Novelle (Brevio)/Novella I
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NOVELLA I.
Quanto malagevole sia, gentili et amorose donne, il difendersi dalle tentazioni carnali, in una novella mi piace di raccontarvi: acciò che per lo innanzi più arrendevoli siate alla battaglie de’ vostri fedeli et valorosi amanti, non aspettando che il diavolo vi tolga il lume dell’intelletto: sperando nell’infinita misericordia di colui, il quale con infallibile raggio ne fu creatore dell’universo: avendo per costante the egli non sia tanto severo et crudele, quanto dicono i frati; i quali con molto sudore s’affaticano in confortare altrui, a far quello che eglino con ogni studio procacciano di non fare. Non dico già che il peccare meriti essere lodato; ma sì dico io bene quel peccato esser più degno di iscusazione et di perdono, al qual meno si può contrastare. Et chi negherà lo stimolo della carne, chiamato da San Paolo l’Angelo di Satanasso, non esser più potente et più fiero d’ogni altro? et il peccato per lui commesso, non come gli altri peccati fanno, penitenza, dolore, infamia, noja et molie volte la vituperosa morte arrecare, ma infinito diletto et dolcezza estrema apportare? Quelli nimici più malagevoti sono da esser fuggiti, che più forti sono, et che più vicini ci stanno: et qual nimico è più forte et a noi più presso sta di questo? Certo nessuno; esso si sta giorno et notte con esso noi, et non solo nelle letta, nelle camere et alle tavole, ma nelle piazze, nelle chiese, nel mare, nelle fortune et pericoli, nelle infirmità et nella morte istessa. Oltre a ciò tante et tali sono le insidie del lusinghevole amore, che impossibile è il poter resistere alle forze sue. Esso vi combatte in vari modi, ora rappresentando a’ dolcissimi occhi vostri un giovane di vago et delicato aspetto, ora un uomo robusto et forte, talora alle castissime orecchie vostre pervenire facendo il nome d’un fedele et valoroso amante, et alle volte d’un gagliardo et leggiadro cavaliere; et a quelle, che più dure et più rubelle gli sono, in altra forma mostrandoti, come nella presente novella vi fia mostrato. Onde debbiamo credere il peccato della carne appresso Dio esser più degno di mercè d’ogni altro, et forse, come dicono li Franceschi, che e’, non sia nel numero de’ peccati mortali.
Fu adunque in Bologna un gentile uomo de’ Bentivogli, chiamato messer Ermete, gagliardo et valoroso molto, il quale essendo innamorato d’una bella et vaga donna, lungo tempo ogni opera fece, che a gentile et prode cavaliere s’appartenga di fare, per acquistare la grazia di lei: ma tutto in vano. Onde egli quasi disperata impresa parendogli avere alle mani, del tutto se ne levò, et a cacciare, a giurare, ad uccellare et ad altri piaceri si diede, sperando per quella via poter la noia et la passione d’amore levarsi d’addosso. Ora avvenne, colà di gennaio essendo, che in casa de’ Pepoli una sera si fece una bella festa et onorevole molto; alla quale essendo ite messer Ermete, per avventura vi trovò monna Camilla de’ Garisendi, che cosi aveva nome la donna che egli amava: perchè tutto sentendosi mutare, et in lui un cotale spiritello d’amore svegliandosi, dopo averla alquanto amorosamente gfetata, et gli occhi suoi con gli occhi di lei più volte essendosi incontrati, di nuovo fuoco racceso, deliberò di danzar con esso lei: et là, dove ella sedeva, andatosene, fattale una bella riverenza, lei a ballare invitò. Monna Camilla, che tutto quel tempo veduto non l’aveva, tutta nei volto cambiatasi, graziosamente levatasi, a ballar con esso lui cominciò. A messer Ermete, tuttavia ballando, andavano molte cose per la mente; ricordavasi le ambasciate fattele fare, le promesse, le giostre et prodezze per amor di lei fatte; onde soavemente et dolcemente mirandola, ut appresso la bella et delicata mano stringendole, et ella altresì mirando et strignemio lui, sì andò la cosa, che tale si rizzò, che si stava a giacere: perchè avendo ben considerato le cose da lui per addietro per amor di lei fatte niente avergli giovate, prese per partito di tentar quella via che non mai o rade volte suole fallire, come che le donne tutte per esser buone et sante reputate se ne facciano schife, et ne siano, come gli asin dei popponi: perchè accortamente messole in mano messer Cresci, quella con la sua per buona pezza tenne stretta. La donna tutta arrossita non poteva et non ardiva lasciarlo per tema di non essere scoperta; et sentendolo sodo et bene ad ordine, quasi che di soverchia dolcezza non isvenne. Messer Ermete accortosi che a monna Camilla piaceva il lavorio, a’ fatti aggiunse le parole, et dopo averle ricordato la lunga sua servitù, et lo ardentissimo amore, che egli portato le aveva, umilmente la pregò che lui per suo amadore accettasse. Monna Camilla, la quale s’aveva posto in cuore di non consentirgli giammai, dalle dolcissime parole di M. Ermete pietosa fatta, promise di farlo contento; et posto ordine di trovarsi insieme il giorno seguente in casa A’ una lor comare, così fecero, ove lietamente et dolcemente per gran pezza goderono del loro amore, avendosi ben mille volte monna Camilla pentita d’essergli stata per lo passato ai crudele. Et essendo l’ora oggi mai tarda, posto tra loro ordine come per l’avvenire avessero a darsi bel tempo, M. Ermete si parti. La comare, che molte volte lungo tempo aveva pregata monna Camilla che consentisse alle voglie di M. Ermete, et avevala sempre trovata dura et ostinata, volle intender da lei chi loro avesse cosi accordati: alla quale monna Camilla, mandato fuori un grande sospiro, altro non rispose, se non: comar mia, il diavol m’ha accecata: et volendo ella intender chi questo diavolo stato fosse, intieramente tutto il fatlo le narrò. Perchè il giorno seguente la comare, come le donne fanno, ad una altra sua comare lo disse, et quella ad un’altra, in maniera che in pochi di ne fu ripiena tutta Bologna di questo diavolo; et tra le donne ne nacque un proverbio; il quale gran tempo da altri che da loro non fu inteso, ne si sarebbe per avventura ancora scoperto, se questo carnasciale passato M. Giulio de’ Carbonesi non ne fosse stato cagione; il quale ad una festa in casa del cavaliere de’ Catanei volle, ballando con monna Lucrezia de’ Conti di Canedolo, che ’l diavolo l’accecasse; di che ella accortasi, la mano tirata a sè, finito ’l ballo a sedere andatasi, quella sera più non volle ballare. Et essendo oonvitata, presente il marito, per la seguente sera, con rigida viso negò d’andarvi. Onde essendo dal marito dimandata per che cagione andar non vi volesse, la cosa tutta gli raccontò. Il marito, che ’l più avveduto nomo del mondo non era, non sapendo forse quanto mal sicuro sia il mostrar l’ossa a’ cani, volle che ella v’andasse; et datole uno anello, nel quale era legato un diamante in punta, le commise che se M. Giulio la mazza dalle mele in mano le ponesse, ella, volto l’anello con la punta verso la palma, quella strignesse senza rispetto alcuno; perciocchè egli con molti de’ suoi parenti et amici vi sarebbe, et non si dubitasse di cosa veruna. Andata dunque M. Lucrezia alla festa, et cedendola Messer Gialio tutta bella et gioiosa, dopo averla alquanto vagheggiata, facendosi a credere ch’ella si morisse di voglia di danzar con esso lui, come quella che maliziosamente ne’ sembianti lo mostrava, a ballar la invitò: et quando tempo gli parve, in mano le misse il diavolo: Monna Lucrezia, secondo l’ordine del marito, volto l’anello, la mano strinse et tirò a sè in modo, che per la pena, la quale in quelle parti è intollerabile, M. Giulio tramortito cadde. Per lo quale accidente la festa turbata, et intesa la cagione, monna Giulia de’ Marascotti voltasi alle compagne, disse: alla buona, che monna Lucrezia non s’è voluta lasciar accecar dal diavolo. Questa parola udita fu da molti giovani che d’intorno alle donne stavano, i quali per addietro mai non l’avevano intesa, come che gran voglia ne avessero: dì che tra loro ne fu riso molto: et essendo la festa finita, tutti a casa se ne andarono, fuori che M. Giulio, il quale sì per lo dolore, come eziandio per tema del marito et de’ parenti di monna Lucrezia, portato entro una camera; nel letto fu posto; ne di quella casa sì parti, se non dopo faita la pace. Monna Lucrezia, a cui pareva una bella opera aver fatta, fu da tutte le savie donne tenuta pazza. Adunque, donne mie rare, non aspettando che il diavol vi acciechi, graziosamente vi farete incontro agli amanti vostri, quegli amorosi piaceri pigliando che la benigna fortuna vi mette innanzi.