[St. 23-26] |
libro i. canto xvi |
291 |
Orlando gli menò d’un gran riverso
Ad ambe man, di sotto alla corona,
E fu il colpo tanto aspro e sì diverso,
Che tutto il capo ne l’elmo gli intona.[1]
Avea Agricane ogni suo senso perso;
Sopra il col di Baiardo se abandona,
E sbigotito se attaccò allo arcione:
L’elmo il campò, che fece Salamone.
Via ne lo porta il destrier valoroso;
Ma in poco de ora quel re se risente,
E torna verso Orlando, furïoso
Per vendicarse a guisa di serpente.
Mena a traverso il brando roïnoso,
E gionse il colpo ne l’elmo lucente:
Quanto puote ferire ad ambe braccia,[2]
Proprio il percosse a mezo della faccia.
Il conte riversato adietro inchina,
Chè dileguate son tutte sue posse;
Tanto fo il colpo pien di gran roina,
Che su la groppa la testa percosse;
Non scia se egli è da sera, o da matina,
E benchè alora il sole e il giorno fosse,
Pur a lui parve di veder le stelle,
E il mondo lucigar tutto a fiammelle.
Or ben li monta lo estremo furore:
Gli occhi riversa e strengie Durindana.
Ma nel campo se leva un gran romore,
E suona nella rocca la campana.
Il crido è grande, e mai non fo maggiore:
Gente infinita ariva in su la piana
Con bandiere alte e con pennoni adorni,
Suonando trombe e gran tamburi e corni.
- ↑ P. introna.
- ↑ MI, Mr. pote; P. potè.