Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo VIII
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L’AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo VIII)
Mi riuscì in poco tempo di far moltissime conoscenze. I Veneziani sono assai ben veduti per tutta la Lombardia. Io era il primo Veneziano entrato in quel Collegio, dopo la fondazione. La gioventù, l’allegria naturale portata dal mio Paese, la lingua piacevole Veneziana, un poco di estro poetico e, sopra tutto, il genio comico, che non poteva stare celato, mi facilitavano le amicizie e l’ingresso. Non credo che Collegiale al mondo sia mai stato tanto contento, quant’io lo era. Arrivato il mese di Giugno, in cui cominciano le vacanze, e durano sino al mese di Ottobre, partii cogli altri, m’imbarcai sul Ticino, e per la via del Po giunsi a Chiozza a consolare i miei Genitori, contenti di rivedere il Sig. Abbate loro figliuolo, non male iniziato nell’Instituta di Giustiniano. Avrebbero voluto, che io avessi occupato il mio tempo nel ripassare le mie lezioni, ed avevami proveduto mio Padre di una Persona capace di mantenermi nell’esercizio legale, ma io voleva profittare delle vacanze per abbandonarmi allo studio delle Commedie. Rilessi tutto il mio Ciccognini1), e cominciai a conoscere le bellezze e i difetti di quell’Autore, che se nato fosse nel nostro secolo, avrebbe avuto il talento di far delle cose buone. Lessi il Faggiuoli; vi trovai la verità, la semplicità, la natura, ma poco interesse e pochissima arte, e i suoi riboboli fiorentini m’incomodavano infinitamente. Mi capitò alla mano la Mandragora di Niccolò Macchiavelli. Oh quella sì, che mi piacque. La divorai la prima volta, la rilessi più volte, e non poteva saziarmi di leggerla. Non era certamente che mi allettasse, nè l’argomento lubrico, nè le frasi amorose, nè le licenziose parole, ma mi parea di riconoscere in quella Commedia maravigliosa quell’arte, quella critica, quel sapore ch’io non aveva gustato nell’altre. Mio Padre mi trovò sul fatto ch’io la leggeva, me la strappò dalle mani, volea abbruciarla, e l’avrebbe fatto, se non fosse arrivata a tempo mia Madre per impedirlo. Ella che amava tutto quello che mi piaceva, e che credeva ben fatto tutto quel ch’io faceva, prese talmente a difendermi, che ne successe un dialogo riscaldato fra Marito e Moglie. Disse finalmente mio Padre, che il libro era scandaloso e proibito, che trattava d’amori illeciti e di abuso di confessione. Mia madre allora si mostrò un poco turbata, mi guardò bruscamente e mi disse: Perchè briccone, perchè leggere di cotai libri? Poi voltandosi a suo Marito: L’avrà fatto, soggiunse, senza malizia. Mio figlio è buono, va spesso al confessionale, ed aveva appena quattr’anni, che diceva meco l’ufficio della Madonna. La Commedia non fu abbruciata, vollero sapere da chi io l’aveva avuta, e stupirono, sentendo la persona rispettabile che me l’aveva data. Per poco mia Madre non mi diede la permissione di leggerla.
Giunto il tempo di ritornare al Collegio, m’imbarcai col Corriere di Modona, e fui colà raccomandato da mio Padre ad un suo Cugino, che faceva gli affari nostri. Alloggiai nella nostra casa antica di quel Paese, ch’era affittata ad uno che ne faceva locanda, indi mi fu provveduta una sedia fino a Pavia. Alzatomi per tempo la mattina ch’io doveva di là partire, e passeggiando la sala per aspettare il calesso, venne la Serva di casa a tenermi un poco di compagnia. Costei era giovine e non era brutta. Nè ella era sfacciata, nè io libertino, ma il demonio ci aveva presi tutti e due talmente, che la scena avrebbe finito male, se non fosse venuto il vetturino a picchiare all’uscio. La Giovane era talmente accesa, che voleva partir con me ad ogni patto. Io mi trovava nel maggior imbarazzo del mondo. Finalmente alzatosi il Padrone di casa, per augurarmi il buon viaggio, si allontanò la Serva, piangendo. Cercai di rivederla col pretesto di volerle dare la mancia. La chiamarono, venne colle lagrime agli occhi. Le offersi mezzo filippo, e l’amorosa Giovane, lagrimando, lo prese. Ella fece il suo mestiere in quell’atto, ed io feci il mio. Ella cedè all’interesse; io cedetti alla riflessione. La scena mi parve comica, ne ho fatto nota, e me ne sono poscia servito.
Montato in calesso, esaminai la mia borsa, e vidi che in otto giorni l’aveva estenuata. Non ne aveva colpa la povera Serva, poichè aspettò all’ultimo giorno per dichiararsi.
Arrivato a Reggio all’osteria della Posta, inesperto com’era, non aveva coraggio di proseguire2 il mio viaggio. Mi rimproverava di non aver domandato a Modona nuovi soccorsi a chi avea la incombenza di darmene. Volea tornare indietro, ma temendo che in tale risoluzione vi avesse parte la buona Serva, pensai meglio di proseguire il cammino fino a Piacenza, per dove avea una lettera di mio Padre, diretta al Consigliere Barilli, Fratello di quel Barilli, che fu il Cognato di mio Avo patemo.
Giunto colà, non tardai a portarmi al suo albergo, ed a presentargli la lettera. Mi accolse assai gentilmente, m’invitò seco a pranzo, ed io accettai l’invito con gran piacere, meditando di cogliere un buon momento, per domandargli qualche danaro in prestito fino a Pavia. A tavola eravamo in sei, e non ardii di parlarne. Dopo tavola mi fece passar nel suo gabinetto, e senza ch’io facessi parola del mio bisogno, ecco qual discorso mi tenne: Figliuolo mio, diss’egli, sono assai avanzato negli anni. Poco ancor posso vivere, e vorrei morire tranquillo. Io credeva ch’ei volesse lasciarmi erede. Ho trovato, proseguì dicendo, ho trovato ne’ fogli, ch’io aveva un debito con quel galani’uomo di vostro Avo di trecento scudi di Modona. Mi sovviene d’avergliene dati a conto, ma non mi sovviene la somma. Se voi voleste ricevere cento scudi...... io dissi di sì senza dargli tempo di terminare. Aspettate, mi disse, non ho finito di dire. Può essere che questi cento scudi sieno di più di quel ch’io devo, e può essere che siano di meno. Fatemi il piacere di scrivere a vostro Padre.... quì cominciai un poco a turbarmi. Ma, soggiunse, facciamo così, perchè in questo tempo potrei morire. Ricevete voi questi cento scudi..... l’ascoltai con grande attenzione. Riceveteli, e fatemi una ricevuta per saldo di tutto quello, che io dovessi..... Sì Signore, sì Signore, gridai, è giusto, ben volentieri. Voi poscia, soggiunse egli, scriverete al Sig. Giulio, e gli scriverò anch’io, e spero che accorderà il fatto, e confermerà la quietanza, che voi mi farete. Senz’alcun dubbio, risposi, senza alcun dubbio. Ed eccolo, che mi conta in belli e grossi filippi cento scudi di Modona, che sono quattrocento lire di Venezia. Mi sovviene ancora, che facendo la ricevuta mi tremava la mano, parte per l’allegrezza di intascar il danaro, parte per la paura ch’ei si pentisse, tenendo sempre un occhio alla carta, su cui scriveva, e l’altro ai filippi, ch’egli contava. Finalmente i filippi passarono nelle mie mani, feci i miei complimenti all’onoratissimo Consigliere; partii contento, scesi la scala a due gradini per volta, consumai il resto della giornata passeggiando per la Città, e la mattina dopo avviatomi per Pavia, vi giunsi felicemente la sera.
Passai colà con piacere, e dirò anche con qualche maggior profitto, questo secondo anno. Feci qualche progresso nello studio legale, con poca fatica, egli è vero, ma eccitato da una certa facilità naturale, di cui poteva fidarmi. Non potendo esercitarmi in allora nello studio delle Commedie, mi diedi a quello della Poesia. Non sono mai stato bravo Poeta, ma ho sempre avuto dell’estro, dell’immaginazione e della vivacità. Tutti quei che si addottoravano in quel tempo in quella Università, ricorrevano a me per aver dei Sonetti di lode, ed io profondea le rime e le lodi egualmente. Il mio Protettore, il Sig. Marchese Senatore Goldoni, venne per una causa del Senato di Milano a visitare alcune acque nel territorio Pavese; mi fece l’onore di farmi andare con esso lui per alcuni giorni; credeva io di farmi un gran merito leggendogli le mie Poesie, ma in luogo di lodarmi il saggio Senatore mi disse che la Poesia era una seduzione, una distrazione dagli studi, e che aspettava di consolarsi, quand’io le3 avessi presentata una Dissertazione legale. Restai un poco mortificato, ma Dio volesse che lo avessi meglio ascoltato. Ritornando a Pavia, con qualche vanità per altro per l’onorevole villeggiatura che aveva fatta, cercai di farla valere, per promuovere dell’invidia ne’ miei compagni, e può essere che da ciò principiasse l’inimicizia di alcuni di essi, che contribuì poi a rovinarmi nell’anno appresso. Ritornata la stagione della partenza, avea destinato di passare a Milano, e di colà trattenermi in casa del Protettore sino all’Ottobre, ma una compagnia assai piacevole mi distornò dal progetto, e mi fece risolvere di portarmi a Venezia. Era morto in Milano il Salvioni, Residente in quella Città per la Repubblica Serenissima di Venezia. Il suo equipaggio era imbarcato a Pavia in un delizioso burchiello, condotto dal suo Mastro di casa. Aveva egli dato l’imbarco a cinque o sei Veneziani di estrazione civile, di umore allegro, che suonavano varj strumenti. Mi proposero di accompagnarmi con esso loro; accettai il partito, e in fatti non si può immaginar un viaggio più allegro, più comodo e più delizioso. Mettevasi piede a terra tutte le sere. Piantavasi dappertutto una festa da ballo, si passava la notte in divertimento, e il giorno si viaggiava e si dormiva comodamente. Passai a Chiozza, dove stavano i miei genitori, ma in vece di colà arrestarmi, tirai di lungo fino a Venezia, per non lasciare una compagnia sì piacevole. Tutti i dì nel burchiello sacrificava una o due ore alla descrizione in versi del nostro viaggio, e questa mi valse, regalandola ai cari amici, per una specie di riconoscenza alle finezze, che mi avevano praticate.
Restai qualche tempo a Venezia. Mio Padre se ne dolse, mia Madre venne a trovarmi, e seco lei mi condusse a Chiozza. Feci colà un Panegirico in lode di San Francesco d’Assisi, e fu recitato con qualche applauso da un Cherico, che aveva buona memoria. Feci una quantità di Sonetti, che non valevano niente, ma che l’età, in cui era, li facea parer qualche cosa; ma quello in che riuscii meno male, furono alcuni Dialoghi comici per alcune Fanciulle in un Monastero. Alla metà di Settembre ripresi il cammino verso Pavia, non per la via di Modona, ma per quella di Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Milano. Mio Padre mi accompagnò fino a Padova, mi consegnò ad un vetturino conosciuto ed accreditato, e questi prese l’impegno di condurmi sino a Milano. Uscito dalle porte di Padova, e staccato dal mio Genitore amoroso, vidi che il vetturino erasi accompagnato con un altro suo camerata, che aveva una sola persona nel suo calesso, come io era solo nel mio. Erano tutti e due di ritorno, non è maraviglia che si contentassero di una sola persona per ciascheduno. Vidi che la persona dell’altro era una donna, e mi parve non fosse il Diavolo. Smontati alla prima osteria per rinfrescare non i cavalli, ma i vetturini, scesi velocemente dalla mia sedia, e andai a dar braccio a Madama. Ella mi accolse assai gentilmente, ed io proposi che in luogo di occupare la metà di due calessi, se ne poteva occupare un solo. Ella vi acconsentì facilmente, e i vetturini ancora, accordandosi fra di loro, che trovando de’ passeggieri, avrebbero diviso per metà il guadagno, e non trovandone, avrebbero un giorno per uno attaccati i loro cavalli alla nostra sedia. Tutti quelli che c’incontravano per la strada, guardavano con attenzione per entro il nostro calesso; io non sapea concepirne il perchè; la Donna, di me più accorta, mi disse che probabilmente ne era causa il mio collarino, e ch’io avrei dovuto levarmelo. Mi parve ch’ella dicesse bene, m’accorsi ch’io aveva ancora del zotico4, e mi arresi al di lei consiglio. Se il viaggio, ch’io aveva fatto sul Po5, mi riuscì piacevole, questo lo fu per me ancora più; ma non voglio lasciar di narrare un fatterello curioso, che mi è accaduto nella terra di Desenzano. Tutti quelli che hanno fatto quel viaggio, andando e venendo di Milano, sanno, quanto me, che tutti si fermano a Desenzano, che vi è una buonissima osteria sopra il lago di Garda, dove si suol mangiare del pesce esquisito, e dove si tratta bene ed a poco prezzo. Eranvi in quella sera colà alloggiati moltissimi Passeggieri, ed io e la mia compagna di viaggio non potemmo avere che una sola camera con due letti, che furono religiosamente occupati uno per ciascheduno. Dormiva io saporitamente, quando tutto in un tempo mi risvegliarono alcune voci sì forti e sì riscaldate, che mi obbligarono nel momento medesimo a balzar dal letto, come era. Vidi al chiaror della Luna una Donna in camiscia con una pistola alla mano, ed un uomo in ginocchio, che a lei si raccomandava. Confesso il vero, questo spettacolo non mi diè gran piacere, e mezzo assonnato ancora, non sapea ne distinguer gli oggetti, ne concepirne il motivo.
La Donna, ch’era la sopraddetta mia compagna di viaggio, rivoltasi a me, ecco, mi disse, ecco uno scellerato, che per la ringhiera, che circonda l’appartamento, e entrato in camera per la finestra, e fortunatamente per noi, mi sono svegliata in tempo ch’egli si approssimava al mio letto. Egli è un ladro, che venia per assassinarci.... Ah no, gridò colui in ginocchioni, non sono un ladro, non son qui venuto con quest’indegna intenzione: confesso la verità, ho arrischiato tutto, per profittar di una bella donna..... Come!, esclamò la mia brava eroina, un villano, che puzza di cucina o di stalla può concepire sopra di me un tal disegno? Alzò la pistola, così dicendo, più offesa forse di un tal progetto, che dell’immagine di un assassinio. Le trattenni il braccio, impedii il colpo, ma rinfrancandomi io pure contro quel ribaldo; No, gli dissi, non è possibile che tu sia qui venuto con questo fine, poiché saper dovevi che vi era io........ Odesi in questo mentre picchiare all’uscio, corro ad aprire. L’Oste, che aveva sentito lo strepito, venia col lume, e seguitato da tre de’ suoi Camerieri. Conobbero il temerario per un garzone di stalla, capace di essersi introdotto egualmente, e per la donna, e per i danari; lo presero per le braccia, si lasciò condur senza far parola, nè so cosa sia di esso seguito. So bene ch’io ebbi la parte mia di paura, ch’io ringraziai la mia valorosa compagna, e che passammo il resto della notte tranquillamente.
Giunti a Milano, ci separammo alla Porta; ella andò all’osteria del Falcone, io andai a scendere alla casa del Senatore. Stetti colà cinque giorni, ne’ quali non mancai alla gratitudine, ch’io doveva alla mia compagna, ed ella mi rese il contraccambio politamente, venendomi, dopo qualche tempo, a ritrovare a Pavia.
Eccomi il terzo anno in Collegio; colà potea restare sett’anni, dovea colà addottorarmi, dovea stabilirmi a Milano, goder i frutti della protezione del Senatore, e divenir qualche cosa di buono, in un Paese, dove un poco di sapere e un poco di buona condotta può far fortuna. Ma tutto miseramente precipitai; diedi un cenno della mia Ragazzata nella Prefazione del Tomo quinto di questa edizione; ecco il momento di pubblicarla, per far conoscere che il genio Comico non arriverà mai a farmi tanto di bene, quanto in quell’occasione mi ha fatto di male.
Le Scuole, come già dissi, in Pavia non sono altrimenti costituite nei rispettivi Collegi, ma nella pubblica Università, dove tutti i collegiali si rendono, e ciò li mette in necessità di uscire ne’ giorni di studio, e a poco a poco hanno introdotto il costume di uscir quando vogliono, e andar dove loro piace, purché escano e rientrino accompagnati a due a due almeno, e si trovino in casa all’ora del pranzo ed al tramontare del sole. Una tal libertà, per dir il vero, un poco troppo eccedente e pericolosa, fa sì che questi Giovani s’introducono facilmente per tutto, e le case de’ Cittadini ne sono piene. Godono i Collegiali all’incirca il privilegio e la fortuna de’ Militari. Sono più coraggiosi e più liberi de Paesani, e le giovani Donne li preferiscono, ma quando sono essi obbligati ad andarsene, le Donne sono costrette a rivogliersi6 ai Cittadini, alcuni de’ quali profittano della piazza vacante, e alcuni altri si vendicano col disprezzarle. Ciò fa che fra i Collegiali e i Terrieri vi è un astio perpetuo, una inimicizia giurata; e da ciò ancora procede che alcune Giovani, rese più caute dall’esperienza, ricusano i loro favori a questi amanti volubili e passeggieri. Io fui nel caso di questi. Lasciata nell’anno avanti una bella con cento proteste di fedeltà e con impegno di coltivar di lontano la nostra corrispondenza, mi scordai di scriverle, e ritornato a Pavia, pretesi di riprendere il posto, che io aveva, in buona coscienza, demeritato, e che ad un Pavese era stato giustamente e con miglior intenzione accordato.
Piccatasi per ciò più la vanità che l’amore, feci parte del mio dispetto a’ miei amici e compagni, ed essi accordarono meco essere necessaria una vendetta per l’onore de’ Collegiali. Fra i varj eroici progetti fu preferito un afhronto al nemico, ma cedendo la prudenza al calore, fu pubblicato il disegno pria di eseguirlo7, ed arrivato alle orecchie del Superiore, ebb’io il sequestro per otto giorni in Collegio. Qui è, dove la collera, il puntiglio e la falsa meditazione mi riscaldarono la fantasia, e qui è dove in mio danno il genio comico principiò a lavorare.
Aveva fresca ancor la memoria di quanto avea Ietto ne’ buoni Autori intorno ai tre generi di Commedia: antica, mezzana e moderna. Mi ricordai che la prima non era che una cosa informe, tratta per altro da fatti veri, e con nomi veri di persone assai conosciute, che noi diremmo piuttosto presentemente: Una Satira dialogata. Questo è il genere di Commedia, che allora io scelsi per isfogar la mia collera e per vendicarmi. L’intitolai il Colosso.
V’introdussi dodici persone coi loro nomi, e come i primi inventori di cotal genere di Commedia andavano colla faccia coperta di creta, pubblicando e cantando le loro satire qua e là sopra delle carrette, io aveva divisato nel carnovale una mascherata, in cui da Attori incogniti m’immaginava di poterla far pubblicare, lusingandomi, assai pazzamente, di non esseme io scoperto l’Autore.
Ma la leggierezza, la vanità, l’amor proprio m’indussero a communicarla agli amici, o per meglio dire, a quelli che io prendeva per tali, e servendosi alcuni di essi della mia dabbenaggine, me la levarono dalle mani e la pubblicarono immediatamente. Per meglio farmi conoscere e meglio accreditare l’opera di mia mano, vi posero in fronte un Sonetto, ch’io aveva composto in altra occasione e in cui vi era espresso, ed in rima, il mio nome, il mio cognome e la mia Patria, onde pareva che a bello studio lo avessi fatto per pubblicarmi sfacciatamente l’autore di quella Satira. La cosa si divulgò, senza che io lo sapessi; i maligni se ne compiacquero; gl’indifferenti mi condannarono, e gli offesi mi volevano morto. Ho camminato due giorni colla vita in pericolo senza saperlo. Fui avvertito che m’insidiavano, e stetti in guardia per qualche tempo. Giunse frattanto a Pavia il Superiore del Collegio, chiamato espressamente da Voghera per questo. Non era più il Bemerio, ma lo Scarabelli, poiché il primo era passato all’altra vita, sei mesi avanti.
Aveva per me questo nuovo Prefetto tutto l’amore e tutto l’impegno, poiché egli dipendea in qualche modo dal Senatore Goldoni. Mi chiamò, appena giunto, nella sua camera, mi rimarcò assai pateticamente il fallo ch’io aveva commesso, mi fece ancora più arrossire, dicendomi che fra le persone, ch’io avea maltrattate, eravi compresa una sua Nipote, e finì per dirmi che la città tutta era contro di me sollevata, che il Collegio era obbligato a sagrificarmi, e che per salvarmi la vita non vi era altro rimedio, che farmi partire segretamente. Lascio considerar al Lettore qual io restassi in quel punto, veggendomi nella dura necessità di dover partire, con poco onore e colla perdita totale di tutte le mie speranze. Lo supplicai colle lagrime agli occhi di non lasciar nulla intentato per rimediarvi, si commosse, me lo promise, operò quanto gli fu possibile di operare, ma nulla si ottenne. Spedì un espresso a Milano al Senatore Goldoni, impiegò l’autorità del Marchese Ghislieri, quella per fino del Senatore Erba Odescalchi, in allora Podestà o sia Governator di Pavia. Tutti si mossero in mio favore, ma tutti inutilmente. Dodici famiglie offese ne attiravano a sé un gran numero colle amicizie e le parentele. La causa era diventata comune, ed io doveva essere sagrificato. Restai quindici giorni in Collegio, con proibizione di uscire, e non sarei uscito, potendo, perchè mi premeva salvar la pelle. Un giorno finalmente, che era caldissimo, nel mese di Maggio, mentre i Collegiali erano a pranzo nel refettorio, venne il Prefetto nella mia camera, e mi intimò la partenza in quel momento medesimo. Il baule era fatto da qualche giorno, lo spedi subito avanti, al Ticino, ed io scortato dallo spenditor del Collegio, e da quattro uomini per mia difesa, giunto alla riva del fiume, m’imbarcai in un battello coperto, e in meno di due ore di tempo arrivai al Po ad una barca, che aveva scaricato del sale. Mi cacciarono sotto la poppa della barcaccia, lo spenditore diede al Padrone i suoi ordini segretamente, poi ritornato a vedermi, mi pose in mano del danaro involto in una carta; mi disse che tutto era pagato fino a Chiozza, che quel poco danaro mi avrebbe servito per qualche piccola spesa, mi augurò il buon viaggio, e se ne andò con Dio. Restai lunga pezza afflitto, dolente, mortificato; cento cose tetre, lugubri mi venivano in mente, e non aveva forza di spirito per arrestarmi in alcuna. Pure, fra tanti tristi pensieri, trovò luogo la curiosità di vedere che danaro mi aveva dato lo spenditore. Apro il foglio, (oh sorpresa!) ritrovo dentro dell’oro, conto i zecchini e li trovo quarantadue. Quarantadue gigliati in quell’occasione, mi pareano un tesoro. Io credetti un prodigio, e siccome avea ragion di temere, che prevenuto mio Padre da qualche lettera di Pavia, mi avrebbe accolto assai bruscamente, pensai sul momento medesimo di prendere un’altra strada; mi venne in mente di andare a Roma, e mi preparava a lasciar la barca, tosto ch’io avessi potuto mettere piede a terra. Ma come, dicea fra me stesso, come mai si è consigliato il buon uomo a darmi questi zecchini? Se il viaggio è pagato, io non avea bisogno di tanto, e se dovessi ancora pagare il viaggio, mi basterebbe assai meno. Sapeva, che mio Padre aveva dato degli ordini, perchè mi fosse somministrato il bisognevole, ma i suoi commissionarj non erano mai stati sì generosi. Credetti per un momento che questo potesse essere un resto di danaro inviato a Pavia da mio Padre, ma riflettei poco dopo ch’ei non era ne sì ricco, ne sì prodigo, ne sì diligente. Stava immerso in queste considerazioni, quando sento chiamarmi per nome. Alzo gli occhi e vedo lo spenditore. Cominciò a battermi il cuore, e gli domandai per qual novità ritornava egli dopo due ore: Signore, la novitade è questa, (mi disse) ho sbagliato nel darvi il pacchetto. Vi ho dato quarantadue Zecchini, che avea in saccoccia per pagare un debito del Collegio. Favoritemi ì miei gigliati, e prendete qui questi trenta Paoli, che sono per voi destinati. In così dire, mi mette in memo l’involto, a poco presso della stessa grandezza. Io aveva i zecchini in mano, e con un sospiro li rendo. Li vuol contare, mi pare un affronto; mi dice: La non si scaldi; mi saluta e va a rimontare nel suo barchetto. Cominciai allora nuovamente a riflettere sopra tutte le mie disgrazie. Aveva in tasca quel maladetto libretto, ch’era stato la cagion della mia rovina; era l’unica copia che io ne aveva; lo stracciai in mille pezzi, e dopo quel tempo non l’ho mai più riavuto, ne più mi son curato di averlo. Mi è restato soltanto il rossore ed il pentimento di averlo fatto. Compresi allora il danno ch’io aveva recato a me stesso, e l’ingiustizia ch’io aveva commessa verso degli altri. Questo ultimo riflesso mi si attaccò talmente al cuore, che per più e più mesi non sapea raflegrarmi di cosa alcuna, e non passava notte, che con sogni torbidi e spaventosi non mi sentissi inquietare. Oh, orribile maldicenza! Pagherei anche in oggi una porzion del mio sangue, se si potesse scancellare del tutto dalla mia memoria un tal fatto. Voglia Dio almeno, che a Pavia non se ne ricordino ancora; se mai per avventura alcuno se ne ricordasse, se alcuno degli offesi si sovvenisse ancora di questa mia leggierezza, gli chiedo perdono e lo prego di non negarmelo. Quella è stata la prima satira, che ho avuto l’ardir di fare, ed è stata l’ultima. Mai più mi è venuto in mente di farne, ed ho sempre aborrito di leggerne. Ne sono state fatte contro di me, che ho sofferte pazientemente per castigo di averne fatta una nell’età di diciott’anni.
Tornando alla mia situazione d’allora, restai sì afflitto e mortificato, ch’io non aveva coraggio di sortir di dov’era. Venuta la sera, mandò il Padron della barca ad annunziarmi la cena. Ricusai di andarvi, e domandai un materasso per coricarmi. Da lì a qualche tempo, veggo accostarsi qualcheduno alla poppa, e sento una voce, che dice pateticamente: Deo gratias. Questi era un Padre Domenicano, che dovea colla stessa barca viaggiar meco verso Venezia. Mi obbligò di uscire, mi obbligò di cenare, procurò consolarmi, e ritornai un poco più tranquillo, dopo la cena, al riposo. La mattina seguente mi trovai parecchie miglia lontano, e non vedea l’ora di prendere terra, deliberato dentro di me di voler andarmene all’avventura. A quest’effetto unii della biancheria e qualche libro, con animo di portar meco il fardello e rendere tutto il resto.
Giunti a Piacenza, domandai di sbarcare; ma il Padrone della barca, che aveva avuto le sue istruzioni, me lo impedì, e mi obbligò di restar prigioniero fino a Chiozza, dove ei doveva consegnarmi a mio Padre. Fortunatamente per me, non vi si ritrovava al mio arrivo. L’accomodai con mia Madre, ed ella poi fu la mia protettrice all’arrivo del Padre. Il religioso Domenicano contribuì molto ad ottenermi il perdono. Vero è che mi ha costato i miei trenta Paoli, e qualche libro, e qualche camiscia, ma non lasciai di profittare dell’occasione per conoscere davvicino il carattere di Ottavio nel Padre di famiglia, e di Pancrazio nei due Gemelli.