Novelle (Brevio)/Novella II
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NOVELLA II.
Nobilissime et graziosissime donne, non è dubbio alcuno che se alle leggi amorose riguardar vorremo, conosceremo quelle essere tali et di tanta potenza, che non solamente quelle dell’amistà, ma molte volte le divine rompono: onde io estimo che siccome infinite sono le insidie dello ingannevole amore, cosi senza fine meritino esser lodati coloro, i quali rielle fiamme sue strabocchevolmente caduti col freno della ragione, le santissime leggi dell’amicizia osservando, hanno i loro focosi desideri et non sani pensieri temperati: il che come un gentile et valoroso giovane, ardentissimamente amando, facesse, intendo di raccontarvi.
in Padova, antichissima et nobilissima città, fu già un cavaliere per virtů et nobiltà di sangue riguardevole molto; il quale giovane et ricco essendo, quasi tutto ’l suo in cortesia, in donare et mettere tavola splendidamente spendeva. Ora avvenne che egli dello amore d’una bellissima donna vedova fieramente s’accese: la quale perciocchè giovane molto il vedeva, poco di lui le caleva; ma cauta et accorta molto essendo, con un grande amico di lui, gentile uomo Vicentino, che M. Vincenzo da Schio era detto, segretamente si sollazzava: non essendo del loro amore consapevole persona alcuna, fuori che una sua fante et un compagno dello Schio. Il cavaliere dopo lo aver più modi et vie di acquistar la grazia di lei tentate in vano, male dello amore della donna cambiato veggendosi, viveva il più dolente uomo del mondo; onde avvenne che una sera, di state essendo, non curandosi egli sì per lo caldo, che grandissimo era, sì eziandio per la passione che egli sentiva, di girsene al letto, postosi nella corte della casa sua a sedere, sopra l’amore di M. Lucrezia profondamente pensando, vi venne messer Lodovico de’ conti di Panego, il quale perciocchè questo suo amore sapeva, et molto suo amico era, quivi veniva per racconsolarlo; et dopo l’avere alquanto de’ suoi amori insieme ragionato, disse il conte: se voi, cavaliere, volete entrare in casa di M. Lucrezia, io vi ci condurrò et porrovvì dentro; et come, disse il cavaliere, mi ci metterete? Dirollovi, rispose il conte: passando io testè dinanzi alla casa di lei, et l’uscio toccando, m’avvidi che non era colle chiavi serrato: onde a me dà il cuore d’entrarvi; andianci, chi sa che ventura fia la nostra? Che ci nocerà il tentare? La fortuna le più delle volte è favorevole et aiutatrice degli audaci. Era il conte uno de’ più leggiadri et gagliardi giovani di Padova, et appresso di chiaro ingegno, piacevole molto et costumato essendo, quasi tutto il tempo spendeva ne’ fatti delle donne; ne v’era finestra o muro per alto che si fosse, che o con iscala di corda o con lancia egli su non vi salisse, nè uscio sì ben serrato, pur che puntellato non fosse, che egli o con grimaldelli, o con trapani, o con altri simili stromenti, de’ quali infinita copia sempre aveva per usare in simili accidenti, non aprisse. Il cavaliere adunque piena fede prestando alle parole del conte, prode et valoroso uomo conoscendolo, in piè levatosi, presa una lanternuzza di quelle che si serrano in guisa che lume non rendono, passo passo ragionando verso la casa di monna Lucrezia presero il cammino; et quivi giunti, avendo il conte con uno de’ suoi ferri il saliscendo della porta levato, et quella aperta, entro se ne errarono, et prima bene spiato se nella entrata vi fosse persona, l’uscio serrato et lo chiavistello messovi, in sala se ne andarono; nella qual pervenuti, videro entro un buco del muro, il qual molto grosso era, un lume; et innanzi postavi una mezza pietra in maniera che ’l lume appena si vedeva. Il che vedendo il conte, che accorto et avveduto molto era, sospicò che in casa fosse, o dovesse venir chi che sia; perchè mandato il cavaliere giù alla porta, gli commisse che egli attendesse,se vi venisse persona, o se udisse segno alcuno, et egli colla lanternuzza in sala rimasosi, con un de suoi ferri l’uscio d’una camera, che dirimpetto la scala era, aperto et entro passato, vide sopra il letto di quella tre persone che profondamente dormivano; et queste erano due fanti di monna Lucrezia et uno uomo, che l’una di quelle in braccio si teneva; onde cheto cheto partitosi, ad un’altra camera se n’andò; il cui uscio, che che si fosse la cagione, non potendo così di leggieri aprire, egli ebbe per costante quella esser la camera della donna; perchè il desiderio d’entrarvi maggiore venendogli, et co’ suoi ferri et colle ginocchia quanto più poteva pienanamente s’affacativa per aprirla. Il cavaliere, che giù alla porta per buona pezza avea dimorato, già le cinque ore udite avendo dubitando no ’l giorno quivi lo cogliesse, venuto in sala, et al conte accostatosi, lui pregò che se n’andassero, et mentre che egli lo sollecitava, avvenne che monna Lucrezia per lo frugar che ’l conte faceva all’uscio, si svegliò, et due volte schiaritasi, tacque: il che udendo coloro che di fuori erano, sperando lei tantosto dover venir ad aprir loro la camera, stetter cheti; et dopo lo aver alquanto in vano aspettato, di nuovo l’uscio toccarono. La donna che altra porta, et con altri ferri frugar si sentiva, poco di loro curandosi, non si mosse: perchè temendo il cavaliere, come quegli che sommamente l’amava, che essendo egli quivi da lei veduto, ella non s’adirasse, pregò il conte ad andarsene; et così spenta la loro lanternuzza, le scale cominciarono a scendere: et appena al mezzo giunti essendo, il conte fermatosi disse: deh debbiamo noi andar senza nulla aver fatto? Per certo gran vitupero fia il nostro, se così se n’andiamo: io, se a voi piace, poichè con monna Lucrezia non avete avuto ventura, sì provarò io la mia con una delle fanti. Il cavaliere, come che mal volentieri lo facesse, pure per compiacergli disse, ch’egli v’andasse che lo attenderebbe; et ad una giannettina ch’egli aveva in mano appoggiatosi, appiè delle scale si mise a sedere. Il come nella sala tornato, et nella camera entrato, al letto accostatosi, il braccio stendendo per metter la mano addosso ad una di loro, per sorte sopra il viso dell’uomo la pose; il quale destatosi et quella prestamente presa, disse: compare, è egli otta d’andarsene? Il conte dell’error suo avvedutosi, pianamente rispose: sì, compare, andiamo. Allora Camillo, che così si nominava colui, che colle fanti era nel letto, prese sue calze et giubbone, cominciò a vestirsi, aspettandolo il conte che di conoscer chi egli fosse desiderava. Dall’altra parte lo Schio, che con monna Lucrezia era, avendo due volte udito toccar l’uscio della camera, facendosi a creder quello essere stato Camillo che chiamato l’avesse, perchè se n’andassero, già ad ordine postosi, presa con un dolce bacio licenzia, dalla donna sua si partì; et dinanzi alla camera delle fanti passando, et quella aperta vedendo, estimando Camillo giù alla porta esser ito ad attenderlo, le scale cominciò a scendere, et quasi alla fine giunto, udì il cavaliere, che lui il conte esser credendo in piè si levava; perchè ’egli disse: compare, sete voi costì? Le quai parole udendo il cavaliere, ricordandosi ch’egli et il conte non si chiamavano compare, et appresso quella non esser la voce del conte conoscendo, la punta della giannettina verso lui volta, disse: si che io ci sono, vien giù. Perchè tuttavia scendendo, lo Schio et al buio essendo, egli per sorte percosse col braccio ritto nella punta della giannettina; perchè punger sentendosi, volle gridare; ma il cavaliere di ciò avvedutosi, disse che egli non gridasse, che lo ammazzerebbe. Onde lo Schio ciò udendo, dubitando non costui de’ parenti della donna fosse, et d’esser quivi morto temendo, umilmente lo pregò che andar ne lo lasciasse. Il cavaliere allora chiaramente alla voce riconosciutolo, perciocchè suo grandissimo amico era, per nome chiamatolo, disse che ei non temesse, perciocchè egli era Antonio Bagaroto suo amico; et questo detto, strettamente s’abbracciarono, quivi facendo la più dolce pace del mondo. Lo Schio che molte volte con monna Lucrezia dello amore del cavaliere ragionato aveva, sapendo quanto egli ardentemente l’amava, et appresso da lei avendo inteso le giostre, l’armeggiare, et le altre feste et prodezze per lui per amor di lei fatte, di lui che gentile et virtuoso cavaliere era, pietà prendendolo, volle allora allora nella camera di lei menarnelo, promettendogli di giunta ch’egli per lo innanzi con esso lei non si impaccierebbe giammai, anzi liberamente gliele lascierebbe godere. Il cavaliere ciò udendo, alle divine bellezze et a laudevoli costumi della donna pensando, et al desiderio ardentissimo ch’egli d’averla nelle braccia aveva, et alla ventura che la fortuna innanzi mandata gli aveva, considerando, si sentiva struggere, come la neve al sole, per la voglia ch’egli aveva d’andarvi, et più volte fu per accettar il partito: pure d’alto et nobile animo essendo, tutto in sè raccoltosi, i concupiscibili et torti appetiti alla ragione sommettendo, et sè medesimo vincendo, quelle grazie allo Schio che per lui maggiori si potevano, rendendo, di non v’andare deliberò, sì veramente che egli contento che lo Schio alla partita sua di Padova, sapendo lui di breve doversene andare, gliele concedesse. La qual cosa lo Schio graziosamente promisse di fare, et dimandatolo se quivi solo fosse, et inteso esservi il conte di Panego, et essere andato alla camera delle fanti, temendo dello scandalo che agevolmente tra lui et Camillo nascer poteva, quanto piuttosto poterono amendui verso la camera s’avviarono. Camillo, il quale già vestitosi, et dalla innamorata sua commiato preso, de’ piaceri la notte avuti col conte ragionando, le scale scendeva, uditi costoro che loro incontre venivano, fermatosi, et al conte voltosi, disse: Compare, odi tu quel che io? Costoro che incontro nei vengono, per avventura saranno di famigliari di casa et ci scopriranno però direi che noi addietro tornando per lo tetto n’andassimo. Il conte sapendo giù a terreno il cavaliere esser rimaso ad attenderlo, lui esser credendo rispose: non temere compare, andiam pure. Camillo che già coloro avvicinarsi sentiva, presso che adirato voltossi per tornare addietro et disse: tu se’ ostinato et pazzo, e’ ci saranno testè addosso, i’ me ne voglio andare: et partir volevasi; ma il conte per la mano presolo, quella stretta tenendo, non lo lasciava. In questo sopraggiunto lo Schio et il cavaliere udendo lo bisbiglio che costoro facevano, disse lo Schio: Compare sta cheto, io sono lo Schio. Camillo ciò udendo et sognar parendogli, disse: come che tu sei lo Schio? Et se tu se’ desso, chi è costui che vien meco, et hammi per la mano, et chi ė teco? Non ti curare, disse allora lo Schio, e’ sono amici nostri, et tosto li conoscerai, et chetamente della casa usciti, al campo degli Eremitani se n’andarono: quivi sopra l’erba fresca a seder postisi, lungamente de’ loro amorosi diletti con gran piacere di tutti quattro, ma più dello Schio et di Camillo, che le loro donne avevano la notte in braccio tenute, ragionarono; et già il nuovo giorno appressandosi, alli loro ragionamenti fin ponendo, chi qua et chi là, tutti alle loro case tornando, s’andarono a riposare. Lo Schio indi a pochi dì, essendo dal padre chiamato, et la promessa al cavaliere attenere volendo, prima posto ordine con monna Lucrezia, come ciò s’avesse a fare, lui nelle braccia di lei caramente coricò: la qual dolcemente abbracciandolo, di senno maturo et d’alta speranza conoscendolo, tutto ’l tempo che egli stette in Padova, lietamente godette et ebbe caro; che così Iddio faccia a me dell’amor mio godere.