Novelle d'ambo i sessi/Il topo di biblioteca
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IL TOPO DI BIBLIOTECA.
Nel tardo autunno dell’anno 19.. il professor Fulai, appartenente allo Stato Maggiore dell’alta cultura, era alquanto preoccupato.
Il signor Sigismondo Fulai era ancora un imponente uomo. La sua salute era regolare; i suoi denti erano regolari e sorridevano con grazia e sopportazione. La sua testa, benchè contenesse una biblioteca (un’altra biblioteca del pari ordinatissima esisteva in casa, primo piano nobile, verso giardino), incedeva eretta, con bel dondolamento. La sua voce era pacata e soave, la sua pelle era rasata, le sue scarpe scricchiolavano eleganti e sempre lucide per opera di Battista.
Battista (e non il Battista) era il nome del suo domestico, il quale dava col piumino contributo alle schede; ed era giunto a conoscere i libri della biblioteca dalle rilegature dei medesimi.
*
Ora per cause tuttora ignote, nel tardo autunno del detto anno, i topi avevano invasa la biblioteca; quella del primo piano verso giardino; e questa cosa era preoccupante.
Feroci, inafferrabili, questi malvagi topi avevano perpetrato guasti notevoli. Un incunàbolo — ad esempio — , l’Ars Moriendi con rarissime silografie di Lorenzo Coster d’Harlem, era stato rosicchiato. V’era poi il topo burlone, che era andato a mettere il nido proprio dentro l’armadio della camera da letto del signor Professore, e da mezzanotte all’alba, durava con uno sgretolamento così tenace che a giudicare dal fracasso doveva essere un bestione come il gran Maligno. Durava tutta la notte quel lacerante rumore, e se per caso cessava, ciò non avveniva che per un raffinamento di crudeltà: appena il signor Professore si assopiva, e lui ricominciava.
— Che ne dite, Battista, della mia congettura che sia lo stesso topo che ha deturpato le silografie del Coster?
Molto egli odiava codesto topo, quasi come odiava quei falliti che chiamavano lui topo di biblioteca; perchè il professor Fulai era gentile sì, ma velenosetto.
Che se egli stava nelle biblioteche ed archivi, — come del resto il chimico sta nel gabinetto e l’astronomo nella specula, — non si pensi per questo che egli fosse come uno di quegli antichi nostri arruffati umanisti che si diceano intenti a risuscitare i morti. Fulai era, anzi, mondanetto, nè privo con le dame di amàbili arguzie: tutt’al più riusciva ad addormentare i vivi.
*
— Battista, — diceva al suo fidato domestico, — questa invasione di topi è preoccupante. Nell’armadio vi deve essere poi un enorme mus decumanus.
— Signore, — diceva Battista, — la gatta della portinaia ha figliato. Mi sono fatto tenere due micini che ancora prendono il latte. Attenda qualche giorno, e poi vedrà che il solo odore del gatto manderà via i topi.
— Voi credete?
— Certamente, e intanto provvederò con qualche trappola.
— Oh, egregiamente pensato! — disse il Professore.
E Battista collocò alcune trappole; due nella libreria ed una nell’armadio, e le fornì di buon’esca.
Ora, una notte, il signor Professore sente che l’orribile rumore è cessato di botto: poi sente un nuovo, ma piccolo, curioso rumore.
— Tu se’ giunto! — esclamò dantescamente il signor Professore; e mette fuori le gambe dal letto, infila le pantofole, apre la corrente della luce, apre, infine, l’armadio e vede un piccolo quid caudato, che s’agitava vorticosamente attorno per la trappola.
Era il maligno topo! Possibile che fosse lui solo e così piccolo? Sì, un solo, minuscolo topolino, perchè, spenta la luce, non si udì altro rumore più.
— Apollo Sminteo non ti salverà, — pensò il signor Professore, e voleva ora dormire: ma era ormai mattutino e i vetri segnavano il lividore del giorno autunnale. Ah, possedere un nemico in gabbia, sia esso uomo o topo, e poterne far strazio senza alcun pregiudizio, è tal cosa da far perdere il senno. Il Professore scese dal letto, prese la trappola e, alla luce del giorno, esaminò il suo nemico.
Il topolino si rivolse a preghi, e disse: “O Professor, per lo tuo Iddio, non esser sì crudel..„.
Ma il Professore prese un puntuto tagliacarte, e due o tre volte trapassò le sbarre della trappola, ma non colse il suo nemico, onde ne ebbe dispetto.
— Attendi e vedrai nuovo ludo! — disse, ed affocò il tagliacarte alla fiamma di una candela; ma sebbene sapesse a menadito tutti i duelli di Ranaldo e di Ferraguto, non riuscì neanche allora ad infilzare il topolino.
Se non che il topo aveva, per sua mala ventura, la coda e questa sporgeva fuori della trappola. Il Professore, che si era intanto riscaldato nel combattimento, capì senz’altro il vantaggio che si poteva ricavare da quella coda; e benchè con ribrezzo, la prese, tirò, ed immobilizzò il topolino, che, intelligente anche lui, si agitava furibondamente con la parte del corpo non immobilizzata per meglio schermirsi; e intanto digrignava e scopriva l’apparecchio formidabile, in tanta sua piccolezza, degli acuminati denti. Le due pupille, poi, quelle due capocchie nere, balenavano la disperata rabbia. Ma il Professore, al contrario dei cavalieri antichi che per onor di cavalleria colpivano davanti, colpì di dietro perchè era più facile. Il ferro rovente penetrò, e uscì allora da quel topo uno strido lacerante. Il topo si abbattè: batteva convulsamente i piccoli denti. Sussultava ogni tanto nel piccolo corpo, che si gonfiava e si comprimeva: poi i sussulti cessarono.
Allora il signor Professore ebbe l’idea di uccidere un topo morto. Ma “cortesia fu lui esser villano„!
Levò il topo dalla trappola, e sospèsolo per la coda, ne lasciò cadere la testolina puntuta, orecchiuta, dai feroci baffi, su la fiamma della candela.
Fu allora che il topo dimostrò al Professore che non è tutta fantasia quello che si legge dei cavalieri antichi, i quali per quanto si martellassero, non erano mai ben morti.
Al contatto della fiamma, il topo scattò, si rivoltò in su. Fu lesto il Professore a lasciare andare la coda; ma più balenante fu la mossa del topo, ed il Professore ebbe per un orribile istante la visione, e anche la sensazione, dell’abominevole topo sospeso coi denti al suo dito pollice.
*
— Battista, non avete voi dell’acido borico? — suonò questa insolita voce nel corridoio silenzioso.
Battista, quando il signore chiamava, aveva ordine di portare il caffè al signore, che lo sorbiva a letto; e di non parlare se non per qualche speciale avvenimento meteorologico, successo durante la notte.
Ora quella mattina, Battista, accorrendo, vide il signore già alzato, in mutande rosee, presso i vetri, occupato a scrutare il suo dito pollice.
No, egli non aveva dell’acido borico.
— Ebbene, recatevi alla più vicina farmacia e fatevi dare un potente disinfettante.
Battista sparì, e poco dopo rientrò, ma desolato: il farmacista non poteva dare potenti disinfettanti senza l’ordinazione del medico. Poteva dare il lysoform; e Battista rientrava, infatti, con una latta contenente il detto lysoform, antisettico potente, di grato odore, non velenoso: distrugge tigna, scabbia, scarafaggi, lumaconi, come era dichiarato nella dicitura. Il signor Professore lavorò con molta pazienza intorno al suo dito pollice, con molto di quel disinfettante, finchè Battista si permise di avvertire il signore che se voleva recarsi all’inaugurazione del Sanatorio, era tempo di cominciare a vestirsi.
In quel giorno, infatti, alle ore dieci, si inaugurava il Sanatorio provinciale dei tubercolosi con l’intervento di un sottosegretario di Stato nonchè di tutti i personaggi rappresentativi della città e provincia, in tuba e redingote. Il professore Fulai rappresentava l’alta cultura e perciò anche lui doveva intervenire. Il senatore X*** si era spostato apposta da Napoli, ed avrebbe parlato. Una dozzina di automobili impazienti trasportò queste tube e queste redingotes attraverso il grigio della campagna spoglia, a dodici chilometri dalla città, dove in una posizione, che tutti giudicarono “oh, splendida!„, sorgeva il Sanatorio. Poi le tube nere e le redingotes nere girarono in lunga fila per le corsie, abbaglianti di bianchezza; ammirarono il gran loggiato, esposto a mezzodì, esclamarono molte esclamative ammirazioni, che significavano: “Come staranno bene qui i signori tubercolosi!„. Quindi il senatore X*** fece un quadro grandioso della tubercolosi o peste bianca. Portò dati statistici impressionanti, rispetto ai quali le statistiche dei morti nelle grandi battaglie sono una ben lieve cosa; poi entrò nella parte polemica, riguardante la cura della detta infermità, e questa seconda parte entusiasmò il pubblico dei sanitari.
Ma il professor Fulai era posseduto da un’insolita agitazione. Quelle statistiche di morti, quelle piramidi di morti, quell’edificio bianco in cui dovevano abitare i condannati a morte, gli producevano un’insurrezione di immagini funerarie. Vedeva le logge popolate dalle file dei tubercolosi immobili; la foresta funeraria dei pini; la spera infaticabile del sole che gl’infermi saluteranno senza sapere se la rivedranno ancora. Quella festosa polemica dei signori medici gli parve una mostruosa cosa, una lacerante contraddizione.
In condizioni normali il professore Fulai non avrebbe avvertito nulla di tutto questo: egli non sarebbe morto nè in guerra, nè tubercoloso: dunque la cosa non lo riguardava. Tutt’al più sarebbe morto come Francesco Petrarca, con un codice in mano, per effetto di un soffio soave, come si spegne una candela.
Ma in quel giorno egli non si trovava in condizioni normali, e perciò percepiva cose che comunemente non si percepiscono. Gli pareva che gli dolorasse il dito pollice.
Che strana agitazione crescente! Ah, finalmente è finita quella lugubre conferenza: finalmente egli si può muovere! Vede che tutte quelle redingotes sono festanti; tutti vanno a complimentare l’oratore. Ma Fulai guarda il sole che, dal basso arco del cielo, rompe la bruma autunnale, si proietta su la gran corona nera dei pini, sull’edificio bianco.
Al ritorno, in automobile, egli si trovò proprio di fronte al commendatore G***, direttore del laboratorio farmacologico dell’Università. Il commendatore G*** era molto infervorato con un suo collega a commentare il discorso del senatore X***: "Straordinario! — diceva. — Vero, professore (si rivolgeva a Fulai), che anche dal lato letterario, è stato uno splendido discorso?„.
Ma la presenza di quel farmacologo e batteriologo aveva suscitato nel professor Fulai una smània spasmodica di interrogarlo su la esistenza dei microbi; come infettano l’organismo, come si procede alla disinfezione, alla cauterizzazione in caso di morsicature; sull’efficacia del lysoform.
— Ah, il lysoform? — Tutti quei tre medici ridevano ironicamente sul lysoform. — Molto efficace, commercialmente.
— Allora la cauterizzazione? — domandò Fulai.
— Io non credo che tale pratica sia raccomandabile, — rispose l’illustre farmacologo. — Vi sono dei virus che, appena trenta ore dopo l’innesto, sono già passati irremissibilmente ai centri....
— Ma scusi, commendatore, io ho letto che il torrente sanguigno si muove con una maggiore lentezza.... — si permise Fulai di osservare.
— Ma non tutti i virus, caro signore, si propagano attraverso il sangue. Il virus rabbico si propaga, ad esempio, attraverso i nervi e non attraverso il sangue. Le morsicature nelle parti scoperte, come la faccia, o i polpastrelli delle dita, che sono ricchissimi di filamenti nervosi, permettono la invasione dei centri in meno di trenta ore. Oh, Dio! io non posso mica fare un trattato di batteriologia qui in automobile....
Il professor Fulai non parlò più: non per effetto di quelle parole, cioè che il “virus rabbico si propaga attraverso i nervi„ ma per uno choc gelido, immobilizzante. Da quello choc — come da nube nera nel cielo — si scatenò un ciclone. Era un’idea unica cresciuta d’improvviso, a dismisura: mostruosa idea che girava attorno vorticosamente nella scatola cranica di lui, come il topo nella trappola: girava sradicando, traendosi dietro tutte le idee della vita consueta. “Ferma!„ diceva Fulai. Orribile tortura invisibile! Non poteva fermare. Non esistevano più freni nella scatola cranica.
A casa, l’ottimo Battista aveva preparato la solita igienica e delicata colazione; ma la zuppa raffreddava: e tre volte blandamente aveva bussato alla porta dicendo:
— Signore, è in tavola.
Ma il Professore era con le pupille fisse su di un dizionarietto, dove era scritto: Rabbia (Rabies): malattia virulenta, comune all’uomo e a certi animali, cani, lupi, gatti, ecc., manifestantesi con sintomi nervosi, poi con sintomi di depressione e terminante con la morte.
— Battista! — si sentì chiamare Battista con voce insolita, — avete voi trovato un topo morto nella mia camera?
— Sì, signor padrone.
— E dove è?
— È nella pattumera.
— Ebbene, quel topo bisogna ritrovarlo nella pattumera e portarmelo, — disse con raccapriccio, — e se non ci riuscite voi, chiamate un uomo dell’arte.
Battista, dopo mezz’ora di lavoro fra le immondezze, aveva trovato.
— Ah! bene. Non voglio vedere: mettete in una scatola.
Poco dopo un uomo usciva frettolosamente di casa: esso portava la sua morte nella tasca del suo paltò.
*
Il basso edificio rosso, nuovo, dove era scritto in grandi caratteri: Istituto Antirabbico, sorgeva in mezzo ad un giardinetto, appena fuori della vecchia porta daziaria.
Fulai suonò ad una porticina che era semiaperta. Si presentò una pingue donna con le braccia nude e tutta coperta da un lungo camice bianco.
— Il dottor R*** c’è?
— C’è, ma non so se possa ricevere.
— Portate, portate questo, — e diede il biglietto di visita.
La donna scomparve: il Professore rimase solo nella stanza, bianca, nuda, soffocante dal calore e dall’odore dell’etere: nel mezzo, su di una lastra di vetro, sorgeva un apparecchio, e dentro l’apparecchio era fissato un coniglio, vivo, scorzato e sanguinante sul mezzo del cranio. Fulai rabbrividì.
— Entri pure: riceve, — disse la donna. La donna tornò al lavoro del coniglio.
Nel salottino attiguo dove entrò, il Professore vide il giovane elegante dottor R*** che si levava dal suo tavolo e diceva:
— A che debbo l’onore, signor Professore?...
Il Professore mostrò, per sorridere, tutti i denti bianchi. Volle parlare stando in piedi. Aveva un gran convulso.
— Un caso strano, — disse, — egregio dottore, un caso da romanzo, anzi da novella fantastica. (Proprio quello fra i generi letterari, per cui il signor Professore nutriva il maggior disprezzo.)
Egli dovette ben raccontare tutto, e tutto era giustificatissimo quando si pensi che i topi gli avevano rosicchiato quel prezioso incunàbolo dell’Ars Moriendi con le silografie di Lorenzo Coster d’Harlem.
— Va bene, ma scusi, — disse il dottore, che pur essendo assai giovane, parlava, o pareva al signor Professore che parlasse con una odiosa meticolosità dolciastra, proprio come lui, Fulai, era abituato di parlare, — come ha fatto questo topo a morderla?
— Io lo presi per l’appendice caudale, credendolo morto.
— Ma lei non doveva, mi perdoni, prenderlo per la coda! In altri termini, lei ha martoriato l’animale....
Era mortificante che un uomo così grande dovesse confessare di aver martoriato un animale così piccolo, ma siccome nella mente del Professore stava inchiodato il tremendo sospetto che i maltrattamenti avessero potuto provocare nel topo lo sviluppo della rabbia, così fu costretto a confessare.
— Il volgo crede infatti, — disse il dottorino, — che i maltrattamenti, la sete, l’astinenza sessuale possano ingenerare la rabbia. Ma non è opinione attendibile.
— E allora? — chiese il Professore, che, per la prima volta in sua vita, si vedeva mescolato col volgo.
— Allora per trasmissione, cioè per innesto. Bisognerebbe, quindi, supporre che il topo di cui si ragiona, fosse stato, alla sua volta, morsicato da un gatto già infetto, il che si presenta poco verosimile.
— Ma non è inverosimile, — azzardò timidamente Fulai.
— Non è inverosimile, — confermò il dottorino con una calma esasperante; eppure la calma era fra le virtù più pregiate da Fulai.
— Sì, ma l’origine prima del virus rabbico?... — domandò Fulai; e quelle due parole, virus rabbico, gli davano una pena che non le poteva proferire: si arrestava spaventato davanti a quelle due parole, come davanti ad un abisso.
— Quanto all’origine, — disse il dottorino con un sorriso a labbra sigillate, — lei ne sa più di me: felix qui potuit rerum cognoscere causam, come dice Lucrezio.
La citazione era per triplice verso inesatta, ma a Fulai — quel giorno — non importò niente.
— Quando è così, dottore, io posso essere autorizzato a credere che la rabbia possa svilupparsi negli animali irragionevoli anche sotto l’azione di qualche strazio fisico....
— Se le fa piacere, può anche credere così....
— Piacere...; scusi, anzi mi fa dispiacere: ma siccome non è del tutto irrazionale, dato il punto oscuro dell’origine di questo male, così ero venuto da lei per avere una prova indiscutibile, una prova di gabinetto....
— Ah, se le fa piacere, ben volentieri; ma occorre un reperto batterioscopico....
— Inoculare un coniglio come quello che ho visto là? — chiese il Professore inabissando di nuovo nel suo folle terrore.
— Noi possiamo agire anche in modo più sollecito, — disse il dottorino con compiacimento, lisciando la barbetta —, possiamo fare l’esame istologico; guardare se nel cervello si trovano i così detti corpi del Negri. Ma converrebbe avere il materiale di perizia....
— Il topo?
— Già; ma in buona conservazione. Se la putrefazione ha invaso più o meno il pezzo di esame, la prova si presenta malsicura.
— Il fatto è avvenuto stamane....
— Oh, allora andiamo benissimo.
Che strana sensazione quell’avverbio benissimo in un caso così tragico! Ah, gli insensibili uomini della scienza! Eppure anche lui, Fulai, godeva della sua insensibilità nel sezionare con la critica le anime dei morti.
Il Professore porse l’orribile cartoccino. Il dottore lo svolse, scoprì il topo, lo guardò con piacevole curiosità.
— Si direbbe che sia stato anche bruciacchiato — disse guardando con occhi di indagazione, di sotto in su, il professor Fulai.
— È stato il domestico.
— Ah, bene. Allora passi o mandi qui domattina, e le sapremo dare la risposta che lei desidera.
*
Quando fu la dimane il dottorino arrivando con placido ritardo all’Istituto, trovò il Professore che andava su e giù davanti all’ingresso. Balbettava, era curvo, aveva due lividi sotto gli occhi: le pupille erano lucide, il rossore del viso, malsano: balbettava, dico, convulsamente.
— Ma lei, scusi, — disse il dottorino, — mi pare alquanto agitato.
— Sì, un po’ agitato, — disse Fulai sforzandosi di sorridere.
— Non mi meraviglia: è un caso dei più frequenti. Noi abbiamo oggi in cura quarantacinque morsicati, e tutti da cani riconosciuti idrofobi, che vengono qui, allegri, indifferenti....
— .... allegri, indifferenti? — ripetè automaticamente il Professore.
— Ma certo! I più sono di campagna, gente che ha il bene di non pensare. Capita invece l’individuo che ci pensa, e sopravvengono allora i più strani fenomeni di autosuggestione. Timore del tutto infondato! Pensi; sopra tremila persone curate nel nostro Istituto, le statistiche non dànno che due insuccessi, cioè una mortalità di zero, zero sessantasei per cento.
— E se io fossi il terzo insuccesso? — domandò Fulai, a cui solo il suo caso stava a cuore.
— Il suo caso? Benissimo!
— Ha visto?
— Adesso vediamo. Così vede anche lei.
La donna paffuta, dalle braccia nude e dalla tonaca bianca, lavorava attorno ad un altro coniglio: prese dalla scansia e porse al dottore un piccolo vetro. Andarono di poi, il dottore e Fulai, di là nel gabinetto.
— Ora vediamo, ora vediamo.
Il dottorino si levò, appese il suo raglan, depose la sigaretta nel piattellino, scoprì un lucido istrumento, un microscopio; adattò, girò, guardò.
Era spaventosamente calmo quel piccolo uomo.
— Ebbene? Ebbene? Ebbene?
— Come le dicevo ieri, niente; reperto negativo.
Il professor Fulai da ventiquattro ore si trovava in uno stato che non è facile dire: intanto quell’idea folle e turbinosa nella scatola cranica; poi tutti gli organi come inchiodati, serrati, frenati che non agivano più, gli organi della respirazione, della digestione: per contrario l’organo del cuore andava disperatamente come un cavallo che ha preso la mano al guidatore, e le pupille gli si erano sbarrate sì che non poteva dormire. Oh, un ben deplorevole stato! Ora quando il dottorino disse: reperto negativo, sembrò che quella idea folle che girava nel cervello, fosse scomparsa per effetto di magìa, come scompare un pipistrello (che è una specie di orribile topo) dal soffitto di una stanza dove è penetrato e dove gira vorticosamente: e insieme provò la sensazione deliziosa degli organi, che, serrati, gli si aprissero: vi entrava l’ossigeno, la gioia di vivere.
Ma fu un attimo solo; per sua mala ventura gli saltò in mente di chiedere: — Matematicamente?
A questa domanda il volto del dottore si concentrò, un po’ cupamente, con grande terrore di Fulai che lo spiava.
Il dottorino, benchè in un’altra branca dell’umano sapere, era seguace dello stesso metodo che seguiva il signor professore Fulai nelle sue ricerche d’archivio: nulla affermava senza il documento.
— Ebbene, l’esame istologico negativo, — disse gravemente il dottorino, — non è bastevole. Conviene innestare una cavia o un coniglio, avere la pazienza di attendere da un minimo di venti giorni ad un massimo di quattro mesi, sissignore, quattro mesi! e dopo possiamo dire matematicamente. Scusi, professore, ma lei ne vuol sapere più di noi che ci viviamo in mezzo?
Una tenue disputa si accese fra i due scienziati: l’uno aveva studiato le carte, le cartapecore, le pergamene, i codici, i papiri; l’altro aveva studiato i pezzi anatomici, i nervi, i parenchimi, i vari cocchi a catena, a lancia, a bastone, a virgola: aveva lavorato col microscopio: ma nessuno dei due aveva studiato quella grossa bestia che è l’uomo; non la avevano osservata con gli occhi più adatti, cioè con gli occhi semplici, gli occhi puri, quelli che ha dato Iddio; perciò la disputa fra i due scienziati fu alquanto acerbetta.
— Ma, illustre professore, — disse il dottorino, — io le dico: “si fidi!„. Ma lei vuole il documento matematico; ed io non glielo posso fornire, nessuno glielo può fornire se non da qui a quattro mesi, e per l’appunto così....
Per l’appunto in quel punto la donna dalle braccia nude recava un coniglio nero, penzoloni per le orecchie. Una specie di crisma sanguinoso e mortale era segnato fra le due orecchie. Il coniglio fu collocato dalla donna in una gabbia dalle forti sbarre di ferro, dove si mosse vivacemente, anzi si mise subito a mangiare. Il dottore vi incollò un cartellino con la data: 28 novembre 19.., e disse: — Se lei, professore, viene qui, tra otto giorni, vedrà questo coniglio che non si muove più, che non mangia più. Se invece mettiamo in gabbia un altro coniglio, inoculato col cervello del suo topo, da qui a quattro mesi lei lo trova ancora vispo, allegro, come è questo qui, adesso. Io ne sono convintissimo; ma matematicamente, scusi, matematicamente, io come scienziato non lo posso dire, e lei non lo può pretendere.
— Quando le cose stiano così, — disse il professore Fulai, — facciamo la prova matematica, così io, dopo, sarò anche più tranquillo....
— Benissimo, ed io farò innestare un bel coniglio, — disse il dottorino.
— Io la ringrazio della sua gentilezza, e mi abbia per iscusato se mi sono espresso un poco vivacemente.
Il dottorino accompagnò il Professore sino alla porticina di servizio: lì attese che il Professore varcasse il cancelletto del giardino. Al quale limitare come il Professore fu giunto, si voltò e fece un bel saluto col cappello; il dottorino dal limitare fece, alla sua volta, un altro bell’inchino, e la porticina lentamente si chiuse.
*
Il professor Fulai camminò da prima speditamente. Era nella via di circonvallazione: dai grandi plàtani cadevano a terra le foglie, secche, gialle.
Allora per la prima volta Fulai guardò le foglie secche che si staccavano dai plàtani, e un verso, come il cavalier della morte, sbarrò il passo a Fulai in mezzo al viale.
Era un verso d’Omero:
A che dimandi del mio lignaggio?
Qual delle foglie, tale è la stirpe degli umani....
Egli, Fulai, conosceva la questione omerica, ma solamente quel giorno trovò che Omero aveva un contenuto diverso dalla questione omerica. Omero, con i suoi occhi spenti, gli sbarrava la via. Strano! Omero, che non è mai esistito, sbarrare la via!
A che dimandi del mio lignaggio? Qual delle foglie, tale è la stirpe degli umani.
"Tutti senza nome, allora? Tutti come le foglie, allora? Le foglie, le foglie! Cumuli di letame diventan le foglie; poi altre foglie nuove, come dice Omero.„
E le rinnova
la frondeggiante selva in primavera.
“Ma io sto bene come sono: non voglio rinnovarmi, io!„ E ricordò gli antichi monaci che, già vivi, buttavano via il loro nome. Tutti senza nome, come le foglie. Anche Dante quando bussò al monastero, non disse suo nome.
*
Ma a casa, il professor Fulai era aspettato.
Il giovane professor Leviathan, assestatuzzo della persona, ma badiale intelletto, era la sua pianta spirituale: era stato inviato a Madrid donde aveva riportato tre varianti di un codice; era stato a Berlino, dove aveva arricchito la propedèutica dantesca con il contributo su la trìsava di Dante, Dante’s Urgrossmutter. Leviathan differiva da Fulai forse in questo, che Fulai nei ponderosi volumi si trascinava sempre il paludamento delle eleganze cinquecentesche, mentre Leviathan procedeva scientifico e perfettamente ostrogoto.
Ed ora Leviathan attendeva, in collaborazione con Fulai, a colmare una vera lacuna studiando i rapporti intercedenti tra Federico Nietzsche e Giacomo Leopardi.
Ma quel giorno Fulai non sentì voglia di collaborare; anzi sentì un disgusto immenso, più che ad immergersi nel Dugento. Nietzsche e Leopardi erano bensì alla superficie del tempo; ma ora soltanto si accorse che quei due giovani formavano un gruppo tràgico nell’amplesso della morte.
— Ne parleremo un altro giorno, caro Leviathan.
— Sta forse poco bene, illustre maestro? — domandò la voce dolce di Leviathan.
— Un po’ di emicrania, infatti.
— Si vede dagli occhi, illustre maestro.
— Lucidi forse?
— Oserei dire, — disse Leviathan, — brillanti e scintillanti.
— Brillanti e scintillanti?
*
Leviathan se ne era andato, e Fulai si trovò solo con questa disperata domanda: “Che cosa devo fare io?„.
Il polso batteva novantasette pulsazioni al minuto; e stare fermo, non poteva; e aveva un peso nel cervello, quasi ci fosse stato messo un contrappeso di piombo che tenesse per forza sbarrate le pupille, come nelle teste di porcellana delle bàmbole mettono un contrappeso di piombo perchè tenga sbarrate le pupille. “Via, andiamo in Biblioteca!„ Ma poi, quando si trovò all’angolo di via B*** e vide scritto in bronzo Biblioteca Nazionale, ebbe paura. L’idea di studiare gli dava avversione profonda, come ad uno scolaro negligente. Ma se prima gli era cosa tanto piacevole! Il suo tavolo verde, nella gran sala della Biblioteca, con tutti i volumi volumoni, volumini, era religiosamente rispettato. Era quello il suo regno, dove, al suo entrare, tutti chinavano la testa.
La sua scarpa scricchiolava signorilmente su la passatoia; un bisbìglio lusinghiero feriva talvolta i suoi orecchi: “Quello è Fulai„. Al suo tavolo, i distributori, cameristi silenziari, deponèvano incunàboli, codici cartacei e pergamenacei. Ma quel giorno Fulai guardò con terrore i codici cartacei e pergamenacei.
Gli pareva di mettersi lo scafandro per calarsi a dieci, quindici metri di profondità; dieci, quindici secoli nell’oceano del tempo defunto: nel Dugento! Vedeva tutti i morti delle età morte, vivi: così come il palombaro vede i giganteschi cadaveri entro una nave naufragata.
Ma sino a quel giorno Fulai non aveva visto nel tempo che fu, che dei morti! Ora vedeva dei vivi. Allontanò con ribrezzo gli occhi dai libri.
Girò attorno gli occhi con gli occhiali d’oro.
Vide i soliti studiosi, vide i giovani studenti che studiavano devoti secondo le sue indicazioni. Lo studente A*** era curvo su la tesi di laurea su Le storie di Alfonso del Barbicone; lo studente B*** (un pretino) collazionava con delicatezza le epistole latine che un tempo non eran di Dante, ma adesso tornavano ad esser di Dante; la studentessa C*** languiva su gli aurei trattati De Mascalcia.
Ma a Fulai non parevano studenti veraci; sì bene talpe. Scavavan cunicoli in fondo ai secoli per arrivare a rodere cattedre.
La studentessa C*** vedendo il maestro con gli occhi levati, osò alzarsi, osò accostarsi, osò domandare se era meglio dire gli itali petti, o gli itàlici petti.
Fulai non rispose: la guatò con occhi torbi e domandò:
— È ancora vergine lei?
— Oh, signore!
E la poverina se ne era tornata al suo banco,
— Portatemi, portatemi un testo, — aveva detto Fulai al distributore, — su la rabbia canina.
E il distributore era tornato a lui recando un libro, legato in pergamena: Dissertazione fisico-medica del signor Boissier de Sauvage, medico consigliere del re di Franza, su la natura e causa della rabbia, nella quale si ricerca quali possino essere i Preservativi e Rimedi, aggiuntovi un trattatello su gli animali velenosi d’Italia, dal franzese in italiano tradotta e commentata, con licenza dei superiori.
— Ma chi vi ha detto di portarmi questi vecchiumi? — disse il professor Fulai.
E siccome il professor Fulai non parlava mai tumido ore, così il distributore stupì, e tutti alzarono la testa sentendosi rimbrottare nella sala riservata.
— Non si arrabbi, signor commendatore, — bisbigliò il distributore.
Fulai non fe’ motto: aprì i vecchi cartoni, e i suoi occhi caddero su questo capitolo: Aperture de' cadaveri.... Il cervello ed il principio del midollo spinale più secchi del solito, il cuore secco.
Rabbrividì. Voltò pagina e lesse: il veleno della rabbia fa i suoi più grandi effetti nelle gorgozzule....
Forse il gorgozzule....
Si sentiva stringere il gorgozzule; e uscì dalla biblioteca non con l'usato passo.
“Andiamo al tea-room.„ A quell’ora al tea-room c’è la contessa Bosis con la senatoressa D***. Esse prendono il tè con i petits-fours, o pasticcetti — come correggeva il professor Fulai. — Esse sono molto intellettuali e ammirano le arguzie del professor Fulai. Ma l’idea di dover stare fermo in quel salottino abbacinante di stucchi ed oro, stile Louis kenz (diceva la contessa; decimoquinto, correggeva Fulai), gli era cosa penosa come fare il palombaro nella Biblioteca. Quel lucido degli specchi e degli stucchi gli dava terrore: sentiva che non avrebbe potuto inghiottire i pasticcetti, o petits-fours (che per lui oramai era indifferente come chiamare) per effetto del gorgozzule.
Egli, Fulai, ritrovò allora se stesso che camminava frettolosamente per il gran viale deserto dei plàtani, fuori di porta. Ma non Leviathan, non la contessa, non la Biblioteca Nazionale erano le cose a cui pensava. La cosa a cui pensava, a cui solo pensava, a cui non poteva fare a meno di pensare era quell’idea turbinosa di essere idrofobo. “Io sono un professore idrofobo.„ “Ma è pazzia pensare così!„ diceva e faceva dire dalla sua ragione, arrestandosi ogni tanto. Ma non si arrestava l’idea turbinosa.
C’era come un demonio spaventosamente logico che poneva davanti alla sua ragione tutti i casi delle possibilità, in quanto che “di una morte o di un’altra, non ti pare che si debba morire, professor Fulai?„ diceva quel demone.
Davanti a lui la doppia fila dei gran tronchi dei plàtani si perdeva nello sfondo grigio della sera cadente senza luce di vespero. I lumi della città si scorgevano dall’altra parte già lontani, come un’aureola di biancore, un riverbero delle luci elettriche. Ma egli era ben lontano dalla città! “Io sono corso sino qui come un cane randagio„ pensò. Un enorme ribrezzo lo colse a questo paragone che inconsapevolmente avea concepito. Volle tornare indietro; ma aveva paura delle luci elettriche della città come del buio fra i plàtani. Un lumino brillava davanti. Forse era il casotto dei dazieri. Sarebbe arrivato sino là. Avrebbe parlato coi dazieri. Ma il lume si faceva sempre più lontano: era un fanale che si moveva lentamente. Allora si sovvenne che quel viale conduceva al cimitero. Fanale, ferale, feralis! Radice: bar, fero, io porto: la bara! Un’orrenda mistura filologica. Si ricordò di quelli che non possono più dormire nel proprio letto, e vanno volontariamente a dormire sotto quei cipressi. Voltò, e si mise a correre disperatamente verso la città.*
— Oh, ma lei, signor padrone, è tutto bagnato; lei è uscito senza ombrello, — disse Battista, quando il signore rientrò nel suo alloggio.
— Infatti, ho dimenticato l’ombrello: sparecchiate, Battista, perchè ho già pranzato in casa del senatore. Vi volevo telefonare, caro Battista, ma poi me ne sono dimenticato. Scusate, caro Battista.
Era la prima volta che Battista udiva caro davanti a Battista. Che stia poco bene?
— Sta poco bene, signor padrone?
Fulai certo era padrone, anzi sultano, anzi in Italia, il paese bigotto delle libertà, Fulai esercitava la tirannide dove solo la libertà è bene: sopra la intelligenza! Guai a chi non era intelligente della intelligenza di Fulai! Fulai dolcemente, clandestinamente tagliava la via: ma inesorabilmente. Oh, era ben padrone Fulai! Ma quella sera gli suonò strana la parola “padrone„.
— Battista, è ben accesa la lampada nella mia camera da letto?
Ma quella parola lampada, lampàs— lampàdos, gli richiamò alla mente la paràbola delle sette vergini sagge e delle sette vergini fatue. Esse lo attendevano, sul limitare, con le lampade levate, perchè noi non sappiamo nè l’ora nè il giorno. Ma è tutta lugubre la letteratura? Egli non se ne era mai accorto.
Spense la lampada; ma le tenebre erano incresciose al pari della luce. “Bene! vediamo un po’: che male ho io? Paura! Di che cosa ho io paura? Di morire.„ Anche morire come Francesco Petrarca con un libro in mano non gli piaceva più, adesso. E poi Petrarca aveva settant’anni, e poi lui era un’altra cosa; lui credeva, ad una cosa che non è la morte, a Maria Vergine, ch’accolga il mio spirto ultimo in pace. Come era lugubre del resto anche quel poeta lì! “Quando sarò arrivato a settant’anni, ne parleremo. Pensare che ieri mattina ero così tranquillo, così felice! Cosa mi venne in mente di toccare quel maledetto topo?„ Il professor Fulai aveva una gran voglia di dare molte percosse alla sua persona. “Tu, piuttosto, non devi aver paura!„ — disse, e accese la luce, e balzò dal letto, e puntava il dito contro se stesso, nel mezzo della notte, in abito da notte, contro se stesso, riflesso in mezzo della specchiera. Ma quel suo gesto gli parve pazzesco. Erebus et Terror stavano davanti a lui. Era la lùcida bottiglia sul comodino. Gli pareva di non poter bere. Fulai invocò Logos e Bulè, la Ragione e la Volontà contro Erebus et Terror. Ma la Ragione girava attorno come uno scarabeo a cui fu strappata un’ala; e Bulè, la Volontà, era ferita.
“Quando verrà il sole, — disse la Ragione a Fulai, che non ne poteva più dalla stanchezza, — allora, forse, Erebus et Terror, i due mostri, scompariranno.„ Venne infine la luce del sole.
La Ragione potè prender campo. Ma due lividi enormi stavano sotto le pupille del professor Fulai a testimoniare dell’orribile notte trascorsa.
*
Una forza strana sospingeva il professor Fulai verso l’Istituto Antirabbico. Era cosa assurda, grottesca: ma egli non aveva più pudore di nascondere la sua miseria. Quel coniglio! tutto il mondo per lui era quel coniglio. Idea ossessionante: Chi sa come stava quel coniglio?
— Come sta il mio coniglio?
— Benissimo, illustre professore, — disse il dottorino.
— Lei crede che non morirà? Intendo dire di morte idròfoba.
— Mai più.
— Io sto molto male, dottore, — e raccontò la sua notte insonne.
— Terrori dei letterati, — disse il dottorino.
Fulai, veramente, era scienziato e non letterato: il dottorino non distingueva le due funzioni, ben distinte, di critica e di arte. Ma quel giorno non ci badò.
Il dottorino era gaio.
— Illustre professore, — disse — , c’è proprio di là nel gabinetto il professor X***. Gli racconto il suo caso, lo faccio visitare. Attenda un istante.
L’allegro dottorino non aspettò nemmeno la risposta. Piantò Fulai in anticamera.
Il professor X**** direttore della Clinica universitaria; un Padre Eterno anche lui, un uomo che conosceva per quali fessure entrano Erebus et Terror nel cervello, un uomo che addomesticava la Volontà e la Ragione, un uomo che conosceva bene il cervello come lui Fulai conosceva bene il Dugento. Due illustri, dunque, due Padri Eterni che si erano spesso salutati a distanza. Fulai non aveva mai pensato di cadere sotto la giurisdizione di quell’uomo.
Se avesse avuto volontà, Fulai sarebbe fuggito. Ma non aveva più volontà.
— Illustre professore, venga, — disse il dottorino. Fulai lo seguì.
Il professor M*** era lì. Fulai si sentì avvolto nella virile canizie di quell’uomo. Lo sentì parlare con dolcissimo sorriso. Un balsamo di parole.
Mai Fulai aveva rivolto la parola ai letterati e poeti, morti e vivi, con tanta dolcezza
Lo stupirono anche le parole di lui.
— Caro collega, — disse, — il nostro dottore (e accennava il dottorino) pecca dell’entusiasmo dei neofiti. Mi permetto di parlare così perchè fu mio scolaro. Egli vive chiuso nel laboratorio, ed ha l’illusione di guardare gli uomini mentre questi in realtà sono lontani. In verità egli non guarda che cavie e conigli. Lo sperimentatore di laboratorio non prende dalla natura ciò che egli vuole. Più modestamente: lo sperimentatore imita la natura quanto meglio può. Ora le malattie degli uomini sono tutt’altro che gli esperimenti che noi vogliamo. È la natura che ci impone le malattie, e noi, per tentare di imitarle, dobbiamo prima un po’ sapere in che consistano e a quali leggi soggiacciano. Certo queste leggi esistono; ma sono ardue a conoscere ed impongono a noi medici la più gran modestia di pretese. Subtilitas naturae subtilitatem argumentandi multis partibus superat. Questo le dico per spiegarle come quel matematicamente che il mio amico ha proferito ieri, era esatto per i conigli, ma poco esatto per l’uomo. Di scienze perfette non ne esistono. Ma al primo errore di quel malaugurato matematicamente, ne fu aggiunto un secondo: egli non doveva accondiscendere a far innestare il coniglio. Il coniglio innestato fu come la porta per cui è entrato, non il virus rabbico, ma il terrore del virus rabbico in lei; il quale terrore, del resto, è una malattia non meno reale che la rabbia canina. Anzi oggi, che, grazie alle immortali osservazioni di Luigi Pasteur, la rabbia è curabile, creda che la paura è male ben più temibile.... Ah, lei sorride, professore?
Fulai sorrideva: gli pareva di star bene:.
— Ma c’è di più: se nel sospetto ci fosse stata un’ombra solo di possibilità, il mio amico dottore le poteva proporre sùbito e come estremo di precauzione, la cura Pasteur. Perchè non l’ha fatto? Per un ragionamento istintivo, per cui lui era convinto che nel suo caso non esiste infezione.
Così parlò il gran maestro canuto.
Ma Fulai in quel momento non istava più male, o almeno così allora gli pareva. Certo aveva sofferto un orribile male, e raccontò dell’immenso stupore che era in lui; cioè come attraverso una piccola scalfittura, se pure scalfittura ci fu, cagionata dal dente di un topo, fosse potuta entrare nel suo cervello un’idea così spaventosa. Quale è l’abitazione nel cervello di un’idea così spaventosa? E come può un’idea far tremare un uomo? vietargli ogni altra attenzione? rendergli nero il sole? impedirgli la volontà? il sonno? il sorriso?
E Fulai raccontò ancora:
— Il mio cervello era prima come un paesaggio svizzero, tutto mondo, tutto ordinato con cura; ma adesso è diventato un paesaggio su cui già passò l’uragano, la tempesta, la guerra, la morte. L’idea di morire arrabbiato ha sconvolto tutto ed in un modo indecente per un uomo rispettabile come io credo ancora di essere. Certo quel genere di morte per idrofobia deve essere orribile; ed io lo ho escluso, valendomi a un dipresso del ragionamento che lei ha fatto, dottore. L’idea un po’ va, e poi torna. Torna con l’insistenza dell’antico demonio nell’animo degli asceti d’altri tempi. Dice: “Con permesso„. Ed è entrato già. “Guarda, mi dice, che anche Morgante che era un gigante, è morto per il morso di un granchiolino.„ Ma quella, dico io, è una fola di Luigi Pulci. “Sì, è vero; ma non ricordi nel Giornale del Vespero quel bel racconto di tanti anni fa di quel signore americano che morì idrofobo per una carezza di un suo cagnolino?„ Ma è una combinazione dell’uno sul milione. “Sì, hai ragione: tu probabililmente non morirai idrofobo. Però ammetti, Fulai, che di una morte devi pure morire!„ E questa idea mi si annida allora nel cervello e non se ne vuole più andare.
Ma v’è di peggio: tutti i miei placidi libri mi incutono un’idea spaventosa del tempo. Dante è un abisso, e mi fa paura. I codici del Dugento mi incutono terrore.
Io vedo il tempo materialmente: lo vedo in forma di un abisso senza fondo. Me ne sta davanti la spaventosa etimologia: tempo, cioè l’andata senza fine, l’eterno che tutto assorbe. Gli uomini hanno immaginato certe eleganti divisioni del tempo, cioè evo, cioè le ore, le olimpiadi, le calende, i mesi; come in certi edifici si mettono dei diaframmi per evitare il capogiro guardando in giù: ma in realtà è tutta una continuazione; e l’abisso rimane. Questi versi del Leopardi, che prima leggeva indifferentemente:
E mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni,
adesso mi dànno un senso di raccapriccio. Come faceva quel ragazzo del Leopardi a scrivere queste spaventose cose senza morire?
Era un gran pazzo o un gran savio? Era fisiologico o era patologico, Leopardi? È fisiologico l’essere o il non essere? Se non fosse questa mia lingua bianca e questo mio polso convulso, direi che è fisiologico non essere. Quel coniglio! La mia vita è quel coniglio!
Il gran vecchio sorrideva. Come faceva piacere a Fulai quel sorridere che pure era derisione delle sue parole!
— Caro collega, — disse, — la nostra scienza terapèutica va poco più in là di un purgante e di un calmante. Bene io vorrei violentare certe leggi di natura; eppure anch’io, come il più modesto dei sanitari, non ho a mia disposizione che un calmante o un purgante. Ma nel suo caso speciale, abbiamo un rimedio a sua disposizione: visiti ogni tanto il suo coniglio. Già che l’amico dottore ha fatto il male di farlo innestare, faccia la penitenza di fàrglielo visitare.
— E lo troverò sempre in ottima salute?
— Matematicamente.
*
Andò a casa quasi saltellante, Fulai. Il dottore gli aveva levato la bua.
Come quando diceva: “ Mamma, mamma, vieni!„. Ed egli vide la sua mamma, nel tempo lontano, quando lui era un bambino piccino; e la sua povera mamma gli voleva tanto bene, lo curava dei suoi mali, mali piccoli, mali dòcili. Li faceva andar via.
Così aveva fatto anche il dottore canuto. La Bontà! Che strana parola! Una parola che le mamme dicono ai bimbi, e poi scompare.
— Sì, caro Battista: oggi sto realmente meglio e noto che questo brodino è un poco leggero.
— Allora posso fare, signore, una bistecchina sautee o “saltata„, come vuol lei.
— Bravo, Battista: una piccola bistecca, o saltata o sautee che poi è lo stesso; e un gocciolino di Barolo. Sapete, Battista, che questo Barolo è molto ben conservato? Voi siete un servo modello, Battista, un uomo buono, non è vero, Battista? Battista, assaggiate anche voi di questo eccellente Barolo.
“Professore, — disse una silografia di mastro Lorenzo Coster, che illustrava quel prezioso incunàbolo sull’Ars Moriendi — vogliam fare qualche meditazione?„
“Al diavolo! — disse Fulai — io mi voglio dare alla pazza gioia.„
*
Al mattino Fulai si destò: aveva dormito molto, ma senza incubi.
La stipsi si era risolta un po’, e Battista condivise al proposito la soddisfazione del signore, anzi si permise di osservare:
— Quando avrà il beneficio di prima, starà come prima.
*
— Sì, infatti la cupa cupola di piombo che era sul suo cervello, si veniva squarciando: appariva il sereno. Ma perdurava tuttavia una strana oscillazione nelle idee. Si provò a leggere, ma non poteva studiare, non poteva fissare. La sua testa era prima come un ordinatissimo, tranquillissimo schedario. Ora invece ogni scheda si era gravata della sua profonda significazione: accanto ad ogni scheda era un uomo vissuto già nel tempo; v’era la sua fatica, la sua opera: e tutte queste infinite opere formavano un enorme peso, e tutto questo peso formava una spaventosa leggerezza: Vanitas!
Ma il suo pensiero correva là, all’Istituto Antirabbico, dove c’era il coniglio.
Per star bene aveva bisogno di vedere il coniglio.
Il dottorino non c’era: c’era solo la donna dal camice bianco e dalle braccia nude.
Ella disse:
— Proprio abbiamo innestato un bel coniglio bianco. Vedrà come è vispo, come mangia!
— Ah, sì? è proprio vispo? proprio mangia? Gli pareva, ecco, di tornare a star meglio ora che aveva udito questo.
Scesero giù in una specie di sotterraneo.
— Dio! cos’è quella cosa sanguinante, là? — chiese atterrito Fulai.
— La testa di un cane, signore. Oh, ne arrivano ogni giorno. Lei è troppo sensibile.
— Sì, io sono molto sensibile.
— Ecco qui, — disse la donna aprendo una porticina.
Era una stanza grigia, gelida, con tutte gabbie di ferro all’intorno: in ogni gabbia c’era un coniglio o una cavia; tutti, tutte, con quel crisma sanguinante sul cranio.
— Ecco, signore, questo qui comincia, — disse la donna.
— Che cosa? Comincia che cosa?
— La paralisi. Vede? — Ed essa, con un bastoncello fra le sbarre, sollevava la bestiola giacente; ma questa non poteva star ritta e ricadeva pesantemente. — Quest’altra qui comincerà domani, — proseguiva colei metodicamente.
— Ma se mangia!
— Mangia, ma vede? Vede che non corre più? Oh, buttiamo via questo.
(C’era in una gabbia un coniglio stecchito, che faceva da pavimento ad un altro, sovra accovacciato.)
— No! no! — disse Fulai. — Quello vivo può uscire. Poi non temete voi che vi morda?
— Ci sono abituata, — disse la donna, e introdusse il braccio nella gabbia, e ne tolse quella cosa stecchita e arruffata, che buttò su di un mucchio di segature.
Quella donna gli parve più coraggiosa di Marfisa, di Camilla.
— E il mio coniglio?
— Ecco qui il suo coniglio.
— Ah, il mio coniglio, — disse Fulai distratto sino allora da tutti quegli istrumenti di vita e di morte. — Il mio coniglio! Dio! ma se è accoccolato là in fondo come gli altri! — esclamò rabbrividendo.
— Sì, ma vede che begli occhi, che bel pelo liscio? E poi guardi: Pipin! È il più bello della conigliera, e lo chiamiamo Pipin!
E toccatolo appena col bastoncello, il coniglietto si mosse, tutto vivacemente.
— Mangia! — esclamò Fulai pieno di ammirazione e di felicità.
— Guardi: non ha più crusca.
Fulai respirava benone. Vedeva il suo coniglio con le orecchie ritte, e invece tutti quegli altri conigli si stavano con le orecchie storte, mogie, tutti arruffati, orribili, immoti.
— Muoiono così?
— Così.
— Allora tranquilli.
— Oh, le cavie, — disse la donna, — si mordono, anche, fra loro. Guardi, guardi quelle due cavie che mordono le sbarre!
— E gli uomini fanno lo stesso? Voi ne avete visti?
— Ah sì! È brutto. Molte volte bisogna legarli. Dicono loro stessi: “Via! via! che adesso mordo„.
Fulai si sentiva come un laccio alla gola. Voleva fuggire e voleva sapere. Domandò:
— È vero che hanno paura dell’acqua?
La donna era dotta e tranquilla:
— Veda, signore, basta molte volte il solo rumore del rubinetto aperto, una corrente d’aria, per dare le convulsioni.
Fulai non si sarebbe mai staccato da quel lugubre luogo. Volle sapere tante cose.
— Tutti i cani che mandano qui sono arrabbiati?
— Ah, sì, quasi tutti. E poi guardi le cavie e i conigli: essi glielo dicono.
— Ma il mio no, eh? nevvero?
— Già, tutti, fuori del suo.
— Ah bene! Ma agli altri, a quegli uomini che fanno la cura, lo dite voi che il coniglio è morto o sta male?
— Non diciamo niente. Già i più sono contadini o bambini, che non lo sanno nemmeno.
— E se qualcuno lo sa? e se qualcuno vuol vedere?
— Non lo facciamo mica venire qui. Viene lei perchè ha il permesso del professore.
— E quelli realmente ammalati, guariscono con la cura Pasteur?
— Tranne quelli che muoiono, guariscono tutti.
Fulai diede una bellissima mancia alla donna. Ma andandosene, disse:
— Sentite, la mia brava donna, voi non potreste collocare il mio coniglio in una stanza più bella, con un po’ di sole? Capirete, in questo buio, in questa specie di cantina, potrebbe fare un’indisposizione di altro genere, e questa cosa mi darebbe disturbo. Io vi ricompenserò assai bene se tratterete il mio coniglio con tutti i riguardi.
Battista la mattina ebbe l’ordine di lasciar correre l’acqua per il rubinetto.
— Macchè, non mi fa nessuna impressione. Io sto benissimo!
E anche a bere Barolo nel cristallo lucido non gli faceva impressione.
“Benissimo! Ma è veramente vergognoso che un uomo che ha sempre avuto coraggio, deva ora avere tanta paura. Ma confronta il tuo caso, — diceva, — con quello di Dante! Tutti contro di lui, che se lo trovavano, te lo bruciavano vivo e senza remissione, e lui contro tutti; e te li scaraventa all’inferno i suoi nemici fra quelle fiamme cantanti, senza paura di nessuna querela per diffamazione; e poi va solo a cercare l’eterno, il nirvana, l’assoluto, Dio, lui, solo! e naviga l’oceano spiritale, con tutte le vele spiegate.
O voi che siete in piccioletta barca,
Tornate a riveder i vostri lidi!
E gli pareva che Dante mandasse indietro lui, e i suoi Leviathan.
“Allor va tu, che sei saggio e valente, — disse Fulai a Dante, — va tu a cercare Dio. Io ancora preferisco stare qui.„
Oh, andava meglio, molto meglio il professor Fulai; e più il tempo passava, più andava meglio. Quando poi passarono finalmente quegli ottanta giorni, andava benissimo. Egli era tornato un uomo normale come prima: forse un po’ più di prima scrupoloso della sua persona, della sua pelle, della pulizia, dell’igiene; ma per il rimanente, uguale a prima. La biblioteca, quella entro la testa, non gli pesava più come una corona di piombo; le schede erano tornate lievi come foglie, appena agitate dall’auretta.
Forse Battista, interrogato, avrebbe potuto rispondere che il signore si era fatto un tantino anche più pedante.
— Ma, Battista, — diceva Fulai con la sua voce in falsetto, — sapete che quei due gatti, sporcano molto per casa? E quel coniglio poi!
Perchè Fulai, animo riconoscente, aveva voluto ricompensare Pipin, il coniglio, della sua gentilezza nel non essersi mai ammalato, in quegli ottanta giorni di passione, che Fulai aveva durato.
Perciò lo aveva sottratto alla certa morte di laboratorio, lo aveva accolto in casa; ma sporcava, come sporcava per casa quello stupido Pipin dai tondi occhi rossi.
— Caro Leviathan, — diceva Fulai all’autore della propedèutica Dante’s Urgrossmutter, — creda che non ci vuol molto a diventare come Leopardi. È una storia che le racconterò.
*
Ma sporcava, sporcava quello stupido Pipin dagli occhi rossi.