Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella I
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IL BANDELLO
A MONSIGNOR
GUGLIELMO LURIO
signor di Lunga, senatore regio a Bordò
signor suo onorando
NOVELLA I.
Simone Turchi ha nimistà con Geronimo Deodati lucchese. Seco si riconcilia, e poi con inaudita maniera lo ammazza; ed egli, vivo, è arso in Anversa.
Voi m’invitate, madama illustrissima e voi signori, che essendo io venuto ora dalla grande, popolosa e abbondante di ogni cosa al vivere nostro non solamente necessaria, ma che ci possa recare giovamento, delicatura e piacere, la città, dico, di Parigi, che io voglia narrarvi alcuna cosa di nuovo. Che in vero mi pare quasi impossibile di partirsi fuori di Parigi, a chi ogni pochetto di tempo ci dimora, che egli non ne esca pieno di novelle. E lasciando per ora le nuove di quella gioiosa corte, che, come si scrive dell’Africa, sempre alcuna cosa ha di nuovo, nè volendo dire de’ maneggi, che adesso vanno attorno tra i nostri principi cristiani, e tanto. variamente se ne parla da chi forse meno ne sa; io vi vo’ dire un pietoso e degno di compassione accidente, perpetrato con tanta scelleraggine, quanta possiate imaginarvi. Questo caso è seguito tra due mercanti della gentile città di Lucca, colà nella Fiandra, nella nominatissima, molto ricca, mercantile e festevole terra d’Anversa. In quel luogo è quasi come un mercato generale a tutti i cristiani dell’Europa e d’altrove, e vi è una maniera di vivere molto libera e viepiù dimestica assai, che in molti altri luoghi. Ora tra l’altre; dimestichezze che in Anversa sono, una ce ne è, che ora vi narrerò. Costumano le figliuole da marito, come diventane grandicelle, per l’ordinario avere tutte alcuni giovani loro innamorati, i quali da esse si chiamano servitori. Quella dipoi è più stimata, che più ne ha. Quelli che le corteggiano, e si dichiarano loro servitori, vi vanno nelle case liberamente tutto il dì; e ancora che ci siano il padre e la madre, non cessano visitarle e corteggiarle, ed ancora staisi a parlar seco mattina e sera. Le invitano anco bene spesso a disiòari e cene, e come qui si dice, a banchettare a diversi giardini; ove le fanciulle e giovanette, senza guardia di chi si sia, liberamente con gli amanti loro vanno; e colà se ne stanno tutto il dì in canti, suoni, balli, mangiare e bere e in giuochi, con quella compagnia che l’amante avrà invitata. La sera l’amante prende la sua signora, e a casa di le; l’accompagna e la rende alla madre, la quale amorevolmente ringrazia il giovane del favore ed onore che ha fatto alla figliuola. Egli, riverentemente baciata la fanciulla e la madre, appresso se ne va per i fatti suoi. Il baciarsi colà in ogni luogo e tempo è lecito a ciascuno. Questa vita fanno le fanciulle da marito; ma come sono maritate non è più lecito loro a fare l’amore con persona, almeno apertamente. Che ciò che poi le maritate facciano, io non ne sono molto curioso a investigarlo, essendo cose che in segreto si fanno. PQnno ora essere circa quattordici anni o quindici, che in Anversa era per nobiltà, oneste ricchezze e dimestica e gentilissima pratica in grandissimo prezzo, ed ancora è, benchè sia di età matura, e non maritata già mai, la signora Maria Veruè, che è delle prime di Anversa. Ella, per le sue bellezze e per la grata e piacevole sua conversazione e altre buone qualitati, aveva più servitori e innamorati, che qualunque altra fosse in Anversa; perciocchè Raminghi, Tedeschi, Francesi, Inglesi, Italiani, Spaglinoli e giovani d’ogni altra nazione, che in Anversa praticavano, tutti le facevano il servitore, e ogni di la corteggiavano, onoravano e servivano; di modo che la sua casa pareva di un governatore del luogo: cos’i da ogni tempo era dagli amanti frequentata.
Filiberto principe di Orango, che fu generale dell’imperadore in Italia, e morì nella ossidione della città di Firenze; fu uno de’ suoi amatori; di modo che per qualche tempo era generale opinione che egli la dovesse prender per moglie. Era in que’ tempi in Anversa Simone Turchi lucchese, agente dei Buonvisi mercanti famosi di Lucca. Prese egli la pratica della signora Maria Veruè, circa quattordici anni sono; e cominciò con tanta assiduità a corteggiarla e servii la, che mai non si partiva da lei, lasciando ogni altra faccenda da canto; di maniera che la signora Veruè mostraa ascilo molto caro. Soleva ella in una sua sala, ove dimorava quando era corteggiata, tenere i ritraili dal naturale di tutti quelli che le facevano servitù. Onde ciascuno, come si metteva a fare seco l’amore, le mandava il proprio ritratto fatto [>er mai:." ili nobile pittore, ed ella con gli altri in sala il faceva attaccare, e ve ne aveva più di quaranta. Dopo quattro anni che Simone Turchi era giunto in Anversa, Geronimo Deodati lucchese ci andò egli con buona somma di danari, e colà a trafficare si fermò, ed entrò in pochi dì nel numero de’ servitori della signora Venie. Quivi pigliò egli stretta conversazione con il Turchi; il quale, come detto vi ho, non era molto diligente ai negozii pertinenti ai Buonvisi. E avendo Simone bisogno di danari, ne richiese al Deodati, il quale in più volte li prestò circa tre mila scudi. Intendendo i Buonvisi il mal governo che il Turchi aveva delle faccende loro, gli levarono di mano la ragione e il maneggio del tutto, e piò di lui non si vollero servire. Esso Turchi, da sè non avendo il modo di negoziare, se ne tornò a Lucca, per appoggiarsi ad alcun mercatante che praticasse in Anversa. Avvenne in quel medesimo tempo che il Deodati anco egli a Lucca se ne ritornò, acciò che ragguagliasse i suoi fratelli di quanto negoziato avea.E mostrando loro i suoi conti, si trovò che Simone Turchi era debitore di circa tre mila scudi. Il perchè fu Geronimo astretto dai fratelli che si facesse pagare, e non perdesse più tempo. Andò il Deodati, e trovato Simone, gli disse come non poteva saldare la ragione con i fratelli, se egli non pagava il debito dei danari a lui in Anversa prestati, come appariva per le cedole di mano sua. Il Turchi si scusò alla meglio che potè, ed iva fuggendo il pagamento, e prolungandolo di oggi in dimane. Ora stimolando i fratelli esso Geronimo, che non badasse alle ciance del Turchi, la cosa andò di modo, che avendo Geronimo prodotte le cedole in giudicio, fu Simone da’ sergenti di corte su la piazza di Lucca sostenuto, e posto in prigione. Fu adunque necessario, se egli volle uscire di prigione, che soddisfacesse al debito che col Deodati avea. E reputandosi essere fuora di misura ingiuriato, cominciò nell’animo suo generarsi un fiero e inestinguibile odio centra Geronimo, benchè di fuora via non si dimostrasse. Tuttavia non cessava di continovo investigare ed imaginare alcun modo e via, per vendicarsi con danno infinito del Deodati. Fra questo tutti due, ma non già di compagnia, tornarono in Anversa. E per essere tra loro già cominciata la nimistà, non si dimesticavano più insieme, come prima solevano: nondimeno erano assidui a corteggiare la,signora Veruè. E parlandosi un d’i tra molti di Simone e delle cose sue, Geronimo, come in dispregio di quello, disse che non sapeva.ciò che il Turchi si potesse fare in Anversa, se non diventava curatiere, che noi Italiani comunemente dimandiamo sensali, perchè da lui stesso non aveva modo di negoziare, non avendo nò danari nè credito. Questa cosa accrebbe grandemente l’odio che il Turchi al Deodati portava; e fece come fanno i carboni dai mantici affocati, che se l’acqua sopragli è spruzzata, più s’infuocauo. e prendono maggior forza e vigore. E così di nuovo risvegliatosi l’odio del Turchi contro Geronimo, divenne viepiù glande e più acerbo, benchè celatosi tenesse. Diceva uno de’ sapienti della Grecia, che se si potesse vedere dentro il cuore dell’uomo. e ciò che nell’animo suo va farneticando e chimerizzandu. quando e irato e tutto intento al vendicarsi, e pieno di mal talento, che proprio si vedria un ardente vaso, come un’olla piena, quando gran fuoco le è acceso sotto, e raggirandosi sossopra l’acqua ardentemente bolle. Cos’i andava sossopra l’animo del Turchi, ed ora una cosa pensava ed ora un’altra, travagliando tuttavia; e tutti i pensieri suoi erano pure a morte e rovina del Deodati. Dissimulava però, come un altro Sinone, la sua pessima e fuora di ogni misura arrabbiata volontà di fare del male; e diceva che Geronimo si ingannava, perchè egli era ben buono a negoziare da sè. E perseverando tutti due con molti altri a corteggiare la signora Venie, a poco a poco cominciarono a rappacificarsi, e pareva che fossero divenuti buoni amici. Essa signora Veruè, acciocchè apertamente dimostrava, faceva più favore al Turchi che agli altri, o fosse che più le piacesse, o perchè largamente, quanto aveva, le donava; che in effetto egli vi spendeva assai, e pitiche il grado suo non comportava. Credevano alcuni che Simone godesse del suo amore, secondo che gli uomini sono più facili a credere il male che il bene. E per dire ciò che io ne udii essendo in Anversa, tutte erano sospizioni d’invidiosi e maldicenti. Ora, che che se ne fosse cagione, il Turchi tanto seppe dire e fare, e si bene cicalare, che persuase essa signora, e le fece vendere una parte de’ suoi beni, e mettere i danari in banco a guadagnare, mostrandole con efficaci ragioni il gran piofitto che ne caverebbe. Si lasciò ella consigliare, e pose in vendita del suo per quattro o cinque mila scudi; e tutto avuto contante diede in mano al Turchi. Simone, avuta questa buona somma di danari, fece compagnia con Vincenzo Castrucci lucchese, e cominciò fare qualche traffico. Ma per potere meglio corteggiare la signora Veruè, lasciò la cura del banco a Gioseffo Turchi suo nipote. Durò la detta compagnia circa tre anni, e per la morte del Castrucci si disfece. In que’ tempi, essendo Simone reintegrato assai, per quanto appariva, nell’amicizia col Deodati, non dopo molto esso Turchi il richiese che fosse contento prestarli tre mila scudi per Ispagna. Il che Geronimo, che andava buonamente, e come si dice, alla carlona, fece molto volentieri, e al tempo statuito ne ebbe il debito pagamento. In questo mezzo il Turchi fece compagnia con i Gigli lucchesi, che in Anversa avevano banco; e di giorno in giorno Geronimo aspettava la moglie che presa avea, che era figliuola di Gian Bernardini nobile lucchese; e tuttavia andava a visitare la signora Veruè, che li faceva assai buona accoglienza, trattandolo da amico e non da servitore, poichè intese lui avere presa moglie. Venne essa signora Veruè, non so come, in non picciola sospizione che le cose del Turchi non andassero troppo bene, reggendolo attendere negligentemente ai maneggi della mercatanzia; e temeva assai de’ danari, che nelle mani dati gli aveva a trafficare. Ed essendo stata avvertita da alcuni della nazione lucchese, ed anco da altri, stette molti dì sospesa tra due di fargliene motto. Alla fine si deliberò parlare col Deodati, e seco consigliarsi, e pregarlo caramente che in questo le dicesse il parer suo, e ciò che egli trovandosi a tal termine, ne farebbe. Onde un dì con molte parole in segreto seco ragionando, gli aperse l’animo suo; alla quale Geronimo in questa guisa rispose: Signora mia, perchè voi, la vostra mercè, ricercate in questo vostro urgentissimo caso il parere mio, a me parrebbe commettere un grandissimo errore, se io liberamente, essendovi quel leale e fedelissimo servidore che vi sono stato e sono, non vi dicessi quanto a me sinceramente ne pare che ricerchi l’utile vostro, e quanto io, se mio interesse fosse, ne farei. Voi mi affermate che molti della nazione mia, ed altri ancora vi hanno avvertita che voi dobbiate assicurarvi dei danari vostri che al Turchi commessi avete, lo sono certamente dello stesso parere, e quanto più tosto, tanto meglio. Onde una delle due cose vi consiglio che dobbiate fare, cioè che vi facciate dar essi danari, o vero che i Gigli, mercatanti reali e da bene, tutta la somma di essi, col guadagno seguitone questi anni, riconoscano da voi. Piacque sommamente il savio consiglio alla signora Veruè, e si deliberò metterlo in esecuzione. Onde presa la opportunità, scoperse a Simone il desiderio suo, dicendogli che a questo era stata consigliata da molti, e massimamente da’ Lucchesi; e, per quanto affermano alcuni, ella nominò il Deodati. errore in vero grandissimo è, nessuna cosa che essere debba Segreta, dirla a donne; perchè in effetto il più di loro male sanno tacere, ove elle veggiano nulla di profitto. Onde Catone Censorino soleva dire di nessuna cosa aversi più da dolere, che se cosa alcuna che dovesse essere tenuta segreta, l’aveva a una donna detta. Si sa che ordinariamente quasi tutte le donne sono ambiziose, e si persuadono tutte di saper viepiù di ciò che sann<>. ( tutte bramano di essere credute che siano di grandissimo governo; e spesse volte alcune di loro si lasciano uscire di bocca, che se avessero la bacchetta in mano, sapriano assai mèglio reggere uno Stato che gli uomini. Ed io voglio credere che talvolta dicano il vero, alla barba di molti uomini di così poco ingegno e poca capacità nelle cose virtuose, che non vagliono l’ac [uà che essi logorano a lavarsi le inani. Ma io non vo’ora entrare;i sindicare nè gli uomini nò le donne; con ciò sia che mia madre fu donna, e io sono nato uomo. Bastici per adesso dire che Geronimo non fece troppo bene a dir del male del Turchi alla signora Veruè, perchè non poteva esortarla a levare i danari delle mani a quello, se non perchè male li governava, e non era sicuro; ° così il vituperava, come uomo che non sapeva governarsi. Ma dall’altra banda fece male e peggio la donna adicelare al Turchi, chi fosse stato colui che consigliata l’avea. Era bene assai avergli detto che alcuni mercatanti, uomini da bene, l’avevano avvertita ad assicurarsi del suo, e non venire a particolare nessuno. Questo tanto ve ne ho voluto dire per ciò, che reputandosi il Turchi essere offeso per la prigionia di Lucca, e in Anversa poi, allora che Geronimo disse che non sapevacciocchè quello potesse fare, se non diventava sensale, ancorachè riconciliato si fosse, avendo nondimeno deliberato tra sè farne la vendetta, l’essere poi stato servito dei tre mila ducati per Ispagna, aveva di modo addolcita l’acerbità dell’odio antico, che quasi era in tutto estinto, secondo che esso Simone, dovendo essere arso, confessò. Ma questa ultima ingiuria, che egli grandissima ed acerbissima stimava, fu cagione di svegliare e riaccendere in modo le sopite fiamme della vecchia nimistà, che al tutto Simone si propose levarsi Geronimo dinanzi dagli occhi, avvenissene poi ciò che si volesse. Arrogi a questo, che egli in questa mala opinione si confermava tanto più, quanto che alcuni di innanzi, andando di notte attorno, gli era stato fatto in viso da un suo nemico un brutto sfregio; onde credeva che Geronimo fosse stato colui che l’avesse ferito. Ma di gran lunga si ingannava, come da poi si discoperse, e si venne in cognizione di colui che sfregiata l’aveva. Voi dovete sapere, per dirvi ciò che da molti degni di fede intesi, che Simone era uomo di pessima natura e di malissimi costumi, e tra l’altre sue taccherelle aveva la più mordace e velenosa lingua che si sentisse giàmai. Onde per mettere discordia tra due amici, era artefice meraviglioso, ed ordiva sì maestrevolmente gli ingannevoli lacci suoi, che li faceva parere verisimili. E in somma egli era una sentina di ogni vizio e malignità, e secondo che del male del prossimo ciascuno condolere si deve, e dèi bene di quello rallegrarsi, egli faceva tutto il contrario. Lodava molto le crudeltati fatte da diversi tiranni, e cercava d’imparare il modo di fare alcuna crudeltà. Aveva poi sempre in bocca non essere al mondo cosa di maggior dolcezza, che delle ricevute ingiurie prendere crudelissima vendetta. Essendogli adunque questo strano ghiribizzo di vendicarsi entrato in capo, deliberò di ancidere Geronimo, e farne sì memorabile strazio, che in memoria d’uomini se ne parlasse, e sovra il tutto vendicarsi di modo, che dalla giustizia non potesse essere offeso, e nondimeno restasse negli animi di tutti che egli fosse stato l’autore dell’omicidio.
Fatta questa iniqua e ferma’ deliberazione, gli occorse in mente di usare il veleno: ma non sapendo come ne potesse avere, che non si fosse saputo, si levò da colale pensiero, come difficile e periglioso, e couchiuse tra so col ferro fare l’effetto. Ma perchè era podagroso e debole delle braccia e delle mani, conosceva le sue forze non essere gagliarde a perpetrare l’omicidio, e che era necessario avere compagno in simile effetto. Lasciava egli la cura del banco, come detto vi ho, a Gioseffo suo nipote, del quale non si volle confidare. Onde si rivoltò a un servitore che teneva, che era Romagnuolo, chiamato Giulio, al quale disse di voler ancidere il Deodati. 11 perfido e scellerato Romagnuolo, che era simile di natura al Turchi, si offerse di far tutto. I Gigli per onorare Simone, non conoscendo la sua malvagia natura, avevano in quei giorni datogli il compimento del banco, e mandatogli sovra ciò la carta di procura. Il perchè Simone, come procuratore dei Gigli, fece fare a nome di quelli, per mano di notaio pubblico, una scrittura, come i Gigli riconoscevano dalla signora Veruè quella somma di danari che ella al Turchi data aveva; del che ella rimase soddisfatta. Ora crescendo il desiderio nel Turchi ogni dì più di ammazzare Geronimo, avvenne un di che essendo egli in casa di una cugina della signora Vernò, vide una strana foggia di una sedia; la quale, come l’uomo su vi sedeva, subito il fondo di quella si calava in giù, e tantosto dalle parti dinanzi, ove l’uomo suole appoggiar le braccia, uscivano dal legno fuora due ferri grossi e forti, i quali discendevano tra le cosce del sedente per si fatto modo, che l’uomo vi rimaneva talmente inchiavato, che non si poteva movere, ne a patto veruno escirne fuora, se non ci era la sua propria chiave. Cotesta sedia si fece prestare il Turchi, e la fece portare a un giardino che teneva, ove spesso banchettava la signora Veruè ed altro. Avondo dunque deliberato prevalersi della detta sedia, un di, parlando col Deodati, li disse che al suo giardino egli aveva i più belli cavoli fiori che mai in Anversa si fossero veduti. Geronimo li dimandò se ne poteva avere, per metter anco egli nel suo giardino: cui il Turchi rispose che venisse quando voleva, e che ne sceglierebbe quelli che più li piaceriano. Ora non si curò il Deodali altrimenti andarvi, impedito forse da altri negozi. Il che veggendo Simone, un giorno disse di assai buon mattino al Deodati: Geronimo, egli è venuto da Lione un mercatante, che non vuole per ora essere conosciuto in Anversa, e si è ritirato al mio giardino. Egli per me ti prega che tu venga fino là, che ti ha da parlare di cose di grandissima importanza. Credette Geronimo al Turchi, e disse di andarvi: e così subito che ebbe desinato, solo vi ai. dò. E non trovandovi il mercatante, dimandò ove fosse. Il Turchi rispose che era ito in un suo servigio, ma che tantosto ritornerebbe. Si misero tutti due a passeggiare per la sala terrena, ove la ingannevole sedia era posta. In quello entrò il ribaldo Romagnuolo, e disse loro che il mercatante veniva; e reggendo che il Deodati era vicino alla artificiosa sedia, non vi mettendo mente, egli il prese di peso, e lo mise dentro quella a sedere. Credeva Geronimo che il Romagnuolo scherzasse; ma non fu si tosto assiso, che si sentì d’ogni intorno essere inchiavato e prigione; e quasi fuora di sè, non sapeva che dirsi. Usci lo scellerato Romagnuolo fuora della sala, e serrò l’uscio della stanza. Stava il Deodati come trasognato, quando il traditore Turchi, preso un pugnale pistoiese che colà aveva messo, disse: Geronimo, tu ti devi ricordare delle gravissime ingiurie che a Lucca e qui" mi hai fatte. Ora non siamo a Lucca, -ve tu possa farmi incarcerare; tu sei in mio potere. tu ti delibera farmi uno scritto di tua mano del tenore che è questo da me scritto, o io con questo pugnale ti levo la vita. Lesse il misero Deodati lo scritta per lo quale si confessava debitore di alcune migliaia di scudi al Turchi, e disse che ne faria un simile; e di propria mano ne fece uno, e lo sottoscrisse, facendo la data di alcuni mesi innanzi. Ci sono molti che affermano lo scritto essere stato di altro tenore, cioè che Geronimo confessava avere proceduto malignamente contro il Turchi a Lucca, ed essere stato egli che sfregiato l’avea sul viso, acciò che paresse che esso Turchi avesse giusta cagione di ammazzarlo. Ma sia come si voglia, può essere l’uno e l’altro. Avuto che ebbe il Turchi Io scritto, e ripostolo in seno, cacciò mano al pistoiese, e diede sul capo al Deodati una ferita. Ma perchè era debole, lo ferì alquanto su la testa e in una guancia. Il misero Geronimo dimandava con pietosa voce: mercè, per Dio, mercè, non mi ancidere. Il Turchi o si movesse a pietà, o non si sentisse forte, che più si crede, o che che se ne fosse cagione, gettato il pugnale in terra, se ne uscì fuora; e trovato Giulio che l’attendeva, li disse: io gli ho data una ferita, e non mi dà il cuore di ucciderlo: che faremo noi? Che faremo? rispose il ribaldo Romagnuolo: poichè, padrone, siamo entrati in ballo, egli ci conviene ballare, ed dati: Geronimo, egli è venuto da Lione un mercatante, che non vuole per ora essere conosciuto in Anversa, e si è ritirato al mio giardino. Egli per me ti prega che tu venga fino là, che ti ha da parlare di cose di grandissima importanza. Credette Geronimo al Turchi, e disse di andarvi: e così subito che ebbe desinato, solo vi ai. dò. E non trovandovi il mercatante, dimandò ove fosse. Il Turchi rispose che era ito in un suo servigio, ma che tantosto ritornerebbe. Si misero tutti due a passeggiare per la sala terrena, ove la ingannevole sedia era posta. In quello entrò il ribaldo Romagnuolo, e disse loro che il mercatante veniva; e reggendo che il Deodati era vicino alla artificiosa sedia, non vi mettendo mente, egli il prese di peso, e lo mise dentro quella a sedere. Credeva Geronimo che il Romagnuolo scherzasse; ma non fu si tosto assiso, che si sentì d’ogni intorno essere inchiavato e prigione; e quasi fuora di sè, non sapeva che dirsi. Usci lo scellerato Romagnuolo fuora della sala, e serrò l’uscio della stanza. Stava il Deodati come trasognato, quando il traditore Turchi, preso un pugnale pistoiese che colà aveva messo, disse: Geronimo, tu ti devi ricordare delle gravissime ingiurie che a Lucca e qui" mi hai fatte. Ora non siamo a Lucca, -ve tu possa farmi incarcerare; tu sei in mio potere. tu ti delibera farmi uno scritto di tua mano del tenore che è questo da me scritto, o io con questo pugnale ti levo la vita. Lesse il misero Deodati lo scritta per lo quale si confessava debitore di alcune migliaia di scudi al Turchi, e disse che ne faria un simile; e di propria mano ne fece uno, e lo sottoscrisse, facendo la data di alcuni mesi innanzi. Ci sono molti che affermano lo scritto essere stato di altro tenore, cioè che Geronimo confessava avere proceduto malignamente contro il Turchi a Lucca, ed essere stato egli che sfregiato l’avea sul viso, acciò che paresse che esso Turchi avesse giusta cagione di ammazzarlo. Ma sia come si voglia, può essere l’uno e l’altro. Avuto che ebbe il Turchi Io scritto, e ripostolo in seno, cacciò mano al pistoiese, e diede sul capo al Deodati una ferita. Ma perchè era debole, lo ferì alquanto su la testa e in una guancia. Il misero Geronimo dimandava con pietosa voce: mercè, per Dio, mercè, non mi ancidere. Il Turchi o si movesse a pietà, o non si sentisse forte, che più si crede, o che che se ne fosse cagione, gettato il pugnale in terra, se ne uscì fuora; e trovato Giulio che l’attendeva, li disse: io gli ho data una ferita, e non mi dà il cuore di ucciderlo: che faremo noi? Che faremo? rispose il ribaldo Romagnuolo: poichè, padrone, siamo entrati in ballo, egli ci conviene ballare, ed altrimenti se il fatto resta così, egli ci farà morire noi. Va dunque tu, e levagli la vita, soggiunse il Turchi. Giulio allora che doveva in Romagna, per quelle loro maladette parzialità, ove ammazzano sino i fanciulli nella culla e per le chiese, doveva, dico, essere stato a cento omicidii, entrò dentro nella. sala; e preso il pistoiese, andò alla vòlta dello sfortunato Deodati; il (piale, come vide venirselo addosso, pietosamente gli disse: deh, Giulio, per l’amor di Dio non mi ancidere: io già mai non ti offesi. Se tu quindi cavare mi vuoi, io ti farò.or ora uno scrittod mia mano di due o tre mila ducati, e di molti più, se più ne vuoi; e ti prometto la fede mia di non mai offenderti nè in detto ne in fatto. E volendo altre parole dire, il crudele llomagnuolo gli diede sul capo una mortale ferita, e due e tre pugnalate nel petto; di maniera che lo sventurato Geronimo miseramente se ne mori. Fatto così orribile omicidio, Simone entrò dentro, e da Giulio aiutato dischiavò la sedia, e cavo cadavere Inora. Tutti due poi, noi. potendo portare, lo strascinarono per terra tino (lenirò la cantina, e quivi in un cantone il seppellirono. Andarono poi a fare i l’atti loro così lieti e con buoni visi, come se avessero fatta una lodevole e santa impresa. La sera, fu indarno dai suoi aspettato Geronimo a cena e a letto. Il giorno seguente poi non comparendo Geronimo da nessuna banda, fu cagione che per versa molte cose si dicessero. Erano i due luogotenenti giudici, il civile, dico, e il criminale, cugini della signor Veruè, e di tutti e due il Turchi era forte dimestico, e spesso erano soliti familiarmente di mangiare insieme. Il perchè esso Turchi, il secóndo giorno dopo il perpetrato omicidio, andò a cena col luogotenente civile. per spiare ciò che del Deodati si diceva. Onde venendo a parlare dell’occorrenza del caso, e che gran cosa era che non si ritrovava indizio veruno di Geronimo, ove fosse andato. disse il Turchi: egli si vuole. signor mio. usare ogni diligenza per vedere, se possibile è, di spiare alcuna cosa di lui. Noi avemo, soggiunse il giudice, oggi conchiuso in consiglio di ricercare dimane tutti gli orti e le case che sono alla tal banda. ove anco io ho il mio giardino, e non mancale d’investigare per ogni luogo ove egli era uso di bazzicare. Simone disse che era benissimo fatto, e gli pareva un’ora mille anni di partirsi. Cosi penato che si fu. trovate alcune sue scuse, si parli, e Come fu a Gasa, a Giulio disse: egli, Giulio, ci conviene avere gli ocelli di A.rgoj e provvedere che questa notte facciamo di modo, che dimitre non siamo cólti all’improvviso; e gli disse la deliberazione che in consiglio si era fatta. Poi li soggiunse: tu sai che la sedia ancora è piena di sangue. Egli bisogna che adesso adesso tu te ne vada al giardino, e che tu lavi molto bene essa sedia, di modo che non ci rimanga una minima gocciola di sangue. Medesimamente la parete del muro, ove essa sedia era appoggiata, secondo che il sangue su vi è spruzzato, ne ò tutta schiccherata. Il perchè ancora il muro bisogna nettare, e guardare bene e minutamente per lo mattonato, se quando noi strascinavamo il corpo alla cantina, le piaghe insanguinarono il luogo, acciò non vi si vegga un minimo segnaluzzo di sangue; che questo avermi detto di voler ricercare tutti que’ luoghi, mi fa dubitare che non ci sia qualche indizio o sospetto del l’atto, o vero che la mente del giudice non sia presaga del caso. Fatto tutto ciò che ti ho detto, ei ti conviene poi disotterrare il corpo, e prenderlo in spalla e gettarlo dentro il pozzo, cheè su la crociata delle tre vie. La notte sarà buia, e nessuno a quell’ora va per la strada; e così verremo ad assicurare i casi nostri. Giulio rispose che farebbe il tutto con ogni diligenza, eccetto che non gli bastava l’animo di poter portare quel corpo, perciocchè era di troppo gran peso, e che si ricordasse che. allora che lo seppellirono, a pena tutti due d brigata il potevano per terra strascinare. Orsù, soggiunse Simone, va e fa il resto in questo mezzo, e io ti manderò poi il Piemontese, e gl’imporrò ch’egli faccia quanto tu gli dirai; ma avvertisci, come avrete buttato il corpo nel pozzo, se tu puoi con inganno fare che il Piemontese caschi dietro al corpo. Il pozzo e molto profondo, ove egli, cascandovi dentro, resterà in un tratto soffocato. E se per sorte la cosa non ti riuscisse, tu sai che egli non porta arme, ed è più vile assai che un coniglio. Cingiti a lato il pistoiese, e con quello ammazzalo, e lascialo colà sulla strada. E chi sarà che possa presumere che egli da noi sia stato morto? Ora vedete se questo Turchi era scellerato in cremisino, che non li bastando avere crudelissimamente assassinato e morto il povero Deodati, adesso voleva che si uccidesse il Piemontese, che era un altro suo servitore, e da lui non era offeso. Fatto adunque accordo cotale con Giulio, esso Giulio andò di lungo a nettare e purgare la casa, sì come gli eia stato imposto. Simone poi, quando il tempo li parve opportuno, chiamato a sè il Piemontese, li comandò che allura andasse al giardino, e tutto quello facesse che Giulio gli ordineria. Andò il Piemontese, e picchiato all’uscio, e fattosi (parlando) conoscere chi era, fu da Giulio introdotto. Aveva Giulio un lume in mano, e andando innanzi, disse al Piemontese che lo seguitasse; e di già si era spedito di purgare la sedia e lavare per tutto il sangue, e quasi aveva disotterrato il cadavere. Come furono nel vólto de! vino, Giulio, messo su una panca il lume, disse: Piemontese, aiutami a cavare questo corpo fuora di questa fossa. Oimè! rispose egli, che morto è cotesto? Non ricercare più innanzi, li gridò Giulio, ma senza far più motto aiutami, che io vo’che lo portiamo al tale pozzo, e dentro ne lo gettiamo. Il Piemontese, che era buon uomo e timido, e conosceva il Romagnuolo essere di pessima natura, e bravo e manesco, fece quanto quello voleva. E cosi cavarono fuora il corpo, il quale subito al volto e ai panni fu dal Piemontese per lo corpo del povero Deodati riconosciuto. Del che forte si meravigliò, ma nulla fu oso dire. Preso adunque il cadavere, uno per li piedi, e l’altro per lo capo, uscirono del giardino. Come furono fuora della porta, lasciò il Piemontese cascare in terra il corpo, e si diede, quanto le gambe il portavano, a pagare di calcagni, e via fuggire; di modo che Giulio, còlto all’improvviso, non fu sì presto a seguirlo, come l’altro era stato a prendere l’avvantaggio. Li corse dietro buona pezza Giulio, ma per l’oscurità della notte, perdutanell’orma, e più non sentendo la pesta di quello, se ne tornò al giardino, e fece ogni prova* per portar il morto al pozzo, ma non fu possibile. Onde strascinatolo in casa, che non era quattro braccia fuora della porta, e serrato l’uscio, tutto sbigottito e di malissima voglia, andò a trovare Simone, e li narrò quanto era seguito. Restò il Turchi quasi disperato, e non sapeva che farsi, veggendo la manifesta sua rovina. Giulio allora in questa forma a parlar cominciò: Io non so ove questo poltrone Piemontese sia ito, ma poichè egli sa che io ho disotterrato il corpo di Geronimo, che senza dubbio avrà riconosciuto, io resto in pericolo della vita. A me pare essere necessario che io me ne vada con Dio, perchè se il Piemontese mi accusa, essendo io fuggito, e voi restando qui, sarà aperto indicio che non voi della morte di Geronimo, ma io sono il colpevole. Parve al Turchi che il consiglio del Romagnuolo fosse buono. Il perchè li diede tutti quelli danari che in borsa avea, e di più due catene d’oro che nella tasca si trovò, che potevano essere di peso di trenta in trentatre scudi l’ima; e li promise che ovunque andasse, sempre lo soccorrerla di danari. Giulio, nell’aprire delle porte, della terra se ne uscì, e andò alla volta di Aquisgrana. Il Piemontese andò tutta la notte errando ora qua ed ora là, tra so chimerizzando ciò che dovesse fare. Simone, pieno di vaipensieri, nò poteva dormire, nè sapeva che farsi. Deliberò più. I volte, come veniva il giorno, fuggirsene; ma li pareva poi che si faceva sospettissimo e colpevole del perpetrato omicidio, e che essendo andato via Giulio, era più sicuro a restare. Il Piemontese, come fu di, andò a trovare quelli del Deodati, e narrò loro ciò che gli era accaduto. Il che, non so come, subito fu rapportato a Simone. Egli, inteso questo andò a casa il luogotenente criminale, e li denunziò come inteso aveva che Giulio suo servitore aveva anciso il Deodati, ed era fuggito via. Il luogotenente, avuta questa informazione, se n’andò a trovare un suo zio, uomo vecchio e nei giudicii molto pratico, che gli aveva rinunciato l’uflicio del luogotenente, e li disse ciò che della morte del Deodati gli era stato denunziato. Li dimandò il vecchio se aveva ritenuto il Turchi: egli disse di no. Di che il zio agramente il ripigliò, e gl’impose che subito il facesse sostenere. In questo mezzo quelli di Geronimo, inteso il gravissimo e nefando caso, andarono a trovare alcuni della nazione loro, amici di Geronimo, per consultare ciò che fare dovevano in questo caso; di modo che per Anversa l’atrocità dei nefario assassinamento cominciò a divulgai si. Il luogotenente eliminale mandò subito per Simone, al quale come fu giunto, comandò che di quella casa più non t.i partisse. Egli rispose che sai ia ubbidiente. Notò il giudice che il Turchi. avuto il comandamento, tutto si cangiò in viso; e sospettò non mezzanamente di lui che fosse colpevole. Avea Simone nella tasca lo scritto di mano di Geronimo. Presolo adunque, si accostò al fuoco che in la camminata ardeva, e ve lo gittò dentro. Il luogotenente, veduto questo atto, il dimandò che cosa egli avesse arso, ed ebbe per risposta che era un poco di carta che non m’ontava nulla. Mentre che questo si faceva, vennero gli amici del Deodati, e con loro condussero il Piemontese; il quale, segretamente dal luogotenente esaminato, li nano di punto in punto quanto gli era occorso. Egli disse agli amici del Deodati che stessero di buon animo, e che si faria tutta quella giustizia che così enorme caso ricercava. Tenne appo sè il Piemontese; il quale, poichè gli altri andarono via, fece venire viso a viso col Turchi. Non seppe Simone negare che non avesse comandato al Piemontese che andasse al giardino, ed ubbidisse a Giulio; ma che ciò fece, perchè Giulio gli aveva detto che bisognava movere, alcune lettieie ed accomodare, che solo fare non poteva. Nondimeno egli così freddamente il diceva, che diede grandissimo sospetto di sè; il perche fu ristretto in carcere. Rimase il Piemontese in casa del Giudice. Si mandò a pigliare il cadavere del Deodati; e fu messo innanzi al Turchi, per soddisfare a molti, che dicevano che se S; monell’avesse anciso, le’ piaghe stilleriano sangue. Ma questa opinione è poco vera; e tanto più nel proposito nostro, quanto che già in quel corpo non ci era ri in a so più sangue. Fu interrogato il Turchi se conosceva di chi fosse stato quel corpo, e rispose che li pareva quello del-Deodati. Congregato il lor consiglio, i giudici disputarono ciò che era da fare circa il Turchi, e se potevano darli tormenti, o no. E 1 essendo vari di opinioni, procedevano lentamente, parendo a molti che non ci fosse indiciò alla tortura. E andando il fatto alquanto in lungo, Giulio, che era in Aquisgrana. si deliberò mandare un messo in Anversa, sì per avvisare il Turchi dove era. e si ancora per farsi portare alcuni panni che teneva in Anversa in casa di una meretrice sua dimestica. Onde scrisse a Simone come era in Aquisgrana. e che se era interrogato della morte di Geronimo, rispondesse che nulla ne sapeva; e che essendo il corpo trovato nel suo giardino, fermamente credeva che Giulio fosse stato il malfattore; delche il fuggire di lui ne dava indicio apertissimo. Fatta questa lettera, informò un contadino, come si dovea governare a trovare il Turchi, e lo mandò in Anversa. Andò il contadino, e scordatosi il nome del Turchi, nè sapendo leggere, ed investigando di quello ] nonsooome, nominò Giulio Romagnuolo. E perchè si diceva per tutto che il Romagnuolo aveva assassinato il Deodati, vi fu un borghèse dimestico del giudice criminale, il quale condusse il contadino a casa il giudice. Quivi il povero uomo esaminato, diede la lettera al giudice, che portava al Turchi. Letta il giudice la lettera, e tornato di nuovo ad esaminare Simone, lo fece porre al tormento. Ma lo scellerato Turchi, secondo che era stato animoso a far morire Geronimo, piagnendo come uno sferzato fanciullo, il suo assassinamento, senza aspettar tortura, timidissimamente confessò. Fatto il giuridico processò, e dal reo ratificato, fu data la definitiva sentenza; e fa il Turchi condannato ad essere arso pubblicamente su la piazza d’Anversa a fuoco picciolo e lento. Inteso che ebbe lo sciagurato Turchi la crudelissima morte che doveva solferire, stette buona pezza come di sè fuora, e quasi come disperalo non si sapeva disporre a morire, e pur sapeva essere necessario che in breve morisse. Li fu mandato (per disporlo a confessarsi, o pazientemente sofferire la meritata morte in parte di soddisfazione de’ suoi peccati, per la virtù della passione del nostro Redentore), li fu, dico, mandato un frate di San Francesco, italiano, uomo di bonissimi costumi e moltoeloquente. Egli con l’aita del nostro Signor Iddio li predico di modo, e sì ferventemente l’esortò, che il povero Turchi si confessò genetalmente con grandissima contrizione, e si dispose patirò là indile con tutta quella pazienza che fosse possibile. Lo pregò il santo frate che (piando saria arso, e che egli diresse: Simone, ora e il tempo della penitenza, volesse rispondere: Si. padre. Promise il Turchi di tarlo. Fu al determinato giorno ìnchiavato Simone sul’istessa sedia nella quale era Geronimo statoanciso; sto su un curro, fu per tutte le strade di Anversa condotto, e sempre era seco il buon Irate ohe l’andava confortando*. Ma come si giunse alla piazza, Cu deposta la sedia con Simone dentro inchiavatoj e dai ministri della giustizia attorno li fu accesi. il Cuoco non molto grande. E così andavano aggiungendo dèlh legna secondo, che bisognava, tuttavia perciò di modo, che il fuoco non divenisse troppo veemente, ma tale che a poco a poco per maggior sua pena il misero Turchi si arrostisse, (ili stava lo frate tanto vicino, quanto dall’ardore del fuoco gli era concesso, e assai sovente dicea: Simone, ecco il tempo fruttuoso della penitenza. 11 povero uomo, fin che ebbe lena di parlare, sempre rispose: Sì, padre. E per quanto egli si può per gli atti esteriori giudicare e comprendere dimostro il povero Turchi una grandissima contrizione e pazienza, e prese in grado si acerba e vituperosa morte, come era quella che lo sfortunato SOflèriva. Come poi lo conobbero morto, prima che si Unisse di essefe dal fuoco in tutto disfatto, presero i! mezzo arso corpo, e lo portarono Inora della terra, e il misero sovra una alta trave incatenato con catene di ferro, e li cinsero a lato il pugnale pistoiese, col quale il Deodati era stato morto. Piantarono poi la la trave in terra ben fondata su una. corrente e maestra strada. acciò fosse «la tutti veduto di che vituperosa morte fosse stato punito colui, die il tale omicidio avea crudelmente commesso. Ora a me inova di credere che trovandosi il misero Simone pentito de’ peccati suoi. e. come si dimostrò, ben disposto a morire, poichè necessario gli era essere molto, poco si curasse di «pia iunque morte iini>se la vita, purchè senza vergogna e vituperio SS ~tato morto; conciossia cosa che non la qualità delsupplicio ma la cagione e quella che rende la morte abominevole e ignominiosa. Può bene la virtù onorare qualunque sorte di morire, ma la morte in quale modo si sia. non può nella virtù porre macchia alcuna già mai. Quando il contadino, che Giulio mandò con la lettera, fu dal giudice sostenuto, mandarono i magistrati d’Anversa un ambasciatore in Aquisgrana al magistrato della giustizia, per avere il perfido Romagnuolo, ed acerbamente punirlo. Ma que’ signori noi vollero dare: ed acciò che non restasse la sua scelleraggine impunita, fecero prendere esso Giulio, il quale confessò l’omicidio come era seguito. Onde avendoli fatto scavezzare le braccia, le cosce, le gambe, e rotto il petto, lo tesero in una ruota, ove fra due dì meritamente se ne morì. Ma per ultimare, si può dire che chi ben pensa la fine delle azioni sue, di rado opera male; e chi non ci pensa, vive e muore come una bestia. Onde si può affermare questa nostra vita essere un fluttuante oceano pieno di ogni miseria. Mi piace anco di dirvi che messer Giovanni il Biondo, che tradusse di latino in francese le croniche del Carioue, nelle addizioni sue fa brevemente menzione di questo orrendo caso, nominando Simone Turchi e Geronimo Deodati, acciò non si creda che io solo narri questo esecrabile assassinamento.
IL BANDELLO
AL MAGNIFICO E LEALE MERCATANTE
messer
CARLO FORNARO
genovese
Andai, non è motto, a far riverenza agl’illustrissimi eroi signori miei, il signor Federico Gonzaga di Bozolo e il signor Pirro Gonzaga di Gazuolo suo fratello, die tornavano tutti due alla corte in Francia, e alloggiati erano in casa del molto illustre signore Alfonso Visconti il cavaliere loro cognato. Erano allora detti signori in camera de’ signori figliuoli del signor cavaliere e della signora Antonia Gonzaga; e stavano ad udire il dotto e gentile messer Alfonso Toscano, precettore di essi fanciulli, che loro leggeva in, Valerio Massimo (metta parte, ove tratta della somiglianza degli aspetti di alcuni uomini, che tra loro sono cos’i simili, che con difficoltà si riconosce l’uno dall’altro. Io entrai in camera, e salutati quelli miei signori, dopo le gratissime accoglienze da loro a me fatte, il signor Pirro mi disse: Bandella mio, il precettore diquesti nostri nipoti ha letto che in Roma furono due di aspetto così a Pompeo Magno simili, che a tutti rappresentavano rsso Pompeo: cosa che mi pare meravigliosa. Non è gran meravìglia questa, signor mio, risposi io, perchè degli altri assai ce ne sono: e non e molto che qui in Milano erano due fratelli mercatanti genovesi, Gasparo e