Orlando innamorato/Libro primo/Canto ottavo

Libro primo

Canto ottavo

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1   Gionse Ranaldo a Palazo Zoioso
     (Così se avea quella isola a chiamare),
     Ove la nave fie’ il primo riposo,
     La nave che ha il nocchier che non appare.
     Era quello un giardin de arbori ombroso,
     Da ciascun lato in cerco batte il mare;
     Piano era tutto, coperto a verdura;
     Quindeci miglia è intorno per misura.

2   Di ver ponente, aponto sopra al lito,
     Un bel palagio ricco se mostrava,
     Fatto de un marmo sì terso e polito,
     Che il giardin tutto in esso se specchiava.
     Ranaldo in terra presto fu salito,
     Ché star sopra alla nave dubitava;
     Apena sopra il litto era smontato,
     Ecco una dama, che l’ha salutato.

3   La dama li dicea: - Franco barone,
     Qua ve ha portato la vostra ventura;
     E non pensati che senza cagione
     Siati condotto, con tanta paura,
     Tanto di longe, in strana regïone;
     Ma vostra sorte, che al principio è dura,
     Avrà fin dolce, allegro e dilettoso,
     Se avete il cor, come io credo, amoroso. -

4   Così dicendo per la mano il piglia,
     E dentro al bel palagio l’ha menato:
     Era la porta candida e vermiglia,
     E di ner marmo, e verde, e di meschiato.
     Il spazo che coi piedi se scapiglia,
     Pur di quel marmo è tutto varïato;
     Di qua, di là son logie in bel lavoro,
     Con relevi e compassi azuro e de oro.

5   Giardini occulti di fresca verdura
     Son sopra a’ tetti e per terra nascosi;
     Di gemme e d’oro a vaga depintura
     Son tutti e lochi nobili e zoiosi;
     Chiare fontane e fresche a dismisura
     Son circondate d’arboscelli ombrosi;
     Sopra ogni cosa, quel loco ha uno odore
     Da tornar lieto ogni affannato core.

6   La dama entra una logia col barone,
     Adorna molto, ricca e delicata,
     Per ogni faccia e per ogni cantone
     Di smalto in lama d’oro istorïata;
     Verdi arboscelli e di bella fazione
     Dal loco aperto la teneano ombrata;
     E le colonne di quel bel lavoro
     Han di cristallo il fusto e il capo d’oro.

7   In questa logia il cavalliero intrava.
     Di belle dame ivi era una adunanza;
     Tre cantavano insieme, e una suonava
     Uno instrumento fuor de nostra usanza,
     Ma dolce molto il cantare acordava;
     L’altre poi tutte menano una danza.
     Come intrò dentro il cavalliero adorno,
     Così danzando lo acerchiarno intorno.

8   Una di quelle con sembianza umana
     Disse: - Segnor, le tavole son pose,
     E l’ora della cena è prossimana. -
     Così per l’erbe fresche ed odorose
     Seco il menarno a lato alla fontana
     Sotto un coperto di vermiglie rose:
     Quivi è apparato, che nulla vi manca,
     Di drappo d’oro e di tovaglia bianca.

9   Quattro donzelle se fôrno assettate,
     E tolsen dentro a lor Ranaldo in megio.
     Ranaldo sta smarito in veritate;
     Di grosse perle adorno era il suo segio.
     Quivi venner vivande delicate,
     Coppe con zoie di mirabil pregio,
     Vin di bon gusto e di suave odore:
     Servon tre dame a lui con molto onore.

10 Poi che la cena comincia a finire,
     E fôr scoperte le tavole d’oro,
     Arpe e leuti se poterno udire.
     A Ranaldo se acosta una di loro,
     Basso alla orecchia li comincia a dire:
     - Questa casa real, questo tesoro
     E l’altre cose che non pôi vedere,
     Che più son molto, sono a tuo piacere.

11 Per tua cagione è tutto edificato,
     E per te solo il fece la regina;
     Ben ti dei reputare aventurato,
     Che te ami quella dama pellegrina.
     Essa è più bianca che ziglio nel prato,
     Vermiglia più che rosa in su la spina;
     La giovenetta Angelica se chiama,
     Che tua persona più che il suo core ama. -

12 Quando Ranaldo, fra tanta allegrezza,
     Ode nomar colei che odiava tanto,
     Non ebbe alla sua vita tal tristezza,
     E cambiosse nel viso tutto quanto;
     La lieta casa ormai nulla non prezza,
     Anci li assembra un loco pien di pianto.
     Ma quella dama li dice: - Barone,
     Anci non pôi disdir, ché sei pregione.

13 Qua non te val Fusberta adoperare,
     Né te varìa, se avesti il tuo Baiardo:
     Intorno ad ogni parte cinge il mare;
     Qui non te vale ardir né esser gagliardo.
     Quel cor tanto aspro ti convien mutare:
     Lei altro non disia fuor che il tuo sguardo.
     Se de mirarla il cor non ti conforta,
     Come vedrai alcun che odio ti porta? -

14 Così dicea la bella giovanetta,
     Ma nulla ne ascoltava il cavalliero,
     Né quivi alcuna de le dame aspetta,
     Anci soletto va per il verziero.
     Non trova cosa quivi che ’l diletta;
     Ma con cor crudo, dispietato e fiero
     Partir de quivi al tutto se destina,
     E da ponente torna alla marina.

15 Trova il naviglio che l’avea portato,
     E sopra a quel soletto torna ancora,
     Perché nel mar si serebbe gettato
     Più presto che al giardin far più dimora.
     Non se parte il naviglio, anzi è acostato,
     E questo è la gran doglia che lo acora;
     E fa pensier, se non se pô partire,
     Gettarse in mare ed al tutto morire.

16 Ora il naviglio nel mar se alontana,
     E con ponente in poppa via camina;
     Non lo potria contar la voce umana
     Come la nave va con gran ruina.
     Ne l’altro giorno una gran selva e strana
     Vede, ed a quella il legno se avicina.
     Ranaldo al litto di quella dismonta:
     Subito un vecchio bianco a lui se afronta.

17 Forte piangendo quel vecchio dicia:
     - Deh non me abandonar, franco barone,
     Se onor te move di cavalleria,
     Che è la diffesa di iusta ragione!
     Una donzella, che è figliola mia,
     Emme rapita da un falso latrone,
     E pur adesso presa se la mena:
     Ducento passi non è longe apena. -

18 Mosse pietate quel baron gagliardo:
     Benché sia a piedi, armato con la spada
     A seguire il ladron già non fu tardo;
     Coperto d’arme corre quella strada.
     Come lo vide quel ladron ribaldo,
     Lascia la dama, e già non stette a bada;
     Pose alla bocca un grandissimo corno:
     Par che risuoni l’aria e il cel d’intorno.

19 Venne Ranaldo la vista ad alciare:
     A sé davanti vede un monticello,
     Che facea un capo piccoletto in mare.
     Alla cima di quello era un castello,
     Che al suon del corno il ponte ebbe a calare;
     Fuor ne venne un gigante iniquo e fello:
     Sedeci piedi è da la terra altano,
     Una catena e un dardo tiene in mano.

20 Quella catena ha da capo un uncino:
     Or chi potrà questa opra indovinare?
     Come fu gionto il gigante mastino,
     Il dardo con gran forza ebbe a lanciare.
     Gionge nel scudo, che è ben forte e fino,
     Ma tutto quanto pur l’ebbe a passare;
     Usbergo e maglia tutto ebbe passato:
     Ferì il barone alquanto nel costato.

21 Dicea Ranaldo a lui: - Te tien a mente
     Chi meglio de noi duo di spada fiera! -
     E vàlli addosso iniquitosamente.
     Come il gigante il vide nella ciera,
     Volta le spalle e non tarda nïente;
     Forte correndo fugge a una riviera.
     Questa riviera un ponte sopra avia:
     Una sol pietra quel ponte facìa.

22 Nel capo di quel ponte era uno annello;
     Dentro li attacca il gigante l’oncino.
     E già Ranaldo è sopra ’l ponticello,
     Ché, correndo, al pagano era vicino.
     Tirò lo ingegno con gran forza il fello:
     La pietra se profonda. - O Dio divino -
     Dicea Ranaldo - aiuta! O Matre eterna! -
     Così dicendo va nella caverna.

23 Era la tana oscura e tenebrosa,
     E sopra ad essa la fiumana andava;
     Una catena dentro vi era ascosa,
     Che il caduto baron presto legava.
     E quel gigante già non se riposa;
     Così legato in spalla sel portava,
     A lui dicendo: - E perché davi impaccio
     Al mio compagno? Ed io te ho gionto al laccio. -

24 Non respondia Ranaldo alcuna cosa,
     Ma nella mente tristo ne dicia:
     "Or ti par che fortuna ruïnosa
     Una disgrazia dietro a l’altra invia!
     Qual sorte al mondo è la più dolorosa
     Non se paragia alla sventura mia,
     Ch’in tal miseria mi vedo arivare,
     Né con qual modo lo sapria contare."

25 Così dicendo, già sono su il ponte
     Che del crudel castello era l’intrata:
     Teste de occisi nella prima fronte,
     E gente morta vi pende apiccata;
     Ma, quel che era più scuro, eran disionte
     Le membra ancora vive alcuna fiata.
     Vermiglio è lo castello, e da lontano
     Sembrava foco, ed era sangue umano.

26 Ranaldo sol pregando Idio se aiuta:
     Ben vi confesso che ora ebbe paura.
     Già davanti una vecchia era venuta,
     Tutta coperta de una veste oscura,
     Macra nel volto, orribile e canuta,
     E di sembianza dispietata e dura.
     Lei fa Ranaldo alla terra gettare
     Così legato, e comincia parlare.

27 - Forse per fama avrai sentito dire, -
     Dicea la vecchia - la crudele usanza
     Che questa rocca ha preso a mantenire.
     Ora nel tempo che a viver te avanza,
     Poi che a diman s’indugia il tuo morire,
     (Ché già de vita non aver speranza),
     In questo tempo ti voglio contare
     Qual cagion fece la usanza ordinare.

28 Un cavallier di possanza infinita
     Di questa rocca un tempo fu segnore.
     Vita tenea magnifica e fiorita,
     Ad ogni forastier faceva onore;
     Ciascun che passa per la strada invita,
     Cavallier, dame e gente di valore.
     Avea costui per moglie una donzella,
     Che altra al mondo mai fu tanto bella.

29 Quel cavalliero avea nome Grifone;
     Questa rocca Altaripa era chiamata,
     E la sua dama Stella, per ragione,
     Ché ben parea del celo esser levata.
     Era di maggio alla bella stagione;
     Andava il cavalliero alcuna fiata
     A quella selva che è in su la marina,
     Dove giungesti tu in questa mattina.

30 E passar per lo bosco ebbe sentito
     Un altro cavallier, che a caccia andava.
     Sì come a tutti, fie’ il cortese invito,
     Ed alla rocca qua suso il menava.
     Fu quest’altro ch’io dico, mio marito:
     Marchino, il sir de Aronda, se chiamava.
     Lui fu menato dentro a questa stanza,
     Ed onorato assai, come era usanza.

31 Or, come volse la disaventura,
     Gli occhi alla bella Stella ebbe voltato,
     E fo preso de amore oltra misura,
     E seco pensò il viso delicato
     Di quella mansueta creatura;
     In summa, è dentro il cor tanto infiammato,
     Ch’altro nol stringe, né d’altro ha pensiero,
     Se non di tuor la donna al cavalliero.

32 Da questa rocca si parte fellone;
     Torna cambiato in viso a meraviglia:
     Altro che lui non sapea la cagione.
     Parte da Aronda con la sua famiglia;
     Porta le insegne seco di Grifone,
     E di persona alquanto il rasomiglia.
     E soi compagni nel bosco nascose,
     Le insegne e l’arme pur con essi pose.

33 Lui, come a caccia, tutto disarmato
     Va per la selva, e forte suona un corno;
     Il cortese Grifon l’ebbe ascoltato,
     Ch’era nel bosco ancora lui quel giorno.
     In quella parte presto ne fu andato:
     Marchino il falso si guardava intorno,
     E, come non avesse alcun veduto,
     Forte diceva: "Io l’averò perduto."

34 Poi ver Grifon se ne vene a voltare.
     Come il vedesse allor primeramente,
     Diceva: "Io vengo un mio cane a cercare,
     Ma in questo loco non so andar nïente."
     Or vanno insieme, e vengon a rivare
     Ove Marchino ha nascoso la gente;
     E, per venir più presto al compimento,
     Occiserlo costoro a tradimento.

35 Con la sua insegna la rocca pigliaro,
     Né dentro vi lasciâr persona viva;
     Fanciulli e vecchi, senza alcun riparo,
     Ed ogni dama fu de vita priva.
     La bella Stella qua dentro trovaro,
     Che la sventura sua forte piangiva.
     Molte carezze li facea Marchino:
     Mai non se piega quel cor pellegrino.

36 Ella pensava lo oltraggio spietato
     Che li avea fatto il falso traditore,
     E Grifon, che da lei fu tanto amato,
     Sempre li stava notte e dì nel core;
     Né altro desia che averlo vendicato,
     Né trova qual partito sia il megliore.
     Infin li offerse il suo voler crudele
     Quello animal che al mondo è di più fele.

37 Lo animal che è più crudo e spaventevole,
     Ed è più ardente che foco che sia,
     È la moglie che un tempo fu amorevole,
     Che, disprezata, cade in zelosia:
     Non è il leon ferito più spiacevole,
     Né la serpe calcata è tanto ria,
     Quanto è la moglie fiera in quella fiata
     Che per altrui sé vede abandonata.

38 Ed io ben lo so dir, che lo provai,
     Quando avvisata fui di questa cosa.
     Io non sentetti maggior doglia mai,
     E quasi venni in tutto rabbïosa:
     Ben lo mostrò la crudeltà che usai,
     Che forse ti parrà meravigliosa;
     Ma dove zelosia strenge lo amore,
     Quel mal che io feci in duo, è ancor peggiore.

39 Duo fanciulletti avevo di Marchino;
     Il primo lo scanai con la mia mano.
     Stava a guardarme l’altro piccolino,
     E dicea: "Matre, deh per Dio! fa piano."
     Io presi per li piedi quel meschino,
     E detti il capo a un sasso prossimano.
     Te par ch’io vendicassi il mio dispetto?
     Ma questo fu un principio, e non lo effetto.

40 Quasi vivendo ancora lo squartai;
     De il petto a l’uno e a l’altro trassi il core.
     Le piccolette membra minuzzai:
     Pensa se, ciò facendo, avia dolore!
     Ma ancor mi giova ch’io mi vendicai.
     Servai le teste, non già per amore,
     Ché in me non era amor, né anco pietade:
     Servalle per usar più crudeltade.

41 Quelle portai qua suso de nascoso;
     La carne che feci io, poi posi al foco:
     Tanto poté lo oltraggio dispettoso!
     Io stessa fui beccaro, io stessa coco.
     A mensa li ebbe il patre doloroso,
     E quelle se mangiò con festa e gioco.
     Ahi crudel sole, ahi giorno scelerato,
     Che comportò veder tanto peccato!

42 Io mi parti’ dapoi nascosamente,
     Le mani e il petto di sangue macchiata.
     Al re de Orgagna andai subitamente,
     Che già lunga stagion m’aveva amata
     (Era costui della Stella parente),
     E racontai l’istoria dispietata.
     Quel re condussi io armato in su l’arcione
     A far vendetta del morto Grifone.

43 Ma non fo questa cosa così presta,
     Che, come io fui partita dal castello,
     La cruda Stella, menando gran festa,
     A Marchin va davanti in viso fello,
     E li appresenta l’una e l’altra testa
     De’ figli, ch’io servai dentro a un piatello.
     Benché per morte ciascuna era trista,
     Pur li cognobbe ’l patre in prima vista.

44 La damisella aveva il crin disciolto,
     La faccia altiera e la mente sicura,
     Ed a lui disse: "L’uno e l’altro volto
     Son de’ toi figli: dàgli sepoltura.
     Il resto hai tu nel tuo ventre sepolto:
     Tu il divorasti: non aver più cura."
     Ora ha gran pena il falso traditore,
     Ché crudeltà combatte con amore.

45 Lo oltraggio ismisurato ben lo invita
     A far di quella dama crudo strazio;
     Da l’altra parte la faccia fiorita
     E lo afocato amor gli dava impazio.
     Delibra vendicarse alla finita:
     Ma qual vendetta lo potria far sazio?
     Ché, pensando al suo oltraggio, in veritade
     Non v’era pena di tal crudeltade.

46 Il corpo di Grifon fece portare,
     Che, così occiso, ancor giacea nel piano;
     Fece la dama a quel corpo legare,
     Viso con viso stretto, e mano a mano:
     Così con lei poi se ebbe a dilettare.
     Or fu piacer giamai tant’inumano?
     Gran puza mena il corpo tutta fiata;
     La damisella a quel stava legata.

47 In questo tempo venne il re de Orgagna,
     Ed io con esso, con molta brigata;
     Ma come fumo visti alla campagna,
     Marchin la bella Stella ebbe scanata.
     Né ancor per questo dapoi la sparagna,
     Ma usava con lei morta tutta fiata.
     Credo io che il fece sol per darse vanto
     Che altro om non fusse scelerato tanto.

48 Noi qui vennemo, e con cruda battaglia
     La forte rocca alfin pur fo pigliata;
     E Marchin preso, di ardente tenaglia
     Fu sua persona tutta lacerata:
     Chi rompe le sue membra, e chi le taglia.
     La bella dama poi fu sotterrata
     Intra un sepolcro adorno; per ragione
     Posto fu seco il suo caro Grifone.

49 Il re de Orgagna poi se ne fu andato,
     Ed io rimasi in questa rocca oscura.
     Era lo octavo mese già passato,
     Quando sentimo in quella sepoltura
     Un grido tanto orribile e spietato,
     Ch’io non vo’ dir che gli altri abbian paura;
     Ma tre giganti ne fôr spaventati,
     Che il re de Orgagna meco avea lasciati.

50 Un de essi, alquanto più di core ardito,
     Volse la sepoltura un poco aprire,
     Ma ben ne fo poi presto repentito;
     Però che un mostro, che non puote uscire,
     Pur for gettò una branca, ed ha ’l gremito:
     In poco d’ora lo fece morire.
     Stracciollo in pezzi e trassel dentro, possa
     La carne devorò con tutte l’ossa.

51 Non se trovò più om tanto sicuro,
     Che dentro a quella chiesia voglia entrare;
     Cinger poi la feci io d’un forte muro,
     Quello sepolcro a ingegno disserrare.
     Uscinne un mostro contrafatto e oscuro,
     Tanto che alcun non li ardisce a guardare:
     La orribil forma sua non te descrivo,
     Perché sarai da lui di vita privo.

52 Noi poi servamo così fatta usanza,
     Che ciascun giorno qualcuno è pigliato,
     E lo gettamo dentro a quella stanza,
     Perché la bestia l’abbia devorato.
     Ma tanto ne pigliamo, che ne avanza;
     Alcun se scanna, alcun vien impiccato;
     Squartansi vivi ancora alcuna fiata,
     Come veder potesti in su la entrata. -

53 Poi che la usanza cruda, ismisurata,
     Fu per Ranaldo pienamente intesa,
     E l’orribil cagione e scelerata
     Che fie’ la bestia, a chi non val diffesa,
     Rivolto a quella vechia dispietata,
     Disse: - Deh! matre, non mi far contesa.
     Concedime, per Dio, che dentro vada,
     Armato come io sono, e con la spada. -

54 Rise la vecchia e disse: - Or pur ti vaglia!
     Quante arme vôi, ti lasciarò portare;
     Ché il mostro con suo dente il ferro taglia,
     Né contra alle ungie sue se pote armare.
     A te convien morir, non far battaglia,
     Ché la sua pelle non se può tagliare;
     Ma, per fare il tuo peggio, io son contenta,
     Perché la bestia più lo armato stenta. -

55 Sì come apparve il giorno il sol lucente,
     Ranaldo dentro al muro è giù calato,
     E fu una porta alciata: incontinente
     Esce ’l mostro diverso e sfigurato.
     Sì forte batte l’uno a l’altro dente,
     Che ciascun sopra al muro è spaventato,
     Né di star tanto ad alto se assicura:
     Altri se asconde e fugge per paura.

56 Solo è Ranaldo lui senza spavento:
     Armato è tutto, ed in mano ha Fusberta.
     Ma credo io che a voi tutti sia in talento
     Di quel mostro saper la forma aperta.
     Acciò che abbiati il suo cominciamento,
     Fièllo il demonio, questa è cosa certa,
     Del seme de Marchin, che ’n corpo porta
     Quella donzella che da lui fu morta.

57 Egli era più che un bove di grandezza:
     Il muso aveva proprio di serpente;
     Sei palme avea la bocca di longhezza,
     Ben mezo palmo è lungo ciascun dente.
     La fronte ha de cingiale, in tal fierezza
     Che non si può guardarla per nïente;
     E di ciascuna tempia usciva un corno,
     Che move a suo piacere e volge intorno.

58 Ciascuno corno taglia come spata;
     Mugia con voce piena di terrore,
     La pelle ha verde e gialla e varïata
     Di negro e bianco e di rosso colore;
     Avea la barba sempre insanguinata,
     Occhi di foco e guardo traditore;
     La mano ha d’omo ed armata de ungione
     Maggior che quel de l’orso o del leone.

59 Ne l’ungie e dente avea cotanta possa,
     Che piastra o maglia non li può durare;
     E la pelle sì dura e tanto grossa,
     Che nulla cosa la potria tagliare.
     Questa bestia feroce ora se è mossa,
     E va con furia Ranaldo a trovare
     Su duo piè ritta, con la bocca aperta.
     Mena Ranaldo un colpo con Fusberta,

60 E proprio a mezo il muso l’ebbe còlta.
     Or par di foco la bestia adirata,
     E con più furia a Ranaldo rivolta
     Con la mano alta tira una ciampata.
     Troppo non gionse avanti quella volta,
     Ma quanta maglia prese, ebbe stracciata,
     Tanto avea duro il dispietato ungione!
     Sino alla carne disarmò il barone.

61 Ora per questo Ranaldo non resta:
     Benché abbia il peggio, pur non si spaventa;
     Tira a due mani al dritto della testa.
     Quella bestia crudel par che non senta,
     Anci a ogni colpo mena più tempesta;
     Salta de intorno, né giamai se allenta:
     Or de una zampa, ora de l’altra mena
     Con tal prestezza che si vede apena.

62 In quattro parte è già il baron ferito,
     Ma non ha il mondo così fatto core;
     Vedesi morto, e non è sbigotito:
     Perde il suo sangue, e cresce il suo furore.
     Lui certamente avea preso il partito
     Che al disperato caso era megliore;
     Però che, se nol fa il mostro perire,
     Pur lì di fame li convien morire.

63 Già se faceva il giorno alquanto scuro,
     E dura la battaglia tutta fiata.
     Ranaldo se è accostato a l’alto muro:
     Il sangue ha perso, e la lena è mancata,
     E ben è del morir certo e sicuro,
     Ma mena pur gran colpi della spata;
     Vero è che sangue al mostro non ha mosso,
     Ma fraccassato li ha la carne e l’osso.

64 Or se ’l destina in tutto di stordire:
     Mena un gran colpo quel baron soprano.
     La mala bestia il brando ebbe a gremire:
     Or che dee far il sir di Montealbano?
     Diffender non si può, né può fuggire,
     Perché Fusberta li è tolta di mano.
     Ma poi vi dirò come andò il fatto:
     In questo canto più di lui non tratto.