Orlando innamorato/Libro primo/Canto decimosesto

Libro primo

Canto decimosesto

../Canto decimoquinto ../Canto decimosettimo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Libro primo - Canto decimoquinto Libro primo - Canto decimosettimo

 
1   Tutte le cose sotto della luna,
     L’alta ricchezza, e’ regni della terra,
     Son sottoposti a voglia di Fortuna:
     Lei la porta apre de improviso e serra,
     E quando più par bianca, divien bruna;
     Ma più se mostra a caso della guerra
     Instabile, voltante e roïnosa,
     E più fallace che alcuna altra cosa;

2   Come se puote in Agrican vedere,
     Quale era imperator de Tartaria,
     Che avia nel mondo cotanto potere,
     E tanti regni al suo stato obedia.
     Per una dama al suo talento avere,
     Sconfitta e morta fu sua compagnia;
     E sette re che aveva al suo comando
     Perse in un giorno sol per man di Orlando.

3   Onde esso al campo, come disperato
     Suonando il corno, pugna dimandava,
     Ed avea il conte Orlando disfidato,
     Con ogni cavallier che il seguitava;
     E lui soletto, sì come era, al prato
     Tutti quanti aspettarli se vantava.
     Ma della rocca già se calla il ponte,
     Ed esce fuora armato il franco conte.

4   Alle sue spalle è Oberto da il Leone,
     E Brandimarte, che è fior di prodezza,
     Il re Adrïano e il franco Chiarïone:
     Ciascun quella gran gente più disprezza.
     Angelica se pose ad un balcone,
     Perché Orlando vedesse sua bellezza;
     E cinque cavallier con l’asta in mano
     Già son dal monte giù callati al piano.

5   Quel re feroce a traverso li guarda:
     Quasi contra a sì pochi andar se sdegna;
     Par che tutta la faccia a foco li arda,
     Tanto ha l’anima altiera de ira pregna.
     Voltasi alquanto a sua gente codarda,
     In cui bontade né virtù non regna,
     Né a lor se digna de piegar la faccia,
     Ma con gran voce comanda e minaccia:

6   - Non fusse alcun de voi, zentaglia ville,
     Che si movesse già per darmi aiuto!
     Se ben venisser mille volte mille
     Quanti n’ha ’l mondo, e quanti n’ha già auto,
     Con Ercule e Sanson, Ettor e Achille,
     Ciascun fia da me preso ed abattuto;
     E come occisi ho quei cinque gagliardi,
     Ogni om di voi da me poi ben si guardi.

7   Ché tutti quanti, gente maledetta,
     Prima che il sole a sera gionto sia,
     Vi tagliarò col brando in pezzi e in fetta,
     E spargerove per la prataria;
     Perché in eterno mai non se rasetta
     A nascer de voi stirpe in Tartaria
     Che faccia tal vergogna al suo paese,
     Come voi fate nel campo palese. -

8   Quel populaccio tremando se crola
     Come una legier foglia al fresco vento,
     Né se avrebbe sentito una parola,
     Tanto ciascuno avea de il re spavento.
     Trasse Agricane sua persona sola
     Fuor della schiera, e con molto ardimento
     Pone alla bocca il corno e suona forte:
     Ribomba il suono e carne e sangue e morte.

9   Orlando, che ben scorge in ogni banda
     Del re Agricane il smisurato ardire,
     A Iesù Cristo per grazia dimanda
     Che lo possa a sua fede convertire.
     Fassi la croce e a Dio si racomanda,
     E poi che vede il Tartaro venire,
     Ver lui se mosse con molto ardimento:
     Il corso de il destrier par foco e vento.

10 Se forse insieme mai scontrâr due troni,
     Da levante a ponente, al cel diverso,
     Così proprio se urtarno quei baroni;
     L’uno e l’altro a le croppe andò riverso.
     Poi che ebber fraccassato e lor tronconi
     Con tal ruina ed impeto perverso,
     Che qualunque era d’intorno a vedere,
     Pensò che il cel dovesse giù cadere.

11 Del suo Dio se ricorda ogni om di loro,
     Ciascuno aiuto al gran bisogno chiede.
     Fu per cadere a terra Brigliadoro:
     A gran fatica il conte il tiene in piede.
     Ma il bon Baiardo corre a tal lavoro,
     Che la polver de lui sola se vede;
     Nel fin del corso se voltò de un salto,
     Verso de Orlando, sette piedi ad alto.

12 Era ancor già rivolto il franco conte
     Contra al nemico, con la mente altiera;
     La spada ha in mano che fu del re Almonte.
     Così tratto Agricane avea Tranchera;
     E se trovarno due guerreri a fronte,
     E di cotali al mondo pochi ne era;
     E ben mostrarno il giorno, alla gran prova,
     Che raro in terra un par de lor se trova.

13 Non è chi de essi pieghi o mai se torza,
     Ma colpi adoppia sempre, che non resta;
     E come lo arboscel se sfronde e scorza
     Per la grandine spessa che il tempesta,
     Così quei duo baron con viva forza
     L’arme han tagliate, fuor che della testa;
     Rotti hanno e scudi e spezzati i lamieri,
     Né l’un né l’altro ha in capo più cimieri.

14 Pensò finir la guerra a un colpo Orlando,
     Perché ormai gli incresceva il lungo gioco,
     Ed a due man su l’elmo menò il brando;
     Quel tornò verso il cel gettando foco.
     Il re Agrican fra’ denti ragionando,
     A lui diceva: "Se me aspetti un poco,
     Io ti farò la prova manifesta
     Chi de noi porta megliore elmo in testa."

15 Così dicendo un gran colpo disserra
     Ad ambe mano, ed ebbe opinïone
     Mandare Orlando in due parte per terra,
     Ché fender se ’l credea fin su lo arcione.
     Ma il brando a quel duro elmo non s’afferra,
     Ché anco egli era opra de incantazïone.
     Fiello Albrizac, il falso negromante,
     E diello in dono al figlio de Agolante;

16 Questo lo perse, quando a quella fonte
     Lo occise Orlando in braccio a Carlo Mano.
     Or non più zanze: ritornamo al conte,
     Che ricevuto ha quel colpo villano.
     Da le piante sudava insin la fronte,
     E di far sua vendetta è ben certano;
     A poco a poco l’ira più se ingrossa,
     A due man mena con tutta sua possa.

17 Da lato a l’elmo gionse il brando crudo,
     E giù discese della spalla stanca;
     Più de un gran terzo li tagliò del scudo,
     E l’arme e’ panni, insin la carne bianca,
     Sì che mostrar li fece ’l fianco nudo;
     Calla giù il colpo, e discese ne l’anca,
     E carne e pelle aponto li risparma,
     Ma taglia il sbergo, e tutto lo disarma.

18 Quando quel colpo sente il re Agricane,
     Dice a se stesso: "E’ mi convien spaciare.
     S’io non me affretto di menar le mane,
     A questa sera non credo arivare;
     Ma sue prodezze tutte seran vane,
     Ch’io il voglio adesso allo inferno mandare;
     E non è maglia e piastra tanto grossa,
     Che a questo colpo contrastar mi possa."

19 Con tal parole a la sinestra spalla
     Mena Tranchera, il suo brando affilato;
     La gran percossa al forte scudo calla,
     E più de mezo lo gettò su il prato.
     Gionse nel fianco il brando che non falla,
     E tutto il sbergo ha de il gallon tagliato;
     Manda per terra a un tratto piastre e maglia,
     Ma carne o pelle a quel ponto non taglia.

20 Stanno a veder quei quattro cavallieri
     Che venner con Orlando in compagnia,
     E mirando la zuffa e i colpi fieri,
     E tutti insieme e ciascadun dicia
     Che il mondo non avia duo tal guerreri
     Di cotal forza e tanta vigoria.
     Gli altri pagan, che guardan la tenzone,
     Dicean: - Non ce è vantaggio, per Macone! -

21 Ciascun le botte de’ baron misura,
     Ché ben iudica e colpi a cui non dole;
     Ma quei duo cavallier senza paura
     Facean de’ fatti, e non dicean parole.
     E già durata è la battaglia dura
     A l’ora sesta da il levar del sole,
     Né alcun di loro ancor si mostra stanco,
     Ma ciascun di loro è più che pria franco.

22 Sì come alla fucina in Mongibello
     Fabrica troni il demonio Vulcano,
     Folgore e foco batte col martello,
     L’un colpo segue a l’altro a mano a mano;
     Cotal se odiva l’infernal flagello
     Di quei duo brandi con romore altano,
     Che sempre han seco fiamme con tempesta;
     L’un ferir suona a l’altro, e ancor non resta.

23 Orlando gli menò d’un gran riverso
     Ad ambe man, di sotto alla corona,
     E fu il colpo tanto aspro e sì diverso,
     Che tutto il capo ne l’elmo gli intona.
     Avea Agricane ogni suo senso perso;
     Sopra il col di Baiardo se abandona,
     E sbigotito se attaccò allo arcione:
     L’elmo il campò, che fece Salamone.

24 Via ne lo porta il destrier valoroso;
     Ma in poco de ora quel re se risente,
     E torna verso Orlando, furïoso
     Per vendicarse a guisa di serpente.
     Mena a traverso il brando roïnoso,
     E gionse il colpo ne l’elmo lucente:
     Quanto puote ferire ad ambe braccia,
     Proprio il percosse a mezo della faccia.

25 Il conte riversato adietro inchina,
     Ché dileguate son tutte sue posse;
     Tanto fo il colpo pien di gran roina,
     Che su la groppa la testa percosse;
     Non sa se egli è da sera, o da matina,
     E benché alora il sole e il giorno fosse,
     Pur a lui parve di veder le stelle,
     E il mondo lucigar tutto a fiammelle.

26 Or ben li monta lo estremo furore:
     Gli occhi riversa e strenge Durindana.
     Ma nel campo se leva un gran romore,
     E suona nella rocca la campana.
     Il crido è grande, e mai non fo maggiore:
     Gente infinita ariva in su la piana
     Con bandiere alte e con pennoni adorni,
     Suonando trombe e gran tamburi e corni.

27 Questa è la gente de il re Galafrone,
     Che son tre schiere, ciascuna più grossa.
     Per quella rocca, che è di sua ragione,
     Vien con gran furia ad averla riscossa;
     Ed ha mandato in ogni regïone,
     E meza la India ha ne l’arme commossa;
     E chi vien per tesor, chi per paura,
     Perché è potente e ricco oltra a misura.

28 Dal mar de l’oro, ove l’India confina,
     Vengon le gente armate tutte quante.
     La prima schiera con molta roina
     Mena Archiloro il Negro, che è gigante;
     La seconda conduce una regina,
     Che non ha cavallier tutto il levante
     Che la contrasti sopra della sella,
     Tanto è gagliarda, e ancor non è men bella.

29 Marfisa la donzella è nominata,
     Questa ch’io dico; e fo cotanto fiera,
     Che ben cinque anni sempre stette armata
     Da il sol nascente al tramontar di sera,
     Perché al suo dio Macon se era avotata
     Con sacramento, la persona altiera,
     Mai non spogliarse sbergo, piastre e maglia,
     Sin che tre re non prenda per battaglia.

30 Ed eran questi il re de Sericana,
     Dico Gradasso, che ha tanta possanza,
     Ed Agricane, il sir de Tramontana,
     E Carlo Mano, imperator di Franza.
     La istoria nostra poco adietro spiana
     Di lei la forza estrema e la arroganza,
     Sì che al presente più non ne ragiono,
     E torno a quei che gionti al campo sono.

31 Con romor sì diverso e tante crida
     Passato han Drada, la grossa riviera,
     Che par che il cel profondi e se divida.
     Dietro alle due venìa l’ultima schiera;
     Re Galifrone la governa e guida
     Sotto alle insegne di real bandiera,
     Che tutta è nera, e dentro ha un drago d’oro.
     Or lui vi lascio, e dico de Archiloro,

32 Che fo gigante di molta grandezza,
     Né alcuna cosa mai volse adorare,
     Ma biastema Macone e Dio disprezza,
     E a l’uno e l’altro ha sempre a minacciare.
     Questo Archiloro con molta fierezza
     Primeramente il campo ebbe assaltare;
     Come un demonio uscito dello inferno
     Fa de’ nemici strazio e mal governo.

33 Portava il Negro un gran martello in mano,
     (Ancude non fu mai di tanto peso),
     Spesso lo mena, e non percote in vano:
     Ad ogni colpo un Tartaro ha disteso.
     Contra di lui è mosso il franco Uldano
     E Poliferno, di furore acceso,
     Con due tal schiere, che il campo ne è pieno;
     Ciascuna è cento millia, o poco meno.

34 E quei duo re, non già per un camino,
     Ché l’un de l’altro alora non se accorse,
     Ferirno al Negro nel sbergo acciarino,
     E quel si stette di cadere in forse,
     E fu per traboccar disteso e chino;
     Ma quel ferir contrario lo soccorse,
     Ché Poliferno già l’avea piegato,
     Quando il percosse Uldano a l’altro lato.

35 Sopra alle lancie il Negro se suspese,
     Ma già per questo di colpir non resta;
     Però che il gran martello a due man prese,
     E ferì il Poliferno nella testa,
     E tramortito per terra il distese.
     Poi volta l’altro colpo con tempesta,
     E nel guanciale agionse il forte Uldano,
     Sì che de arcione il fie’ cadere al piano.

36 Quei re distesi rimasero al campo.
     Passa Archiloro e mostra gran prodezza;
     Come un drago infiammato adduce vampo,
     Ed elmi, scudi, maglie e piastre spezza,
     Né a lui si trova alcun riparo o scampo:
     Tutta la gente occide con fierezza;
     Fugge ciascuno e non lo può soffrire.
     Vede Agricane sua gente fuggire,

37 E volto a Orlando con dolce favella
     Disse: - Deh! cavalliero, in cortesia,
     Se mai nel mondo amasti damisella,
     O se alcuna forse ami tuttavia,
     Io te scongiuro per sua faccia bella,
     (Così la ponga amore in tua balìa!):
     Nostra battaglia lascia nel presente,
     Perch’io doni soccorso alla mia gente.

38 E benché te più oltra non cognosca
     Se non per cavallier alto e soprano,
     Da or ti dono il gran regno di Mosca,
     Sino al mar di Rossia, che è l’Oceano.
     Il suo re è nello inferno a l’aria fosca:
     Tu ve il mandasti iersira con tua mano;
     Radamanto fo quel, di tanta altura,
     Che col brando partisti alla cintura.

39 Liberamente il suo regno ti dono,
     Né credo meglio poterlo alogare,
     Ché non ha il mondo cavallier sì bono,
     Qual di bontate ti possa avanzare:
     Ed io prometto e giuro in abandono
     Che un’altra volta me voglio provare
     Teco nel campo, per far certo e chiaro
     Qual cavalliero al mondo non ha paro.

40 Più che omo me stimava alora quando
     Provata non avea la tua possanza;
     Né mi credetti aver diffesa al brando,
     Né altro contrasto al colpo de mia lanza;
     Ed odendo talor parlar de Orlando,
     Che sta in Ponente nel regno di Franza,
     Ogni sue forze curavo io nïente,
     Me sopra ogni altro stimando potente.

41 Questa battaglia e lo assalto sì fiero
     Che è tra noi stato, e l’aspere percosse
     Me hanno cangiato alquanto nel pensiero,
     E vedo ch’io sono om di carne e d’osse.
     Ma domatina sopra de il sentiero
     Farem la ultima prova a nostre posse;
     E tu in quel ponto o ver la mia persona
     Serà del mondo il fiore e la corona.

42 Ma or ti prego che per questa fiata
     Andar me lascia, cavallier, sicuro;
     Se alcuna cosa hai mai nel mondo amata,
     Per quella sol te prego e te scongiuro.
     Vedi mia gente tutta sbaratata
     Da quel gigante smisurato e scuro,
     E s’io li dono, per tuo merto, aiuto,
     Serò in eterno a te sempre tenuto. -

43 A benché il conte assai fosse adirato
     Pel colpo recevuto a gran martìre,
     E volentier se avesse vendicato,
     Alla dimanda non seppe disdire,
     Perché uno omo gentil e inamorato
     Non puote a cortesia giamai fallire.
     Così lo lasciò Orlando alla bona ora,
     Ed aiutarlo se proferse ancora.

44 Esso, che aiuto non cura nïente,
     Come colui che avea molta arroganza,
     Volta Baiardo ch’è tanto potente,
     Ed a un suo cavallier tolse una lanza.
     Quando tornare il vide la sua gente,
     Ciascun riprese core e gran baldanza;
     Levasi il crido e risuona la riva:
     Tutta la gente torna, che fuggiva.

45 Il re Agricane alla corona d’oro
     Ogni sua schiera di novo rasetta;
     Lui davanti se pone a tutti loro
     Sopra a Baiardo, che sembra saetta,
     E forïoso vòlto ad Archiloro;
     Fermo il gigante in su duo piè lo aspetta
     Col scudo in braccio e col martello in mano,
     Carco a cervelle e rosso a sangue umano.

46 Il scudo di quel negro un palmo è grosso,
     Tutto di nerbo è di elefante ordito.
     Sopra di quello Agrican l’ha percosso,
     Ed oltra il passa col ferro polito;
     Per questo non è lui de loco mosso.
     Per quel gran colpo non se piega un dito,
     E mena del martello a l’asta bassa:
     Giongela a mezo e tutta la fraccassa.

47 Quel re gagliardo poco o nulla il stima,
     Benché veggia sua forza smisurata,
     Né fo sua lancia fraccassata in prima,
     Che egli ebbe in mano la spada affilata,
     E col destrier che di bontade è cima,
     Intorno lo combatte tutta fiata;
     Or dalle spalle, or fronte, mai non tarda,
     Spesso lo assale, e ben de lui se guarda.

48 Sopra a duo piedi sta fermo il gigante,
     Come una torre a cima de castello;
     Mai non ha mosso ove pose le piante,
     E solo adopra il braccio da il martello.
     Or gli è lo re di drieto, ora davante,
     Sopra a quel bon destrier, che assembra uccello;
     Mena Archiloro ogni suo colpo in fallo,
     Tanto è legiero e destro quel cavallo.

49 Stava a vedere e l’una e l’altra gente,
     Dico quei de India e quei di Tartaria,
     Sì come a lor non toccasse nïente,
     Ma sol fosse da duo la pugna ria.
     Così sta ciascadun queto e pon mente,
     Lodando ogniuno il suo di vigoria:
     Mentre che ciascun guarda e parla e cianza,
     Mena Archiloro un colpo di possanza.

50 Gettato ha il scudo, e il colpo a due man mena,
     Ma non gionse Agrican, ché l’avria morto;
     Tutto il martello ascose ne l’arena.
     Ora il gigante è ben gionto a mal porto:
     Callate non avea le braccie apena,
     Che il re, qual stava in su lo aviso scorto,
     Con tal roina il brando su vi mise,
     Che ambe le mane a quel colpo divise.

51 Restâr le mane al gran martello agionte,
     Sì come prima a quello eran gremite;
     Fu po’ lui morto di taglio e di ponte,
     Ché ben date li fôr mille ferite;
     E parve a ciascun vendicar sue onte,
     Perché egli uccise il dì gente infinite.
     Agricane il lasciò, quel segnor forte,
     Non se dignando lui darli la morte.

52 Sì che fo occiso da gente villane,
     Come io ve ho detto, e ogniom fésseli adosso.
     Poi che l’ebbe lasciato, il re Agricane
     Urta Baiardo tra quel popol grosso,
     E pone in rotta le gente indïane,
     Con tal ruina che contar nol posso.
     Quel re li taglia e sprezali con scherno,
     E già son gionti Uldano e Poliferno.

53 Questi duo re gran pezzo sterno al prato
     Sì come morti e fuor di sentimento,
     Ché ciascuno il martello avea provato,
     Come io ve dissi, con grave tormento.
     Or era l’uno e l’altro ritornato,
     E sopra all’Indïan, con ardimento,
     De il colpo ricevuto fan vendetta,
     E chi più può, col brando e Nigri affetta.

54 Non fanno essi riparo, ad altra guisa
     Che se diffenda da il fuoco la paglia;
     Agrican lor guardava con gran risa,
     Ché non degna seguir quella canaglia.
     Or sappiati che la dama Marfisa
     Ben da due leghe è longi alla battaglia;
     Alla ripa del fiume sopra a l’erba
     Dormia ne l’ombra la dama superba.

55 Tanto il core arrogante ha quell’altiera,
     Che non volse adoprar la sua persona
     Contra ad alcuno, per nulla mainera,
     Se quel non porta in capo la corona;
     E per questo ne è gita alla rivera,
     E sotto un pin dormendo se abandona;
     Ma prima, nel smontar che fie’ di sella,
     Queste parole disse a una donzella,

56 (Era questa di lei sua cameriera):
     Disse Marfisa: - Intendi il mio sermone:
     Quando vedrai fuggir la nostra schiera,
     E morto o preso lo re Galafrone,
     E che atterrata fia la sua bandiera,
     Alor me desta e mename il ronzone;
     Nanzi a quel ponto non mi far parola,
     Ché a vincer basta mia persona sola. -

57 Dopo questo parlare il viso bello
     Colcasi al prato, e indosso ha l’armatura;
     E come fosse dentro ad un castello,
     Così dormiva alla ripa sicura.
     Ora torniamo a dire il gran zambello
     De li Indïani, che di alta paura
     Vanno a roina, senza alcun riguardo,
     Sino alla schiera de il real stendardo.

58 Re Galafrone ha la schiuma alla bocca,
     Poi che sua gente sì vede fuggire;
     Ben come disperato il caval tocca,
     E vôl quel giorno vincere, o perire.
     La figlia sua, che stava nella rocca,
     Lo vide a quel gran rischio di morire,
     E temendo de ciò, come è dovuto,
     Al conte Orlando manda per aiuto.

59 Manda a pregarlo che senza tardanza
     Gli piaccia aiuto al suo patre donare;
     E se mai de lui debbe aver speranza,
     Voglia quel giorno sua virtù mostrare;
     E che debbia tenire in ricordanza
     Che dalla rocca lo puotria guardare;
     Sì che se adopri, se de amore ha brama,
     Poiché al iudicio sta della sua dama.

60 Lo inamorato conte non si posa,
     E trasse Durindana con furore,
     E fie’ battaglia dura e tenebrosa,
     Come io vi conterò tutto il tenore.
     Ma al presente io lascio qui la cosa,
     Per tornare a Ranaldo di valore,
     Qual, come io dissi, dentro un bel verziero
     Vide giacersi al fonte un cavalliero.

61 Piangea quel cavallier sì duramente,
     Che avria fatto un dragon di sé pietoso;
     Né di Ranaldo si accorgea nïente,
     Perché avea basso il viso lacrimoso.
     Stava il principe quieto, e ponea mente
     Ciò che facesse il baron doloroso;
     E ben che intenda che colui se dole,
     Scorger non puote sue basse parole.

62 Unde esso dismontava dello arcione,
     E con parlar cortese il salutava;
     E poi li adimandava la cagione
     Perché così piangendo lamentava.
     Alciò la faccia il misero barone:
     Tacendo, un pezzo Ranaldo guardava,
     Poi disse: - Cavallier, mia trista sorte
     Me induce a prender voluntaria morte.

63 Ma per Dio vero e per mia fè ti giuro,
     Che non è ciò quel che mi fa dolere;
     Anzi alla morte ne vado sicuro,
     Come io gissi a pigliare un gran piacere;
     Ma solo ene al mio cor doglioso e duro
     Quel che morendo mi convien vedere;
     Però che un cavallier prodo e cortese
     Morirà meco, e non vi avrà diffese. -

64 Dicea Ranaldo: - Io te prego, per Dio,
     Che me raconti il fatto come è andato,
     Poi de saperlo m’hai posto in disio,
     Veggendo il tuo languir sì sterminato. -
     Alciò la fronte con sembiante pio
     Quel cavallier che giacea sopra il prato,
     E poi rispose con doglioso pianto,
     Come io vi conterò ne l’altro canto.