Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella XLV
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vostra madre, donna in ogni secolo senza superiore, esser stata quella che a scriver il libro de le mie novelle m’incitò e con infinite ragioni mi sospinse. Però giudico convenevole che voi, come erede de la beltà, costumi, valore, umanità, cortesia e di tante altre doti di lei, siate quella a cui meritevolmente questa novella si doni. E ben che il dono sia picciolo, se vi degnarete graziosamente accettarlo, farassi di voi degno. Il che son certissimo che voi, la vostra mercè, farete. Feliciti nostro signor Iddio tutti i vostri pensieri. E basciandovi le mani umilmente, a la vostra buona grazia mi raccomando. State sana.
Poi che così affettuosamente, amorevoli donne e voi costumati gentiluomini, per vostra grande umanità pregato m’avete che io, con qualche novella, così bella e onorata compagnia voglia intertenere e insiememente ancora dilettare, fin che venga l’ora che voi, belle donne, montando in carretta andiate per la città a diporto e noi vi accompagniamo, ben che a l’uno e a l’altro fare non mi conosca bastevole; nondimeno parendomi assai minor male di quanto mi richiedete a la meglio ch’io potrò ubidirvi, che nol facendo mostrarmi ai vostri onesti desii ritroso e poco cortese, intendo dirvi una novella o sia un nuovo accidente avvenuto ad un amico mio, il quale molti che qui sono domesticamente conoscono e dal qual accidente potrete tutti diversamente trarre qualche profitto. Io vi diceva poco fa, e il mio dire con qualche diritto e saldo fondamento v’ho approvato, esser ragionevole che sì come negli uomini è cosa di gran senno far servitù con donna di più nobil sangue che egli non sia, che parimente ne le donne sarà sempre tenuto saggio avvedimento il saper schifar d’amar uomo di maggior grado che ella non è. Onde vi dico che non è ancora gran tempo che la reina Anna, sorella di Lodovico che fu re d’Ungaria e moglie di Ferdinando arciduca d’Austria, che oggi re degli ungari e dei boemi si dice, insieme con madama Maria, figliuola di Filippo re di Spagna e già moglie del detto Lodovico si ritirò in Ispruc, terra tra’ tedeschi molto famosa e dove assai sovente si vedeva che la corte lungamente dimorava. Era la stanza di queste due reine dentro il palazzo del re Massimigliano eletto imperadore, il quale è tanto vicino a la chiesa maggiore che senza esser dal popolo vedute potevano a lor bel grado, per via d’una coperta galleria che congiunge il palazzo con la chiesa, andar ad udir le messe ed altri divini uffici che in quella celebrar si costumano. E così quasi ogni dì insiememente con le lor damigelle ed altri signori e gentiluomini de la corte le reine v’andavano. Medesimamente era stato fabricato dentro la chiesa un alquanto elevato e magnificamente apparato tribunale, ove di brigata agiatamente tutte capevano. Ora avvenne che messer Filippo di Nicuoli cremonese, che in quei dì per la recuperazione del ducato di Milano fatta da’ francesi s’era di Lombardia partito, si trasferì in Ispruc e s’acconciò per segretario col signor Andrea Borgo, perciò che era giovine assai dottrinato e bellissimo scrittore e uomo intromettente ed avvenevole. Questo, molto frequentando la detta chiesa tutto il dì, e veggendo la reina Anna sovra tutte l’altre donne che alora tra’ tedeschi fossero bellissima e di leggiadri e signorili costumi ornata, non accorgendosi, riguardandola, de l’amoroso veleno che egli con gli occhi beveva, credendosi al suo piacer sodisfare mirandola ed intentamente considerandola, se stesso fuor d’ogni convenevolezza miseramente impacciò, di lei ardentissimamente innamorandosi; perciò che tanto e sì fieramente s’accese che prima si sentì più in poter d’altrui essere che punto s’accorgesse de la perdita di se stesso e de la propria libertà. E ancor che avesse riguardo a l’altezza ed eccellenza dì tanta donna ed al basso grado del legnaggio ove egli era nato e che considerasse la fortuna dove in quel tempo viveva, nondimeno tanto non seppe fare che egli non si trovasse in tutto aperto il petto a le perigliose fiamme d’amore, e quelle in tal maniera dentro vi ricevve che già avevano tanto in alto profondate le radici e quelle di modo abbarbicate che non v’era pur via di poterle quindi più diradicare. Essendo adunque messer Filippo di questa sorte che udita avete da’ lacci d’amore annodato e giudicando ogni opera che facesse per disciogliersi esser gettata via, si dispose con tutto il core e con ogni sollecitudine e diligenza questa così alta ed onorata impresa, avvenissene ciò che si volesse, sempre seguitare. Il che con effetto cominciò, imperciò che ogni volta che le reine erano agli officii divini egli medesimamente ci andava, e fatto loro la convenevole riverenza a loro dirimpetto si metteva, e quivi la bellezza de la sua reina vagheggiando, più di giorno in giorno infiammandosi, tanto se ne stava che elle di chiesa partivano. E se talora per qualche accidente che le disturbasse, le reine a la chiesa non venivano, non rimaneva pertanto messer Filippo che egli, secondo che più in destro gli veniva, non andasse almeno a visitar il luogo ove la sua donna soleva vedere. Quivi l’impaniato giovine ai suoi amori pensando, ora di speme armandosi e ora in disperazione cadendo, rivolgeva per l’animo mille pensieri; e quantunque conoscesse la sua scala non aver gradi per salir tant’alto, nondimeno egli non si puotè dal suo fiero proponimento rimuover già mai, anzi gli pareva che quanto più difficile e perigliosa fosse l’impresa che tanto più gli crescesse il desio di seguirla e di mettersi ad ogni rischio. Se talora per via di diporto andavano le reine spaziando per le contrade e giardini d’Ispruc, egli di brigata con gli altri cortegiani le accompagnava, non gli parendo mai aver ora di riposo se non quel poco di tempo che egli o vedeva essa reina Anna o le era vicino. Erano in quei medesimi tempi molti gentiluomini nostri fuorusciti di Lombardia in Ispruc, i quali per la maggior parte seguivano il signor Francesco Sforza secondo, col cui mezzo speravano, recuperando egli la duchea di Milano, esser a le loro patrie restituiti. V’era anco cameriero d’esso signor Francesco messer Girolamo Borgo veronese, giovine molto gentile e costumato col quale messer Filippo teneva stretta domestichezza. E perchè di rado avviene che un fervente amore si possa tanto tener celato e coperto che in qualche parte non si scopra e non dia di sè alcun segno, il veronese di leggero de le fiamme di messer Filippo s’accorse. Io altresì che era di continovo in corte e spesso era di brigata col Borgo e con esso messer Filippo m’avidi troppo bene del suo amore; non perciò che il Borgo o io ci apponessimo al vero o che avessimo saputo indovinare di qual donna egli fosse invaghito. Ma veggendolo più del solito astratto e molto sospiroso, e avendo avvertito che come poteva da la compagnia si rubava e tutto solo andava a’ suoi fieri accidenti pensando, e che per questa cagione egli era fatto malinconico e magro avendone il sonno ed il cibo perduto, che altro si poteva dei casi suoi giudicare se non che gli amorosi vermi acerbamente il core gli rodevano e con fieri morsi lo trafiggevano? Essendo adunque tutti tre un dì insieme e d’uno in altro ragionamento entrando, avvenne che si cominciò a ragionar d’amore; di modo che il Borgo ed io dicendo a messer Filippo che senza dubio tenevamo per fermo ch’egli fosse stranamente innamorato, avendo la mente a la nuova vita che menava, con calde preghiere quello astringemmo che a noi come a suoi fedelissimi compagni e cari amici volesse questo suo amor manifestare, perciò che poteva esser certo che quivi non aveva persona alcuna de la quale più che di noi devesse confidarsi. Gli promettemmo oltra ciò ogni nostro aiuto e favore, se in questo l’opera nostra gli poteva recar giovamento alcuno. Egli alora quasi con le lagrime sugli occhi dopo alcuni focosi sospiri ne disse così: – Fratelli miei cari, essendo io certo che di quanto adesso da me udirete voi, la vostra mercè, mi terrete credenza come il caso ricerca, dicovi che negar non vi posso nè voglio che io ardentissimamente e fuor d’ogni misura non ami, perciò che il negar sarebbe tuttavia senza pro, nè vi poteria aver luogo ove chi non è ceco può chiaramente vedere come io mi stia. E ancor che le mie parole dicessero ostinatamente di no, il mio viso e la nuova e strana maniera del mio vivere che da qualche tempo in qua ho cominciato a fare, a mal mio grado accennano che io non sia più quello che esser soleva; di modo che se altro in breve non ritrovo più di quello che fin qui m’abbia ritrovato, spero che quella che a tutti quanti che ci nascono mette fine finirà medesimamente questa mia acerbissima vita, se vita in me si può ella chiamare e non più tosto una viva morte. Aveva io fatto proponimento e in tutto conchiuso la cagione del mio fierissimo tormento a persona del mondo non discoprir già mai, non potendola far manifesta a quella che io unicamente amo, ma tacendo ed amando morire. Nondimeno a voi ai quali io non debbo cosa alcuna celare, aprirò il secreto de l’animo mio, non perchè io creda a le mie passioni ritrovar conforto o refrigerio alcuno, o speri che quelle narrandole divengano minori, chè sensibilmente ogni punto d’ora diventano assai maggiori; ma dirollo a fine che sapendo voi la cagione del mio morire, quando io sarò morto e non prima possiate ridirlo, a ciò che se per caso mai fosse rapportato a l’orecchie di colei che io oltra ogni credenza amo, ella sappia che io quanto amar si possa l’amai. Il che se dopo la morte potrò risapere, ovunque lo spirito mio sarà, non potrò se non riceverne infinita contentezza. Devete dunque sapere che il primo dì che agli occhi miei la divina bellezza ed il supremo valore de la reina Anna apparsero, e che io più che d’uopo non era le singulari ed eccellentissime sue maniere e l’altre innoverabili doti di lei considerai, che così oltra ogni misura di quella m’accesi che mai più non è stato in mio potere non dirò d’ammorzare così fervente amore, ma pure in parte minima intepidirlo. Ho fatto quanto m’è stato possibile per macerar questo mio sfrenato disio, ma il tutto è stato indarno: le mie forze sono state a così potente avversario troppo deboli. Nè crediate già che lo stato mio a par di tanta altezza io non conosca e che altresì non sia certissimo questo mio amore, a ciò non dica pazzia, esser fuor d’ogni convenevolezza, chè son ben chiaro tanto alto e nobile amore a la mia bassezza non convenirsi. Io non sono, compagni miei, a me medesimo caduto di mente, perciò che ottimamente la mia condizione e quella di madama la reina a pieno conosco. La prima volta che io mi sentii dai lacci d’amore irretito, quella conobbi esser reina de le prime de’ cristiani e me povero giovine fuoruscito di casa mia, e male a me convenirsi in così nobile ed alto luogo i miei pensieri dirizzare. Ma chi potrà por freno o dar legge ad Amore? Chi è che secondo la debita elezione s’innamori? Certo, che io mi creda, nessuno, perciò che Amore come più gli aggrada il più de le volte scocca le sue quadrella, nè ha riguardo a grado o condizione di persona. Non s’è egli già visto eccellentissimi uomini, duci, regi ed imperadori essersi accesi d’amore di donne di bassa e vilissima schiatta? Non s’è anco inteso bellissime ed altissime donne, sprezzate le grandezze degli stati, abbandonati i mariti, non curato l’amore dei figliuoli, aver ardentissimamente amato uomini sozzi e d’infima sorte? Tutte le istorie ne sono piene, e le memorie dei nostri avi e padri ed altresì le nostre quando bisognasse ne potrebbeno render testimonio. Dicovi adunque questo a ciò che non vi paia cosa nuova se io mi sono lasciato vincere dai miei pensieri. Chè non alterezza od il non conoscere l’una e l’altra parte a questo m’ha condotto, ma Amore che può molto più che non possiamo noi e fa sovente lecito quel che piace e non lece, ed impregionata la ragione fa donno e signore il talento, le cui forze sono molto maggiori che le leggi de la natura. E ben che io di questo mio magnifico amore lieto fine non sperassi già mai e meno di giorno in giorno lo speri, non è però che io possa altrove rivolger l’animo. E giurovi per quel leal e ferventissimo amore che io porto a la reina, che io mi sono sforzato quanto mi è stato possibile levarmi da questa mal cominciata impresa e metter i miei pensieri in altro luogo; ma ogni mio sforzo è stato vano, ogni deliberazione che io ci abbia fatta è riuscita indarno. Io altro fare più non so nè posso. E sallo Iddio che se non fosse la tèma de l’eterna dannazione, io con le proprie mani già averei a questo mio appetito dato fine. Sommi adunque deliberato, poi che a questo termine mi son lasciato trasportare e che Iddio ha permesso che oltra modo di così alta, nobile, generosa e bella donna io sia, ahi misero e lasso me, acceso, contentarmi de la vista sola di quei begli occhi suoi, e servendola, amandola e onorandola fin che io starò in vita, che certo per quel ch’io mi creda sarà poco, pascer solo con il chiaro splendore di quelle vaghe e divine luci tutte le mie speranze, perciò che non son così fuor di me che manifestamente io non conosca altro guiderdone di tanto alto amore sperar non possa, chè sarebbe estrema pazzia. – Al fine di queste sue parole caddero di molte lagrime dagli occhi del povero amante, e da quelle e da molti singhiozzi impedito e da certo non so che sovra preso, non puotè più oltra dire. E in vero chi visto l’avesse in viso, l’averebbe giudicato che da mordace e penosa passione era il suo cor trafitto. Ora essendo noi stati molto attenti a quanto egli detto ci aveva, sì come la cosa richiedeva, essendoci infinitamente di tal accidente meravigliati e parendoci più tosto sognare ch’esser ove eravamo, ci guardammo buona pezza l’un l’altro in viso senza motto alcuno dire. Raccolta poi la lena che per l’estrema ammirazione era smarrita, messer Girolamo e io con evidentissime ragioni ci sforzammo persuadergli che da questo suo folle pensiero rappellasse l’animo e altrove lo rivolgesse, mostrando lui l’impossibilità de l’impresa ed il grandissimo pericolo che ne poteva seguire. Ma noi cantavamo a’ sordi, perciò ch’egli non voleva e diceva non poter ritirarsi da questo amore, avvenissene mò ciò che si volesse. Nè alora solamente con agre riprensioni di tal alterezza lo riprendemmo e sgridammo, ma molte altre volte che insieme ci trovammo ne gli facemmo gran romore per far che conoscesse il suo manifesto errore. Ma il tutto era opera gettata via, di maniera che il Borgo ed io pigliammo per espediente non parlargli più di tal materia, ma star a veder ciò che ne seguirebbe. Perseverando adunque messer Filippo nel suo fiero proponimento e di continovo presentandosi a la chiesa quando sapeva che le reine v’erano, avvenne che elle s’accorsero de l’amor di lui, perciò che avendo più volte messo mente tutte due al modo ch’egli teneva, agli atti, al frequentar del luogo, al veder che sempre dirimpetto a loro si poneva e gli occhi da dosso a loro mai non levava, giudicarono ch’egli senza dubio d’una di lor due o almeno di qualche damigella quivi entro fosse innamorato. E di questo le due reine insieme ne tennero ragionamento: al vero perciò non s’apposero già mai. Nacque nondimeno nei cori loro un desiderio di chiarir questa cosa, ed aspettavano che qualche occasione a la giornata accadesse che levasse loro questo dubio di mente. Fra questo mezzo messer Filippo cercando con la vista dei begli occhi de la sua donna scemare il fuoco che miseramente le midolle e l’ossa gli ardeva, ove a le sue passioni qualche compenso e refrigerio cercava, quelle d’ora in ora sentiva farsi maggiori. E certo tutti quelli che ardentissimamente amano, vengono pur a questo passo, che altro mai far non vorrebbero che vedere le donne che amano, non s’accorgendo che quanto più mirano le bellezze amate più cresce il disio di mirarle e col disio la pena. Non lasciava adunque mai messer Filippo occasione alcuna che pigliar potesse per contemplar madama la reina, o fosse in chiesa od in corte o che s’andasse diportando per la terra. Ora avvenne che essendo la cosa in questo termine, mentre che le reine volentieri averebbero spiato altrui de l’amore di messer Filippo, che la fortuna se le parò dinanzi de la maniera che udirete. Egli era la stagione che i fiori e le rose cominciavano a prestar odorato ornamento a le piagge ed ai giardini. E perchè nel principio che si veggiono fiorire sono in più prezzo che quando ve n’è più copia, quasi in ogni luogo e massimamente ne le corti si costuma i primi fiori o prime rose che si cogliono presentare a le madame e ai maggiori de le case. Aveva adunque in quei dì la reina Anna certi fiori in mano, ed era insieme con la reina Maria e altre dame e damigelle a diporto in un lor bellissimo giardino, in quell’ora che il sole volando verso occidente quasi comincia a nascondersi dietro ai monti occidentali. Quivi tra gli altri de la corte era anco messer Filippo. La reina Anna come veduto l’ebbe, deliberò far una prova per veder se si poteva chiarire di qual donna egli fosse innamorato. E così per il giardino leggiadramente diportandosi e ora con questi e ora con quelli, come è la costuma di simili madame, con belli e piacevoli motti scherzando, s’incontrò in messer Filippo, il quale ancora che ragionasse con alcuni gentiluomini de la nazione italiana, nondimeno aveva l’animo e gli occhi a la reina rivolti. Chè ogni volta che la vedeva, gli occhi nel viso di lei di maniera fisi teneva che chi v’avesse avuto riguardo si sarebbe di leggero avveduto che il volto di madama la reina era il vero albergo di tutti i pensieri di messer Filippo. Egli come vide quella a lui avvicinarsi, così con gentil e convenevole riverenza le fece onore, e con gli occhi in lei piegati pareva che pietosamente le dimandasse mercede. E certamente chiunque di nascosto e con perfetto cor ama, più con gli occhi innanzi a la sua donna che con lingua parla. Giunta che fu la reina appo lui, con grave e onesta leggiadria umanamente così gli disse: – Giovine lombardo, se questi fiori che ora noi abbiamo in mano vi fossero donati a fine che voi liberamente ne facessi ciò che più vi aggradisse, o vi fosse detto che voi ne faceste cortese dono a quella di noi altre donne che qui o altrove siano che più vi piace, diteci, di grazia, a cui voi gli donareste o vero ciò che ne fareste; e diteci, vi preghiamo, liberamente e senza rispetto veruno l’animo vostro, perciò che ne farete cosa che molto ci piacerà. E a questo vi astringiamo per quanto amor portate a quella donna che più amate, chè pure pensiamo che, essendo giovine, non si debbia credere che siate senza amore. – Quando messer Filippo sentì la soavissima voce de la reina così dolcemente ferirli l’orecchie, ed udì astringersi per amor di colei che egli amava da chi unicamente e infinitamente non solo amava ma riveriva e adorava, andò quasi fuor di se stesso, tanta fu la dolcezza e tanto il piacer che si sentì nel core, e di mille colori si tinse nel viso, e da soverchia e non più gustata gioia ingombrato, fu quasi per isvenire e non poter rispondere. Pure, raccolte le forze e a la meglio che puotè preso ardire, a la reina rispose con bassa e tremante voce così: – Poi che, madama serenissima, la vostra mercè, vi degnate di comandarmi, oltre che infinitamente vi ringrazio e sempre vi resterò con eterna obligazione, son presto a dire sincerissimamente l’animo mio, perciò che debbo aver di sommissima grazia di poterlo palesare; onde essendo così vostro piacere, pur lo dirò. Dico adunque con ogni debita riverenza che non solamente qui e al presente, ma in ogni tempo e luogo ove io mi ritrovassi, altro di essi fiori non disporrei se non tali quali fossero, e quanto fossero più belli e cari tanto più volentieri, che quelli senza fallo sempre a voi sarebbero umilmente da me presentati, non perchè voi siate reina e d’altissimo legnaggio, che tuttavia è grandissima cosa, ma perchè sète donna rarissima anzi unica e d’infinite doti ornata, ed altresì perciò che per vertù e per meriti il valete, e molto più che esser onorata di così picciolo dono, come quella che più che altra donna ch’oggi viva, – siami lecito con verità questo dire, – è l’onore e l’unica gloria del sesso feminile di questa età. – E così detto si tacque. La reina, udita con gran piacere la pronta risposta del giovine: – E noi,– disse, – vi ringraziamo di tante lodi che date ci avete e del vostro buon animo verso noi. – Così dettogli questo senza più, se ne passò innanzi, tuttavia con questi e con quelli per via di diporto motteggiando. Parve pertanto a lei e simigliantemente a la reina Maria che d’ogni cosa era consapevole, aver in grandissima parte spiato l’animo del giovine, e quasi per fermo tenesse sè esser quella che il giovine lombardo tenesse per sua suprema donna. Del che punto non si sdegnò, anzi assai ne l’animo suo lo commendò e tennelo per molto da più che prima non lo teneva, e come discreta e valorosa gli diede infinite lodi. Ella non fece già ciò che molte far sogliono, le quali come si veggiono esser di legnaggio più nobile o pur uguale di quel de l’amante che il cielo loro averà dato, quello non degnano, anzi di lui e de la sua fedel servitù si beffano, e sovente con finti visi e parole tutte simulate il levano in alto, e poi tutto ad un tratto le loro finte maniere cangiando, lo lasciano da la cima e colmo d’ogni speranza nel basso abisso d’ogni disperazione senza alcun ritegno cadere, di modo che colei che più ne schernisse più si tiene scaltrita. Ma quanto meglio e più lodevole impresa sarebbe che non avendo la donna a caro l’amore e la servitù d’un uomo, liberamente gli dicesse: – Amico, tu non fai per me, – che pascerlo di vane speranze, tenendolo un tempo a bada, dandogli parole e sguardi e poi sì miseramente, come spesso si fa, da sè cacciarlo? Io per me, ancora che ferventissimamente amassi una donna e che mi fosse d’estrema doglia cagione il vedermi cacciare e non esser da quella amato, mi saria nondimeno men grave l’essermi apertamente detto che io altrove mi procacciassi una padrona, che mostrar d’aver a grado la mia servitù e pascermi qualche tempo di vane speranze, e poi trovarmi beffato e schernito. Chè in vero in simil caso io non sarei forse men rigido e severo contra chi di questa maniera mi trattasse di quello che si fosse lo scolar da Parigi tornato in Firenze a la male aventurata madonna Elena. Ma torniamo al nostro messer Filippo. Il quale ancora che niente potesse imaginarsi de l’animo de la reina Anna nè a che fine ella gli avesse tal domanda fatta, pure questo atto gli fu troppo caro ed accetto, e ogni volta che ci pensava, sentiva grandissimo piacere e n’aveva una certa contentezza che lo faceva star più allegro del solito. Da l’altra parte madama la reina che discretissima e la cortesia stessa era, quando ne la chiesa o altrove messer Filippo se le inchinava e rendeva il debito onore de la riverenza, ella molto umanamente lo raccoglieva, e col capo alquanto chino, – cosa che solo a gran baroni e signori era usa di fare, – mostrava aver caro il riverire ed onorare che egli le faceva. Del che egli ne prendeva estrema contentezza, nè più oltre osando di sperare, di continovo a le bellezze e onesti modi che in lei vedeva pensava. Passarono in questo alcuni dì, sempre egli di lei più infiammandosi quanto più chiusamente ardeva più accendendosi. Eravamo un giorno alcuni di noi italiani innanzi a la camera e la reina Anna, che quivi avevano accompagnata madonna Barbara moglie di messer Pietro Martire Stampa, che con due sue figliuole era ita a far riverenza a le due reine, che insieme erano. Quivi era ancora messer Filippo, col quale il Borgo ed io di varie cose ragionavamo. Nè guari avevamo favellato quando le reine amendue uscirono di camera; il che fu cagione che tutti quei signori e gentiluomini che la venuta di quelle attendevano, si levarono da sedere e col capo scoperto aspettavano riverentemente dove amendue le reine volessero inviarsi. La reina Anna in questo si spiccò da la reina Maria e dritto venne ove erano gli italiani ed umanissimamente a molti dei nostri gentiluomini domandò il nome e la patria loro, di modo che pervenne ove noi tre eravamo ragionando. Quivi con bel modo richiese prima messer Girolamo che le dicesse il nome, la patria e se era gentiluomo. Al che egli disse con ogni riverenza che nome aveva Girolamo Borgo, gentiluomo di Verona. Io altresì da quella domandato con la medesima domanda, quanto più modestamente seppi le risposi ch’io era gentiluomo nato di antica stirpe di Milano e che tutti mi chiamavano Filippo Baldo. Avuta la mia risposta, ella con allegro e quasi ridente viso, cortese e leggiadramente a messer Filippo rivolta, lo richiese che come noi il nome suo, la patria e se egli era gentiluomo le facesse manifesto. A cui messer Filippo dopo il debito inchino riverentemente così rispose: – Madama, signora e padrona mia, ciascuno che mi conosce mi domanda Filippo dei Nicuoli cremonese, e son gentiluomo. – La reina che a nessuno degli altri da lei domandati non aveva cosa alcuna detta, a messer Filippo rispose in questo modo: – Voi ben dite il vero che sète gentiluomo, e chi volesse il contrario dire egli dimostreria assai apertamente aver poco giudicio. – Nè più disse, ma insieme con la reina Maria quindi uscita, ne andò a la chiesa. Tutti quelli che le parole de la reina udirono, restarono pieni d’una infinita ammirazione non sapendo imaginarsi ciò che si fosse, e ugualmente fu da tutti giudicato la reina aver a messer Filippo fatto un favore singolarissimo. Egli, come era il suo consueto, pieno d’infiniti e varii pensieri andò a la chiesa e nel solito luogo si pose, rivolgendo tuttavia le parole de la reina che ella dette gli aveva, tra sè. E ancora che non potesse discernere a che fine tanta e così onorata reina gli avesse simili parole risposte, nondimeno a lui pareva questa cosa ovunque fosse saputa cedergli a grand’onore. E certamente senza fine è da commendar l’umanità di tanto eccellente e nobil donna, la quale essendo di così alto legnaggio e moglie d’un sì gran prencipe di stirpe imperiale, non solamente non si sdegnò da uomo di bassa condizione e fuoruscito di casa sua esser amata, ma volle anco con ogni cura e diligenza spiare e con effetto chiarirsi se ella era quella che il giovine italiano amasse, come in parte s’è visto, non per altro, credo io, se non per potere circa questo magnificamente operare ciò che paruto le fosse convenevole a la grandezza di lei e al fervente amore del giovine innamorato, come poi fece. Ma quante ce ne sono oggidì, non dico reine o prencipesse, ma semplici e private gentildonne, che levatole un poco d’apparenza di bellezza sono senza costumi e vertù, le quali accorgendosi de l’amore di qualche gentiluomo che non sia a lor talento dei beni de la fortuna dotato, quello scherniscono e beffano? Quante medesimamente ce ne vivono da cotal alterezza inebriate, le quali si riputerebbero che grandissima ingiuria fosse loro fatta se altri che ricchissimo e gran gentiluomo si mettesse ad amarle? E nel vero una gran parte de le donne, (di quelle parlo che sono d’animo basso e vile e non curano nè fama nè onore, ma solo l’utile e il diletto), a tale vive che non guarda se gli amanti sono discreti, costumati, vertuosi e gentili, ma attende solamente se la borsa è piena e più prezza un poco di bellezza che come un còlto fiore in breve tempo si guasta, che non fa il valore e generosità de l’animo e l’altre mille belle parti che saranno in uno gentiluomo, le quali di giorno in giorno più s’abbelliscono e diventano di maggior perfezione. Altre poi sono che perdute dietro a qualche giovine che paia lor bello, ancor che sia senza vertù o costumi, amano solamente un pezzo di carne con dui occhi in capo. Nè crediate per questo che per l’ordinario gli uomini siano più saggi in questo de le donne. Ben deverebbero essere, per aver più di senno il sesso nostro che il feminile; ma per dire il vero, tutti siamo macchiati d’una pece mercè del guasto mondo. Indi avviene che ai nostri dì veggiamo pochi amori che abbiano lunga durata, perciò che come manca l’origine de l’amore, medesimamente manca l’amore; come cessano i doni, come quel poco fiore de la beltà si secca, più non v’è nè conoscenza nè amore. Onde avviene bene spesso, quando gli amori non sono fondati se non sovra il godimento di queste bellezze caduche e di poca stima, che come nebbia al vento si fanno; avviene, dico, che non solo quel poco ardore che v’era s’intepidisce, ma in tutto s’aggela, e sovente l’amore in odio e nemicizia crudele si converte. Ed evvi poi di peggio, che molti i quali vogliono esser creduti e detti gentiluomini per esser nati di antica e nobile schiatta, ma cresciuti senza vertù e privi d’ogni leggiadro e lodato costume, perciò che non sanno nè mai appararono che cosa sia gentilezza, si pensano d’esser gran sabatani quando in cerchio d’animali a loro simili si mettono la giornea e dicono: – Io ebbi la tal donna e la tale, e cotale è amica del mio compagno, – di maniera che molto spesso levano la fama a questa ed a quella. E nondimeno vi sono de le gentildonne così pazzarelle e di sì poco cervello che, ancora che questo sappiano e chiaramente conoscano, si persuadeno o con la beltà o con che altro si sia a cotali sfrenati cavalli porre il freno, e non s’avveggiono, scioccarelle, che in pochi dì non sono più aventurose de l’altre, ma cadeno in bocca del volgo e ne sono con perpetua infamia e gran scorno mostrate a dito; ove chi amante discreto, costumato, vertuoso e gentile elegge, non teme di ricever biasimo alcuno. Nè perchè tutte le donne non siano valorose e gentili e savie si dee ritirare un vero amante, se altamente le sue speranze ha poste, che ardentissimamente non ami ed onori la sua donna, imperciò che tutte non sono fatte ad un modo. Chè pure questa nostra età ha di molte valorose e bellissime donne le quali di saggi ed onesti costumi, di leggiadre e belle maniere ornate, per la loro generosità, magnanimità e grandezza de l’animo meritano infinitamente esser riverite ed onorate. E chi s’abbatte in donna gentile e vertuosa, come farà che eternamente non l’ami e che per rispetto di lei tutte le donne non onori? Ma noi ci siamo troppo dilungati da l’istoria nostra. A la quale ritornando, vi dico che la fortuna aveva preso a favorire messer Filippo, perciò che oltre che madama la reina mostrava aver caro questo amore, pareva che anco ogni cosa s’accordasse a profitto di questa sua impresa. Era governatrice de la reina madonna Paola dei Cavalli gentildonna veronese, donna assai attempata, e creata de la felice memoria di madama Bianca Maria Sforza già moglie di Massimigliano Cesare. A costei impose la reina Anna che desse opera d’aver qualche rime toscane o altre composizioni ne la lingua italiana. E questo ella lo faceva per potersi meglio far famigliare e domestico il nostro parlare, con ciò sia cosa che molto s’essercitava in apparare l’italico idioma, e tanto già e così chiaro ne parlava che da tutti noi era ottimamente intesa. Ora come volle la buona sorte di messer Filippo, egli quel dì si ritrovò a corte tutto solo, chè da ogn’ora s’ingegnava se possibile era di veder la reina. Quivi come madonna Paola lo vide, perciò che domesticamente lo conosceva, se gli avvicinò e gli disse: – Caro messer Filippo, perciò che madama la reina molto si diletta di apparare la lingua nostra e di già v’ha fatto assai buon principio, chè come potete aver sentito, ella ne parla assai, questa matina levandosi ella m’ha caldamente imposto che io le ritrovi qualche bella rima toscana; che oltra quei libri in lingua italiana stampati che ci sono, ella vederia volentieri qualche bella cosa di quelle persone dotte che ai nostri tempi compongono, e massimamente averebbe caro veder de le belle rime, de le quali io so che voi ve ne dilettate e penso ne debbiate aver copia. Pertanto m’è parso ricorrermi a voi e strettamente pregarvi che voi vogliate far parte de le belle rime che avete a essa madama, perchè le ne farete cosa molto grata ed accetta, ed io ve ne resterò per sempre obligatissima, oltra che a quella farò sapere, quando a lei le presenterò, che io da voi le averò avute. Il che, amando essa reina la nazion nostra come ella fa, chè ci vuol gran bene e molto ci favorisce, non potrà se non qualche occasione esservi di profitto. – Messer Filippo come seppe il meglio ringraziò la donna e sì le disse: che egli poche cose in Ispruc aveva di quelle che ella ricercava, ma che portava ben ferma credenza di ritrovarne pur assai appo quei gentiluomini che a la corte seguivano, e che ci userebbe ogni diligenza per ricuperarne più che fosse possibile; ma che fra questo mezzo le daria quelle poche che aveva e che quella sera medesima le recheria. E pregandola che lo tenesse in buona grazia di madama la reina, si accommiatò da lei e andossene diritto a l’albergo ove era alloggiato e quivi cominciò con diligenza a rivolger le sue scritture. Egli era tutto pieno d’allegrezza per cotal occasione. Ora egli tra le sue carte altre rime che a quello paressero degne d’andar in mano di tanta donna non ritrovò se non una terza rima o capitolo, come dir vogliamo, che aveva composto il molto gentil e vertuoso dottore di leggi e poeta eccellente messer Niccolò Amanio da Crema, il quale tutti devete mentre visse aver conosciuto o almeno per fama sentito ricordare, il quale ne le composizioni de le rime volgari fu in esprimer gli affetti amorosi a questa nostra età senza pare. E perchè questo capitolo de l’Amanio era tanto a proposito di messer Filippo e del suo amore quanto si possa desiderare, egli che bellissimo scrittore era, in un foglio politamente lo trascrisse. Diceva adunque così:
Quanto più cresce Amor l’aspro tormentostruggendo questa mia trist’alma e accesa,tanto più sono ognor d’arder contento.
Se mille volte il dì la tien sospesatra speranza e timor, ogni doloredolce fa questa glorïosa impresa.
Tant’altro è ’l fuoco ond’io m’accendo il coreche tra fiamme d’amor null’altro maiebbe principio da tant’alto ardore.
Dolci dunque tormenti e dolci guai,dolce lume d’amor, dolce pensiero,che in me scendeste da tant’alti rai,
tant’alta maiestà, tant’alto imperopavento a contemplar, e so ben ch’ioson basso oggetto a l’alto ben ch’io spero.
Ma più che la ragion può in me ’l disioe i begli occhi, ov’Amor pur mi conforta,armato di quel guardo onesto e pio;
sguardo che l’alma e ’l cor al ciel mi portae d’ogn’intorno l’aria rasserena,ch’a mille paradisi apre la porta.
Alma mia diva, angelica sirena,reale venustà, sacra bellezza,passa ogni ben la mia felice pena.
S’a sì alto poggio il mio sperar si spezza,dirà almen il mio cor: – Io fui tant’alto,ch’agli occhi dei mortali ogn’altra altezza
è bassa a par di questa ond’io m’essalto.
Come messer Filippo ebbe trascritto questi versi, subito se ne tornò a corte, e fatta chiamar madonna Paola da uno dei camerieri, le disse: – Madonna, io per ora vi reco queste poche rime che sono molto belle e leggiadre. Voi le darete a la vostra padrona, ed io mi darò a torno d’averne de l’altre e tutte recherovvele. – Madonna Paola le pigliò, e andata in camera e trovato che la reina era senza compagnia ed intertenimento di forestieri, inchinevolmente le disse: – Madama, voi stamane mi diceste che io vi ritrovassi qualche rima di quelle che compongono i nostri italiani, ed io ricercandone ho ora avuto questi pochi versi da messer Filippo dei Nicuoli segretario del signor Andrea Borgo, il quale m’ha promesso farmene aver degli altri. – La reina udito questo, mezzo sorridendo prese la carta e, lette le rime, il senso de le quali ella ottimamente apprese, pensò che messer Filippo fosse stato il compositor di quelle e che a posta per lei le avesse fatte. Onde levatosi da l’animo ogni velame di dubitazione, tra sè conchiuse e tenne per certo sè esser quella che messer Filippo ardentemente amasse, e tanto più in questa sua openione si confermò e tennela vera quanto che sotto le rime erano queste poche parole: – A tale e da tale a chi si conviene. – E considerata la grandezza de l’animo del giovine, incolpò la natura che in uomo bassamente nato avesse sparso seme che così generoso ed alto core avesse fruttato, e molto il giovine tra sè ne lodò. Indi conferito il tutto con sua cognata la reina Maria, che è savia ed avvenente donna, e sovra questo amore fatti varii discorsi e sempre da più tenendone il giovine, deliberò essa reina Anna, quando onestamente potesse, dare a messer Filippo, di questo suo così alto e nobile amore, onesto e convenevole guiderdone. E mentre che ella era intenta a ciò aspettando che qualche occasione se le parasse dinanzi, quando vedeva messer Filippo, tutti quei favori e grate accoglienze gli faceva che da valorosa ed onestissima reina debbia ciascun gentiluomo e vero amante che de la ragione s’appaghi aspettare, e tanto più dove fosse tanta diseguaglianza de le parti come qui era. Del che esso messer Filippo viveva il più contento uomo del mondo, nè più oltre di quello che aveva osava sperare, continuando la solita vita e pascendosi de l’amata vista. E così andò la bisogna che molti cortegiani gli portavano invidia grandissima veggendolo di tal maniera favorir da madama la reina; più oltra però nessuno pensando, ma imaginandosi ciascuno che madama tanti favori gli facesse perciò che egli era giovine vertuoso e scienziato, e quella era per il continovo avvezza agli uomini, che per lettere o per altra dote d’ingegno erano bene qualificati ed il valevano, a far onore e carezze assai, e quelli, ove l’occasione occorreva, favorire ed onestamente guiderdonare. Avvenne in quei dì che Massimigliano Cesare passò a l’altra vita, ritrovandosi Carlo suo nipote esser in Ispagna. Per la morte d’esso Massimigliano deliberò il signor Andrea Borgo mandar un suo uomo al re Carlo per ottener da quello la confermazione di quanto aveva per la sua lunga e fedel servitù e per la liberalità di Massimigliano acquistato. E fatta elezione di mandarvi messer Filippo, per averlo egli più volte conosciuto uomo avveduto e pratico per cotal maneggio, se n’andò a far la debita riverenza a le signore reine, e fece loro intendere come in breve egli voleva mandare il suo segretario in Spagna e la cagione per la quale lo mandava, supplicandole umilmente che amendue in favore de la confermazione ch’egli ricercava degnassero scrivere con quella più caldezza che fosse possibile. Le reine che sapevano quante fatiche egli sotto Massimigliano aveva durato e quanti perigli aveva trascorso, dissero di farlo volentieri. Parve alora a la reina Anna d’esser il tempo di dar conveniente guiderdone al lungo amore di messer Filippo. E perchè ella era gentilissima ed una de le più larghe e liberali prencipesse del mondo e che a chieder a lingua sapeva molto bene onorare cui ne l’animo le capiva che il valesse, conchiuso quanto far intendeva, impose al signor Andrea che le mandasse il suo segretario al tempo del partire, perciò che oltra le richieste lettere voleva commettergli alcuna cosa da spedire a la corte di Spagna. Partito che fu il signor Andrea, la reina Anna communicò il suo pensiero circa messer Filippo con la reina Maria, la quale trovatolo buono, poi che l’ebbe commendato la essortò a darli compimento. E circa questo amendue scrissero molte lettere in Spagna al re Carlo, al gran cancegliero e ad altri a chi lor parve che a tal effetto qual desideravano fossero atti e convenienti ministri. Dapoi che il signor Andrea ebbe le cose sue ad ordine, disse a messer Filippo, che già s’era messo in punto per quello che gli bisognava a così lungo viaggio: – Filippo, anderai oggi a la reina Anna e fa intender a quella che tu sei quello che io mando in Spagna a la corte. Ella ti vuol commettere alcune cose da spedire col re catolico. Oltra che tu prometterai a quella di far quanto ella t’imporrà, le dirai anco che così hai da me in special commissione. – Non poteva più dolce suono penetrar l’orecchie di messer Filippo di questo, perciò che intendendo egli che vederia e parleria innanzi al dipartire a la sua donna e che quella gli voleva imporre alcuni affari da negoziare, ne fu oltra modo lieto e contento. Onde venuta l’ora che a lui parve convenevole, quivi se n’andò e fece saper a essa reina che egli quivi era presto a quanto quella degneria comandargli. Come la reina questo seppe, così subito ordinò che entrasse in camera. Egli con tremante core entrato, dopo le convenevoli e debite inchinazioni, tutto riverente e timido a la reina s’appresentò e sì le disse: – Sacra madama, io son Filippo servidor vostro che il signor Andrea Borgo manda al re catolico nostro signore, presto a far tutto ciò che voi degnarete di comandarmi, sì perchè vi sono divotissimo servidore e desidero sovra tutte le cose del mondo che voi di me come di vostro minimo che vi serva vi prevagliate, ed altresì perciò che il signor Andrea me l’ha commesso. – La reina alora con lieto viso a lui guardando, gentilmente gli parlò: – E noi con fiducia che debbiate far quanto vi diremo vi abbiamo fatto qui venire, perciò che conoscendovi gentiluomo e tenendo per certo che volentieri farete cosa che ci sia a grado, n’è paruto far elezione di voi. Ciò adunque che da voi vogliamo è che voi diate queste lettere, che sono per affari nostri di grandissimo peso, in mano al re catolico e che gli basciate le mani riverentemente in nome nostro. Poi tutte queste lettere darete secondo che noi le indrizziamo, che del tutto ve ne averemo grado. E se per voi possiamo alcuna cosa a vostro onore e profitto, fateci liberamente intender l’animo vostro, chè vi promettiamo che da noi sarete con buon core sodisfatto. E questo per sempre ed in ogni luogo vi sia offerto, chè così ne pare e parrà di continuo che la fede, il valore e la grandezza de l’animo vostro il vagliano. – Il buon messer Filippo, pieno di tanta dolcezza che gli pareva d’esser in paradiso, si sentiva nòtar il core in un profondo mar d’ogni gioia, e a la meglio che puotè la ringraziò di tanta cortesia, e che quantunque si conoscesse indegno de la grazia di lei, che pure tal qual era se le offeriva e donava per schiavo e fedelissimo servidore. Così inchinevolmente basciatele con piacer grandissimo le mani, da lei che di grado se le lasciò basciare prese riverentemente licenza. Uscito che egli fu di camera, s’abbattè nel tesoriero de la reina che l’attendeva, il quale per parte d’essa reina gli pose in mano una borsa con cinquecento fiorini renesi, e il maestro de la stalla gli presentò una chinea motto bella e buona. Del che esso messer Filippo si tenne per ottimamente sodisfatto e di gioia a pena capeva ne la pelle. Messosi adunque in viaggio, tanto andò per sue giornate che arrivò a la corte del re catolico in Ispagna, ove pigliata l’oportunità si presentò al re Carlo, e fattogli la reverenza e l’ambasciata de la reina Anna gli diede le lettere che aveva. E data espedizione a l’altre lettere, attese a negoziare le cose del signor Andrea. Il re visto quanto da la cognata e da la sorella gli era scritto, e dal gran cancegliero, che alora era messer Mercurino da Gattinara, e da altri a cui le reine avevano con loro lettere tal ufficio commesso, solecitato ed anco attese le buone condizioni di messer Filippo che gli era negoziando paruto assai discreto ed avveduto molto e di buona maniera, un dì se lo fece avanti venire. Venne subito messer Filippo e avanti al re Carlo per commissione del gran cancegliero inginocchiato, attendeva quanto egli volesse dirgli, non sapendo a che fine fosse stato richiesto. Quivi il re catolico gli disse: – Il testimonio che di voi ne rendono tanto onoratamente le due reine di cui le lettere a la venuta vostra portaste, e la speranza che abbiamo che da voi averemo leale e profittevole servigio ne astringono a mettervi nel numero dei nostri segretarii, onde in man nostra giurarete d’esserne sempre leale e fedele. – Messer Filippo pieno di meraviglia ed allegrezza, quanto volle il gran cancegliero che le parole gli prediceva, giurò. Così fu spedito il suo decreto e cominciò a far l’ufficio suo con sodisfacimento di tutti e con grazia del re. E dopo che il re Carlo fu eletto imperadore, conoscendo la pratica che messer Filippo aveva ne le faccende de l’Italia e massimamente de la Lombardia, gli pose in mano tutti gli affari che a le cose d’Italia appartengono. Del che sì bene a messer Filippo ne avvenne che egli, oltra che la sua vertù e prudenza dimostrò, ne acquistò di molte ricchezze, e di continovo più divenne servidore de la sua reina, quella come cosa santa adorando. Che diremo noi, donne mie belle e vertuose, del valore e magnificenza di questa splendidissima reina? Veramente per mio giudicio, quale egli si sia, ella merita tutte quelle lodi che a donna eccellentissima dar si possano, perciò che ella magnificamente operando ha il suo fedelissimo servidore rimeritato. Ed in vero come il sole è di tutto il cielo e di quanto sotto quello si contiene bellezza ed ornamento, così la magnificenza in ciascheduna persona è veramente la chiarezza e lo splendidissimo lume d’ogni altra vertù che in quella risplenda, e massimamente in quei personaggi che di maggior grado sono. Ma facendo fine attenderò che voi a questa cortesissima reina diate quelle lodi che le convengono e che ciascuno dica circa questo il parer suo, perciò che a me pare che tanto dire non se ne possa che molto più non ne resti a dire. Ed io invero parole non trovo che la sua grandezza in parte, non che in tutto, sappiano agguagliare.
Se io, molto cortese e magnanima signora mia, mentre che lo spirito mio informerà questo corpo non mi dimostrassi verso voi e tanti da voi ricevuti beneficii con tutto il cor grato, veramente d’eterno biasimo degno mi giudicherei. Ma perchè io, qual io mi sia, mi do a credere e non senza ragione che la ingratitudine sia uno degli sconci, enormi e vituperosi vizii che caschino in qualsivoglia persona, mi son sempre sforzato di fuggirlo e tuttavia me ne sforzo, cercando quanto più si può da quello allontanarmi. Ora perciò che io non posso di pari gratitudine a la vostra infinita cortesia e reale liberalità corrispondere, chè sempre avete con la generosità de l’animo vostro quale voi sète ne l’opere da voi magnificamente fatte dimostrato; questo almeno farò io, che confessandomi di gran somma debitor vostro e cominciando quanto per me si può a sodisfarvi, farò noto al mondo che io non voglio esser ingrato dei ricevuti da voi beneficii, parendomi che sola la confessione del debito sia quasi un principio di pagamento. Onde con quelle picciole forze che io posso cominciando a sodisfarvi, una mia novelletta molto breve, recitata questi dì dal nostro vertuoso messer Girolamo Cittadino in casa del signor Lucio Scipione Attellano a la presenza di molte belle donne e da me al numero de l’altre accumulata, v’appresento e dono, portando ferma openione che voi quella con allegro viso accettarete. E a darvi questa mi son mosso parendomi che a voi meglio che ad altri convenga, perciò che quella sète che oltra la liberalità e cortesia che in voi sono grandissime e tra l’altre vostre doti in voi risplendono come ne la serena notte la luna fra le minori stelle, onorate e senza fine guiderdonate i vertuosi che conoscete. So anco che più i frutti de l’ingegno vi aggradiscono e dilettano che non fanno le gemme, l’oro e le ricche vestimenta, de le quali cose, la Dio mercè, copiosa ed altrui tanto liberal ne sète che non solo al bisogno di chi vi richiede liberamente allargate le mani, ma assai sovente le aspettazioni e speranze altrui col largo e sontuoso vostro donare prevenite. Degnarete adunque prestar l’orecchie a ciò che il nostro gentil Cittadino ci dice d’un leggiadro e vertuoso atto usato verso un vertuoso uomo da una nora di Carlo, di questo nome settimo re di Francia. E riverentemente supplicandovi che vi piaccia tenermi ne la vostra buona grazia, umilmente vi bascio le mani. State sana.
Ancora che a questa nostra età, – o sia infelicità dei tempi per le continove e sanguinolenti guerre, o sia influsso del cielo, o sia l’avarizia dei grandi che più ad accumular oro che ad onorar le vertù attendono, o qual si sia la cagione, chè ad altri lascieremo l’investigazione di tal effetto, – veggiamo gli uomini vertuosi, e massimamente quelli che tutto ’l dì dietro agli studii de le buone lettere impallidiscono e si macerano, non esser in prezzo; non è però che ove sono i prencipi liberali e magnanimi, o repubbliche ben institute, che sempre gli uomini dotti non siano onorati e di loro fatta convenevol stima. Nè io ora voglio annoverarvi e ridurvi a la memoria le lodi, i premii e gli onori da uomini eccellenti, da capitani, da duci, da regi, da imperadori e da le magnifiche e nobilissime città ai dotti in diversi tempi dati, perciò che la cosa è tanto chiara che non bisogna con nuovo ricordo quella reiterare. E chi è colui che legga i buoni autori che cotesto non sappia? Tutti i volumi de l’istorie latine e straniere ne sono pieni; ma perchè siamo ridutti a quei tempi ove la vertù è lodata e va mendicando, non deve perciò la nostra gioventù perdersi d’animo e lasciati gli studii de le lettere totalmente mettersi a l’ozio, al giuoco, a la caccia o a l’arme. E per ora voglio solamente parlare de la milizia, parendo ad alcuni che nel mondo sono nati non ad altro fine che a far numero ed ombra, che le lettere non convengano con la milizia. Io non vi vo’ già negare che l’uomo talora non possa riuscir buon soldato e far dei fatti pur assai degni d’eterna memoria nel mestieri de l’arme, ancor che sia senza lettere; ma bene santamente giurando affermerei esser molto più facile ad un bello ingegno, ad un elevato spirito che di buone lettere sia dottrinato, divenir uomo eccellente ne l’arte militare, che non ad uno che senza lettere si metta a far questo mestiero. Ed è anco assai manifesto che uno di deboli forze da la natura armato, con gli avvedimenti, con gli avantaggi,