Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo IX
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L’AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo IX)
Avvenne poco dopo, che mio Padre passò da Chiozza ad Udine, città che se non è la capitale, è almeno la più grande e la più popolata di quella Provincia, che chiamasi la Patria del Friuli; e non fidandosi di lasciarmi senza di lui, mi condusse seco. Esercitava egli al solito l’arte sua medica, ed a ciò non iscordassi io totalmente il poco che avea imparato a Pavia, mi raccomandò all’ornatissimo Signor Dottore Morelli1, celebre Leggista e valoroso Avvocato di quel paese, il quale coll’occasione che instruiva un Nipote suo nelle Leggi, ammetteva qualche altra persona alle sue lezioni, e mi fece partecipe degli eruditi suoi insegnamenti. Confesso di aver profittato più sotto di lui in poco tempo, di quel ch’io abbia fatto nel Collegio e nell’Università per tre anni, ma l’animo mio, ad altri studj inclinato, non mi lasciò profittare abbastanza. Il Teatro era la solita mia distrazione. Ma giunta poi la Quaresima, rivolsi ad uso sacro la Musa profana. Predicava dall’insigne pulpito del duomo di detta Città il Padre Jacopo Cataneo, Agostiniano Scalzo Milanese. Fui a sentirlo il dì delle Ceneri. Mi piacque infinitamente, e intesi che tutto il popolo lo applaudiva. Infatti, oltre il suo sapere, il suo zelo, la sua eloquenza, aveva una maniera di predicare, ed erano immaginate e tessute le di lui prediche diversamente dagli altri, con quell’aria di novità e con quel dilettevole artifizio, che (cambiata la materia) si usa ed è necessario nell’arte comica. Per prova di quel ch’io asserisco, parlerò della prima sua predica. Sogliono i Predicatori nel dì delle Ceneri far la predica della Morte. Egli quella facea del ben vivere, ed erano i tre punti della sua divisione:2 Vivere 1. più allegramente che si sa. 2. più lungamente che si può. 3. onoratamente come si deve. Non può negarsi, che non siavi della bizzarria nell’argomento e nelle proposizioni, ma la predica era maneggiata con sì buona morale e con sì forte dottrina, che valeva a persuadere, a convincere, a commovere e a dilettare. Dilettato anch’io (non so, se commosso e convinto), coll’ajuto di una memoria non infelice, ritenni in mente le parole della divisione suddetta, e tanto della sua predica che mi bastò per epilogarne in un Sonetto la principale sostanza.
Comunicai il mio Sonetto al Nobile Signore Lucrezio Trèo, erudito gentiluomo di quel Paese, e dotto ed elegante Poeta. Lodò il mio Sonetto, si diede anche la pena di correggerlo, e mi animò a continuare. Continuai di maniera, che andando tutti i giorni alla Predica e facendo tutti i giorni lo stesso, mi trovai al fine della Quaresima con tanti Sonetti, quant’erano state le Prediche del valoroso Oratore. Fatta quest’opera, l’amor proprio mi sedusse a stamparla, e fu seduzione piucchè consiglio, poiché io non sono stato mai buon Poeta, e i miei versi d’allora erano frutti immaturi di un albero per natura cattivo. Stampai la raccolta in un libricciuolo composto di trent’otto Sonetti, altrettanti Epiloghi delle Prediche, che componeano il Quaresimale. Alla testa d’ogni Sonetto vi era l’argomento e la division litterale, e alla fine del libro un Sonetto diretto al Padre Cataneo Predicatore. Dedicai l’operetta agl’Illustrissimi Signori Deputati della Città di Udine, e fu colà stampata presso Gio. Battista Fongarino nell’anno 1726. Mio Padre, per animarmi, fece la spesa dell’edizione, e si regalarono gli esemplari. La Comunità in corpo accettò la dedica con gentilezza, e per dimostrazione di aggradimento mi venne offerta la Cittadinanza di quel Paese, che avrei accettata, se avessi avuto in animo di colà trattenermi. L’opera non valea gran cosa, ma l’età mia, la novità del pensiere, e la sollecitudine con cui ebbi l’arte di farla comparire alla luce, produssero un effetto mirabile, e ne riportai tutto quel plauso ch’io potea desiderare, e fui in appresso il ben veduto da tutti, e l’invidiato da qualcheduno. Non mi trattenni però colà lungo tempo, avendo poco dopo seguitato mio padre a Gorizia; ma mi trattenni colà tanto, che bastò per farmi incontrare due avventure bizzarre, che divertiranno il Lettore, che mi hanno dato motivo di conoscere davvicino alcuni di quegli artifizj donneschi che ho posti in iscena, e mi giustificheranno, se qualche volta ho caricato un poco la penna contro il bel sesso. Ecco la prima. Eravi poco distante dalla mia abitazione una giovinetta civile, bella, gentile ed altrettanto modesta. Mi piacque, e mi posi in capo di amoreggiarla. Se ne accorse la sua Cameriera, ch’era scaltra, maliziosa e di mala fede. Venne ella stessa a parlarmi per parte della Padrona, la quale appena mi conosceva, e non erasi accorta della mia inclinazione. Mi fece credere la scaltra donna, ch’io era corrisposto e felice. Mi trovò facile a prestarle fede, e mi persuase a far dei regali alla Padroncina. Mi domandò fra le altre cose un giojello di pietre false, che mi costò sei zecchini. Lo comprai, glielo diedi; lo vidi al collo della signora, a cui la serva lo avea venduto per tre zecchini. Faceami andar sotto le finestre la sera, promettendomi che avrei parlato alla Padroncina.
Eravi questa effettivamente, ma vi era ancora la Cameriera. Ella avea dato ad intendere ch’io era il suo innamorato, e tutte due di me si burlavano. Finalmente la misi al punto di farmi avere qualche maggior sicurezza. Mi disse due giorni dopo, ch’io mi trovassi un certo giorno determinato in casa di una Lavandaja poco lontano dalla Città. Vi andiedi, pieno di quel foco che arde la Gioventù. Vi trovai la Cameriera sola. Trovò de’ pretesti, e in fine mi domandò per lei stessa quella corrispondenza che avrei voluto accordare alla sua Padrona. Mi mosse a sdegno, e mi pose in sospetto. Comunicai il mio caso ad una brava donna, pratica del mestiere, e in grazia di uno zecchino che le promisi, seppe ella sì bene condursi con la Cameriera, che le cavò di bocca il segreto. Allora usai anch’io dello stesso artifizio. Finsi di esser disposto ad accordarle corrispondenza, la feci andare dalla medesima Lavandaja, e là mi ricattai delle sue menzogne con tutte quelle ingiurie, che la mia collera mi ha suggerite. Ella non faceva che ridere, ed accordare senza scomporsi, cosa che mi avrebbe portato a rompere negli eccessi, se non avessi avuto timore di render pubblica la mia dabbenaggine e di farmi ridicolo nel Paese.
Per guarir d’una malattia, mi esposi ad un’altra. Ecco la seconda avventura. Mi posi a vagheggiare la figlia di un Caffettiere, men bella e meno prudente dell’altra. Le cose si avanzarono3 a segno, ch’ella mi diè l’accesso in casa, in tempo di notte. Era assente suo Padre ed un suo Fratello, e non eravi in casa che la Figlia, la Madre ed una Serva, tutte tre d’accordo per attrapparmi. Ardì ella di farmi passar all’oscuro dalla camera di sua Madre, per entrar nella sua. Io che non era pratico della casa, restai di sasso, quando, condotto per mano dalla figliuola, sentii la voce della Madre, ch’era nel letto, e che domandolle, o finse di domandarle, dove andava a quell’ora. Rispose ella ch’era andata a bere dell’acqua, e che ritornava nella sua camera. Così dicendo, mi fece animo colla destra, perch’io la seguissi; tremante, com’era, urtai una sedia, feci dello strepito, e la Madre credette, o finse di credere, che fosse stata la figlia. Entriamo nell’altra, dove ci aspettava la Serva, affinchè la modestia non avesse a soccombere. La Madre, fingendo d’insospettirsi, si alzò e accese il lume. Qual fu la mia sorpresa nel veder lume nella camera della Vecchia? La Giovine dal canto suo fingeva di essere intimorita, io volea discendere per la finestra; ma il salto mi parve troppo azzardoso. La Madre chiamò, picchiò all’uscio; persona non voleva rispondere. Diede la Vecchia due colpi assai leggieri alla porta, che essendo debole e mal chiusa, si aprì. Andò di primo lancio ad assalire la Figlia. La Serva, senza dir parola, sortì. Io mi posi in difesa della Giovine, che sapeva piangere e disperarsi. La Madre si rivolse contro di me; volea sollevare il vicinato colle sue strida, e l’unico modo per acquietarla fu il farle credere ch’io volessi sposare la sua Figliuola, Allora cambiò di tuono, poiché tutte le smanie non tendevano che a questo fine. L’ora era tarda per ritornarmene a casa, la buona Vecchia mi offrì il suo letto, ed io l’accettai. La mattina mi diede da colazione, e mi ricordò la promessa. E come io aveva impiegata la notte in ben riflettere sul mio caso, e sul carattere di tai persone, delusi l’arte con l’arte. Andai il giorno dopo a ritrovar mio Padre a Gorizia; gli confidai il mio caso, e trovò egli il modo di liberarmene.
Gorizia è città del Friuli Austriaco, distante da Udine, se ben mi ricordo, dodici o quattordici miglia. Fu chiamato colà mio Padre per ordine di Sua Eccellenza il Signor Conte Francesco Lantieri4, una delle più illustri Famiglie di quel Paese e della Germania, il quale sosteneva l’importante carico di Capitano, cioè di Governatore dell’armi di quella Provincia, non meno che della Carnia e d’altre ancora adiacenti. Soffriva questo degno ed amabile Cavaliere una cronica malattia d’urina, ed informato, che mio Padre avea particolare esperienza, e cognizione per questi mali, volle essere medicato da lui, e lo condusse al suo Castello di Vipacco, dove ebbi anch’io la fortuna di seguitarlo, e dove si godette per lo spazio di cinque mesi la più amena, la più deliziosa villeggiatura. Caccie, pesche, giardini, conversazioni, cavalcate, feste, giochi, tripudi, niente mancava alla sontuosità del soggiorno. Cercai anche io di contribuire al divertimento col genio comico che m’inspirava. Eravi un Teatrino di bambocci. Io era il Capo di questi Attori di legno, e si recitarono delle Commedie. Terminata la cura con soddisfazione dell’ammalato, ed avuta mio Padre una generosa ricompensa, lasciammo il Friuli, e si ritornò alla residenza di Chiozza, dove era rimasta mia Madre, e dove aspettavaci ella con ansietà. Dopo qualche tempo, mio Padre mi mandò a Modona a terminare i miei studj con animo di addottorarmi. Colà mi riprese fieramente la malattia de’ vapori5 effetti ipocondriaci crudeli, onde abbandonai lo studio, e credendo ad ogni momento dover morire, mi diedi alla divozione. Mio Padre lo seppe; egli era uomo dabbene, ma non bacchettone, e mi volea Cristiano, ma non santocchio. Mi richiamò egli a Chiozza, vi andiedi per obbedienza, e in aria penitente, e col collo torto, gli dissi che io mi sentiva inspirato di farmi Frate. Conobbe egli meglio di me che i miei vapori erano la mia inspirazione. Ne fece anche la prova, cercando di divertirmi; e un mese dopo, non si parlò più nè di Chiostro, nè di Cappuccio.
Era in quel tempo Podestà, cioè Governatore di Chiozza, Sua Eccellenza il Signor Francesco Bonfadini di gloriosa ricordanza, degnissimo Cavaliere, Patrizio Veneto, che morì poi prestantissimo Senatore, alla di cui nobilissima, e gentilissima Dama Sposa dedicata è la Donna di garbo, che è la prima Commedia di questo stesso Volume. Era il suo Cancellier Criminale il Sig. Egidio Zabottini di Castelfranco, uomo integerrimo, e di gran concetto in tal professione, ed era suo Coadiutore il Sig. Stefano Porta, della Città di Feltre, Giovane di abilità, e d’illibati costumi. Mio Padre, che aveva la maniera di farsi amare, ebbe la fortuna di acquistarsi la protezione del Cavaliere, e l’amicizia del Ministro, onde accordarono fra di loro ch’io entrassi in quella Cancelleria, sotto la direzione del Zabottini, ed associato al Porta. Vi entrai senza saper un principio di tal mestiere, ed in tre o quattro mesi di tempo me ne impossessai intieramente, dimodochè il Coadiutor principale facea lavorar me volentieri per sollevarsi dal peso, il Cancelliere era di me contento, e il Podestà mi prese a proteggere con particolar affezione. La facilità ch’io trovai in una professione che par difficile, derivò dal piacere ch’io sentia nell’esercitarla. Pareva ch’io fossi nato per questa sola. Proposi di mai più abbandonarla, ma si vedrà in appresso per qual ragione l’abbandonai. Non potendo io in tal impiego esercitar il mio genio comico, parevami di essere soddisfatto con un esercizio che insegna più di ogni altro a conoscere il cuore umano, ed a scoprire la malizia e l’accortezza degli uomini. L’esame de’ Testimonj, per lo più maliziosi o interessati, e ancora più l’esame de Rei, mette in necessità di assottigliare lo spirito per isviluppare la verità.
Faceami specie ne’ primi tempi vedere un uomo attaccato alla corda, e doverlo esaminare tranquillamente, come vedesi nel Frontispizio di questo tomo; ma si fa l’abito a tutto, e malgrado l’umanità, non si ascolta che la giustizia e il dover dell’impiego. Quello che mi recava ancor più diletto, e metteva in impegno il mio spirito, era l’epilogo de’ Processi, con cui dovevasi informare il Giudice, che dovea pronunziar la Sentenza. L’operazion non è facile, poiché conviene esattamente pesare i termini per non aggravare le colpe in pregiudizio del Reo, e non isminuirle in detrimento della Giustizia. Quest’era la parte, in cui io riusciva il meglio, e tanto il mio Cancelliere fu di me contento, che terminato il Reggimento di Chiozza, passò egli a quello di Feltre, e mi volle seco per primo suo Coadiutore, col titolo di Vice Cancelliere. Era il nostro Podestà, o sia Governatore in detta Città, l’Eccellentissimo Signor Paolo Spinelli, Patrizio Veneto, Cavaliere umanissimo, ottimo Giudice, e di angelici esemplari costumi. Feltre è Città piccola, montuosa, situata nella Marca Trivigiana, Provincia dello Stato Veneto. Ella è antichissima, conosciuta sino ai tempi di Giulio Cesare, di cui dicesi sia quel verso:
Feltria perpetuo nivium damnata rigori.
In questa Città non vi sono ricchezze, ma non vi è miseria; il terreno è fertile, la gente laboriosa, ma non ha alcun commercio, a cagion della sua situazione lontana da ogni navigazione. Vi è molta nobiltà, antica e colta. Vi si fanno delle bellissime villeggiature. La caccia è abbondante, e i frutti sono squisiti, fra quali sono ricercatissime le noci Feltrine, come fra le biade riesce colà perfettamente il grano di Turchia, che ridotto in farina gialla, e di farina gialla in polenta, serve di nutrimento ai poveri e di piacere ai ricchi. Io non mi scorderò mai di un Paese, dove sono stato sì bene accolto, e dove ho soggiornato sedici mesi col maggior piacere del mondo. Due cose contribuirono alla mia intiera soddisfazione. La buona Compagnia, che ho sempre amata e desiderata, ed un Teatro nel palazzo medesimo del Podestà, di cui mi pareva poter disporre. In fatti non tardai ad usarne. Legata amicizia con que principali Signori, divisai di unire una Compagnia di giovani dilettanti per recitarvi, e mi riuscì l’intento. Si recitarono due Drammi di Metastasio, la Didone e l’Artaserse, e vi recitai io medesimo. Come io era il distributor delle parti ed il direttore dello spettacolo, scelsi per me le ultime parti e mi riservai di comparire un po’ meglio negl’Intermezzi, che composi io medesimo; e questa è la prima volta ch’io esposi qualche cosa del mio sul Teatro, e là principiai a gustare il piacer dell’applauso e del pubblico aggradimento. Due furono gl’intermezzi in allora da me composti, uno comico e l’altro critico. Il primo era intitolato Il Buon Vecchio, e consisteva in tre personaggi: Un Pantalone, Padre semplice, una Figlia accorta ed un Amante intraprendente. Io faceva quest’ultimo Personaggio, mascherato con diversi abiti, e coll’uso di più linguaggi, tutti però Italiani. Il secondo avea per titolo La Cantatrice. Conoscea sin d’allora l’arte e il costume della maggior parte di queste Sirene armoniche, e delle loro Mamme, e ne feci un ritratto passabile, capace d’instruire e di divertire. Perduto ho poscia intieramente il primo Intermezzo, per la poca cura ch’io avea delle cose mie; ed avrei perduto anche il secondo, ma è stato esso da qualchedun conservato, e l’ho veduto, qualch’anno dopo, rappresentare in Venezia col titolo della Pelarina, che significa in Veneziano una Donna, che pela, cioè che pilucca gli amanti: e come l’intermezzo riuscì in Venezia felicemente e altri se ne avea fatto merito, e ne avea ricavato non poco utile, dissi anch’io col poeta:
Sic vos non vobis, etc.
In questo per me sì amabile divertimento, passai in Feltre felicemente l’Inverno e parte della Primavera. L’Estate poi trovai la mia delizia nelle Villeggiature, allora quando mi permettea il mio Ministero di profittarne, e talvolta la Carica stessa me ne fomia l’occasione per visitare i tagli de’ roveri, proibiti dalle leggi, o per esaminare persone, che non poteano venire in Città. Potea mandarvi qualche mio sostituto, ma preferiva il piacere di andarvi io stesso, ed arrischiai più volte la vita, internandomi tra le foreste, occupate da Contrabandieri e Banditi, contro de’ quali eseguiva la mia spedizione. Mi sovviene aver fatto una volta un giro di dodici giorni, ma accompagnato da altre dieci persone, uomini e donne d’allegria6, ed ottima compagnia. In questi dodici giorni non si è mai pranzato e cenato nel medesimo luogo, e non si è mai toccato il letto la notte. Dove arrivavasi, erano feste, allegrie, pranzi, e cene, e divertimenti. Non voglio ommettere un tratto comico dell’egregio Sig. Vettor Faggen Gentiluomo Feltrino, quello che sostenne mirabilmente nei miei Intermezzi il personaggio di Pantalone. Arrivammo alla di lui campagna improvvisamente, e di notte. L’imbarazzò una truppa di gente, che col seguito de’ Servitori consisteva in venti persone. Rimediò alla cena coi polli del suo cortile, ma sprovveduto, per accidente, di pane, e lontano da ogni luogo per provvederne, trovò l’espediente di far in modo che il poco pane bastasse. Fece scaldare il forno, fe biscottare il poco pane che aveva, e Io ridusse a tale secchezza, che non potendo essere mangiato, ne restò sulla tavola. Io pubblico questo segreto per chi si trovasse nel caso di prevalersene. Nè a caso ho parlato di questo viaggio piacevole, poichè per me è stato di conseguenza. Tra le persone, che componevano sì deliziosa truppa, ve ne era una che meritava assai, e mi piaceva moltissimo. Acquistai in tal occasione la sua buona grazia, e a tal segno, che parlossi poco dopo di Matrimonio, e sarebbe stata mia Moglie, se avessi potuto farlo senza il consentimento di mio Padre, dal quale ho sempre voluto dipendere. Trovavasi egli in allora non più a Chiozza, ma a Bagnacavallo, Terra grossa dello Stato della Chiesa, situata nella Legazione di Ferrara, dove aveva Egli ottenuto l’onorevole e lucrativo impiego di Medico Condotto, cioè da quel Pubblico stipendiato. Gli scrissi anche la mia intenzione, e mi rispose da Padre e da Amico, facendomi toccar con mano ch’io non era in istato di maritarmi, non avendo ancora terminato il corso delle Cancellerie per divenir Principale, e divenir decorosamente Marito e Padre. Feci vedere la lettera alla giovane non solo, ma ai Parenti suoi, e conclusero tutti che avrebbero aspettato il tempo, e ch’io doveva sposarla. Mi cade ora a proposito di rammemorare un fatto, che fece a me dell’onore, e aumentò l’attaccamento e la speranza della Figliuola e de’ suoi Congiunti. Un Giovane dipendente di quella casa ebbe che dire con un garzon bottegajo, e diedegli una ferita. Arrivommi nel medesimo tempo la querela del ferito, e la raccomandazione della Persona ch’io amava. Non potea servire all’amore e alla Giustizia, onde per non mancare nè all’uno, nè all’altra, pregai il mio Cancelliere di voler egli formare questo processo, ed intrapresi io di essere l’Avvocato difensore del Reo. La cosa riuscì si bene, che provando io la necessaria difesa, lo feci assolvere liberamente; e fu allora che il Cancelliere suddetto, ed il Signor Alessandro Novello di Castelfranco, degnissimo Vicario in quella Curia, e il Podestà medesimo e gli Avvocati della Città mi presagirono, che sarei ben riuscito nell’avvocatura criminale, come in fatti male non mi riuscì, quando in appresso mi trovai in grado di esercitarla.
Terminati i sedici mesi di quel Reggimento, mi convenne partire. Fu quella la prima volta ch’io conobbi la forza del vero amore, e la pena d’un violente distaccamento; ma fu forza di superarla, e partii con animo di ritornare a legarmi colla mia Bella. Passai a Venezia, mi trattenni colà qualche giorno, indi m’imbarcai col Corrier di Ferrara per andar da mio Padre, con animo di pregarlo e di persuaderlo, fidandomi nell’estrema tenerezza che aveva per me mia Madre. In quella barca, che chiamasi la Corriera, fra le molte persone che vi erano, trovavasi un certo giovane Padovano, di bella figura, ma di costumi indegni. M’invitò egli a giocare, ed io, che per mio malanno non ho mai saputo dire di no, accettai l’invito. Il gioco propostomi era un gioco innocente, chiamato il gioco di Cala Carte, in cui vince quello che è superiore nel numero delle carte che ha preso, e quello che trovasi avere più quantità di Spade, usando carte Italiane, o più quantità di Picche, usando carte Francesi.
Mescolava egli sì bene le carte, che ne faceva sempre al doppio di me, ed aveva sempre le Spade in mano. Mi rubbò, e me n’accorsi, ma non ardii di parlare. Arrivati a Ferrara, venne costui a trovarmi all’Osteria del San Marco, dove seppe ch’io mi trovava. Mi propose il solito divertimento. Io, facendo l’accorto, con un sorriso lo ringraziai. Mi esibì di giocare alla Bassetta. Io maggiormente m’insospettii, e ricusai. Soggiunse che s’io aveva qualche sospetto, potea tener io la banca e tagliare, ed avendo io solo le carte in mano, non aveva niente a temere. La voglia di ricattarmi del Cala Carte, e la poca esperienza di simili bricconate, mi fè cader nella rete. Si fece portar delle carte; posi il mio danaro su la tavola, e mi accinsi a tagliare; col pretesto che i giochi d’invito sono rigorosamente in tutto lo Stato della Chiesa proibiti, andò il Padovano a serrar la porta col chiavistello, e poi si assise e puntò. Il primo punto fu per me favorevole, e mi consolai. Il secondo venne per lui, mise il paroli e lo perdette; io giubilava dall’allegrezza. Al terzo taglio, mostrando collera e bestemmiando, volle egli mescolare le carte, e me le rese, dopo di averle ben mescolate. Io faccio il taglio, ed egli mi mette al banco, cioè a tutto il danaro ch’io aveva sulla tavola, ed era tutto quello ch’io aveva meco. Mi sgomenta il colpo, e non volea tenerlo. Salta in piedi, s’infuria, e a forza di bestemmie mi persuade ch’io era in obbligo di tener la posta; dico fra me: arrischiamo. Faccio il taglio, sfoglio le carte, viene il punto per me favorevole, allungo la mano per prendere il suo danaro, mi dice il bestemmiatore: fermate; prende con dispetto le carte ch’io avea sfogliato, ne trova, o per meglio dire, ne caccia destramente una di più e grida: Il taglio è falso, la carta è per me, il punto è mio, ho vinto e vuol prendere il mio danaro. Io lo voglio difendere, rimproverandolo di Barattiere, egli piccatosi dell’insulto, mette mano ad una pistola, ed io prudentemente gli cedo il campo. Prende egli allora il danaro e lo mette in tasca, poi mi dice politamente che gli dispiaceva un tale accidente, ch’era uomo di onore, e che in altra occasione avrebbe dato la mia revincita, e sempre giocando colla pistola. Aprì poscia la porta, mi salutò cortesemente e partì. Rimasi colà stordito, e rinvenuto poscia del mio stordimento, volea ricorrere alla Giustizia, ma pensai che essendo il gioco proibito, e soggetto alla stessa pena chi vince e chi perde, correa pericolo di essere carcerato e punito, onde presi il partito di non parlare. Nelle mie Commedie non mi sono scordato il mio Padovano, e di là ebbe origine quella collera, con cui mi sono scagliato contro del gioco nella mia Commedia del Giocatore, nella Bottega del Caffè ed in altre, nelle quali ho avuto occasion di parlarne.
Ricorsi ad un amico di mio Padre per aver del danaro, ed avuto il mio bisognevole, presi un calesso e me ne andiedi a Bagnacavallo, dove gli accoglimenti e gli abbracci de’ miei Genitori, e lo stato comodo e decoroso, nel quale li ritrovai, mi fecero svanir la melancolia, e mi consolarono pienamente. Restai colà qualche mese, non in altro occupato che a divertirmi; ma il povero mio Genitore cade ammalato di febbre7 maligna, ed in pochi giorni morì: e la di lui morte causò una totale rivoluzione ne’ miei affari ed un cangiamento totale; come vedrai, Lettor carissimo, nel Tomo seguente, se avrai la bontà e la sofferenza di leggere. Dirò solamente qui di passaggio, che la lontananza, il tempo e le mie circostanze mi fecero a poco a poco scordare la mia bella Feltrina, e credo abbia ella fatto lo stesso dal canto suo, poiché dopo cinque o sei mesi non ho più inteso parlarne.