
     Della regina a questo ponto vale;
     Tanto è veloce quel baron soprano,
     Che ciascun colpo della dama è vano.

68 Egli era tanto presto quel guerrero,
     Che a lei girava intorno come occello,
     E schiffava e soi colpi de legiero,
     Ferendo spesso a lei con gran flagello.
     Frontalate avea nome quel destriero,
     Qual fu cotanto destro e tanto isnello,
     Che quando Sacripante a quello è in cima,
     Gli omini tutti e il mondo non istima.

69 Quel bon destrier, che fu senza magagna,
     E sì compito che nulla gli manca,
     Baglio era tutto a scorza di castagna,
     Ma sino al naso avea la fronte bianca.
     Nacque a Granata, nel regno di Spagna:
     La testa ha schietta e grossa ciascuna anca;
     La coda e côme bionde a terra vano,
     E da tre piedi è quel destrier balzano.

70 Quando gli è sopra Sacripante armato,
     De aspettar tutto il mondo si dà vanto;
     Ben ha di lui bisogno in questo lato,
     Né mai ne la sua vita ne ebbe tanto,
     Dapoi che con Marfisa èssi afrontato.
     La zuffa vi dirò ne l’altro canto,
     Che per l’uno e per l’altro, a non mentire,
     Assai fu più che far ch’io non so dire.