Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella XLVI
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ci dice d’un leggiadro e vertuoso atto usato verso un vertuoso uomo da una nora di Carlo, di questo nome settimo re di Francia. E riverentemente supplicandovi che vi piaccia tenermi ne la vostra buona grazia, umilmente vi bascio le mani. State sana.
Ancora che a questa nostra età, – o sia infelicità dei tempi per le continove e sanguinolenti guerre, o sia influsso del cielo, o sia l’avarizia dei grandi che più ad accumular oro che ad onorar le vertù attendono, o qual si sia la cagione, chè ad altri lascieremo l’investigazione di tal effetto, – veggiamo gli uomini vertuosi, e massimamente quelli che tutto ’l dì dietro agli studii de le buone lettere impallidiscono e si macerano, non esser in prezzo; non è però che ove sono i prencipi liberali e magnanimi, o repubbliche ben institute, che sempre gli uomini dotti non siano onorati e di loro fatta convenevol stima. Nè io ora voglio annoverarvi e ridurvi a la memoria le lodi, i premii e gli onori da uomini eccellenti, da capitani, da duci, da regi, da imperadori e da le magnifiche e nobilissime città ai dotti in diversi tempi dati, perciò che la cosa è tanto chiara che non bisogna con nuovo ricordo quella reiterare. E chi è colui che legga i buoni autori che cotesto non sappia? Tutti i volumi de l’istorie latine e straniere ne sono pieni; ma perchè siamo ridutti a quei tempi ove la vertù è lodata e va mendicando, non deve perciò la nostra gioventù perdersi d’animo e lasciati gli studii de le lettere totalmente mettersi a l’ozio, al giuoco, a la caccia o a l’arme. E per ora voglio solamente parlare de la milizia, parendo ad alcuni che nel mondo sono nati non ad altro fine che a far numero ed ombra, che le lettere non convengano con la milizia. Io non vi vo’ già negare che l’uomo talora non possa riuscir buon soldato e far dei fatti pur assai degni d’eterna memoria nel mestieri de l’arme, ancor che sia senza lettere; ma bene santamente giurando affermerei esser molto più facile ad un bello ingegno, ad un elevato spirito che di buone lettere sia dottrinato, divenir uomo eccellente ne l’arte militare, che non ad uno che senza lettere si metta a far questo mestiero. Ed è anco assai manifesto che uno di deboli forze da la natura armato, con gli avvedimenti, con gli avantaggi, con quei modi che gli scrittori insegnano, avanzerà un Anteo e un Ercole. S’è anco ne l’istorie letto e ai nostri giorni veduto un prudente e disciplinato capitano con poco numero di gente aver rotto e messo in fuga numerosissimo e molto forte essercito, perciò che, come si suol dire, l’ingegno di gran lunga avanza le forze. E se noi vorremo raccontar gli illustri e famosi capitani così del nome italico come del peregrino e fuor d’Italia, trovaremo leggendo l’istorie latine e greche che i più famosi e quei di maggior pregio sono stati tutti di buone lettere ornati, il che per esser troppo chiaro non ha di bisogno di prova. Onde io crederei non discostarmi dal vero ogni volta che io dicessi esser tra il soldato dotto e l’ignorante quella diseguaglianza che si dice esser tra l’uomo vivo e l’uomo dipinto o sculto. Arrogi a questo che se non fossero le lettere, noi non saperemmo chi fossero stati i nostri maggiori e de le cose passate non ci saria nel mondo contezza alcuna. E nel vero, oltra gli infiniti piaceri ed utili che i buoni soldati tranno de le lettere, egli è pur grandissima sodisfazion d’animo quando l’uomo s’abbatte ove si parli di condur un essercito contra nemici, accamparlo in luogo atto sì per il vivere dei soldati come dei cavalli, levar le vettovaglie a l’oste contraria, levarle l’acque, assediare, passar monti, batter una fortezza e far simil altre spedizioni, è, dico, gran contentezza a saper non solamente dire «Facciamo così», ma di più render quelle ragioni perchè ciò si de’ fare che convincono gli animi degli ascoltanti. Il che tutto ’l dì avviene ove gli esserciti sono congregati. Onde molto meglio saperà il dotto divisare ciò che si maneggia, e render le cagioni perchè di tal modo si de’ operare e non altrimenti, che non saperà l’ignorante. E questa è la vera e perfetta scala di salire a la sommità de la fama ed acquistare quei fregi d’onore che ci dànno eterno nome. Nè solamente ne l’arte de la milizia sono le lettere necessarie ed ornamento di tal mestieri, ma elle tutte l’altre arti di qual sorte si siano adornano, reggono, poliscono e fanno più perfette e riguardevoli. Pertanto deverebbero i padri che bramano nodrir i figliuoli con speranza che riescano in qual si voglia mestiero eccellenti, prima far loro apparar le buone lettere e poi lasciargli andar ad essercitarsi in quello che loro più aggrada, perciò che quel fanciullo sempre riuscirà in quell’arte molto meglio a la quale è da la sua natura disposto, che non farà se contra il suo natural instinto è astretto a pigliarne una e seguitarla che non gli piaccia. Ma diamoci pur sempre a credere che le lettere siano proprio ornamento d’ogni arte e d’ogni età ed anco si può dire d’ogni sesso. Oh, se da prima quando i fanciulli cominciano andar a le scuole sapessero o gustassero pur un poco quanto di giovamento, quanto d’utile, quanto d’onore rechino le lettere a chi le appara, come averemmo questo secolo nostro onorato ed eccellente! Oh, con quanta diligenza, fatica ed amore attenderebbeno a farsi disciplinati, con quanta cura dispensarebbero l’ore a ciò che così preziosa cosa come è il tempo, che è irreparabile, non si spendesse vanamente, non si gettasse via, non si consumasse in cose frivole e di nessuno momento! Ma la natura agli uomini si può dir esser sopra matrigna in questo, perciò che ai fanciulli ed anco ai giovini non ha dato tanto di giudicio che sappiano discerner il lor utile e ciò che a quelli è necessario, quando la tenera età sarebbe capace di apparare tutto quello che gli fosse insegnato; che poi, alora che sono giunti gli anni del conoscimento di ciò che loro fa di bisogno, sono di modo gli uomini a disciplinarsi o ne le lettere o in qual si voglia arte inetti, che di rado avviene che alcuno riesca a perfezione. Nè perchè si veggia talora qualcuno riescere si deve dedurre in consequenzia, perciò che cotestoro sono più rari che i corbi bianchi, ed una rondinella che appaia non fa però primavera. Ma io mi sono lasciato trasportar lontano da ciò che dir voleva, cioè che i letterati sono adesso in poco prezzo mercè del mondo che è giunto a l’ultima feccia d’ogni bruttura. Non crediate però, come vi ho di già detto, che sempre fosse così. Onde lasciando la memoria dei tempi antichi e ciò che circa questo i buoni autori n’hanno scritto, io vi vo’ narrare un bellissimo atto che una grandissima donna in onorar un uomo dotto nei tempi dei nostri avi gentilissimamente fece. Il che a me pare che meriti esser a la memoria di quelli che verranno consacrato. Dicovi adunque che Carlo settimo re di Francia ebbe un figliuolo chiamato Luigi, che poi fu Luigi undecimo di questo nome, il quale fu quello che in tutto liberò il reame di Francia da la lunga e rovinosa oppressione degli inglesi, che il detto regno per la maggior parte avevano arso e quasi distrutto; ed oltra questo di modo castigò i baroni ribelli che erano per l’occorse discordie avvezzi a vivere in licenziosa libertà, che non vi rimase barone o signore, per grande e poderoso che si fosse, che ardisse di far motto nè parlar quando vedeva un ministro di corte, perciò che voleva esso Luigi che agli ufficiali suoi fosse la stessa riverenza avuta che a la presenza sua si deveva avere. Ora essendo egli ancora delfino di Vienna, titolo e prencipato dei primogeniti dei regi di Francia che a la corona succedono, prese per moglie madama Margarita figliuola del re di Scozia, donna di bella persona e di real presenza e molto costumata e ricca d’altezza d’animo e di sottili avvedimenti, e di tutte quelle doti ornata che a reali donne come ella era convengano, che in vero a quei tempi portava il titolo de la più vertuosa ed avveduta donna che fosse nel regno. E tra l’altre sue lodevoli e belle parti che aveva, ella mirabilmente e con leggiadrissimi modi sapeva onorar tutti i vertuosi così in lettere come ne l’altre sue arti che il valevano, nè mai ci fu vertuoso alcuno che invano a lei ricorresse. Era alora in corte maestro Alano Carrettieri, uomo essercitato in molte scienze e che a quei dì era ne la lingua francese in prosa e in rima il più elegante dicitore che ci fosse, di maniera che da tutti era chiamato il padre de la lingua gallicana, e perciò avuto generalmente in grande riverenza così dal re come da tutti gli altri. Egli senza mettersi più a celebrar questa dama che quella, faceva ogni dì qualche rima lodando ora una donna ora un giovine, secondo che o parola udiva o atto vedeva che a lui paresse degno d’esser celebrato, e le sue rime recitava con una soavissima prononzia. Madama la delfina molto di ragionar seco mostrava dilettarsi, perciò che era bellissimo favellatore, e quello che meglio sapesse narrare una istoria e favoleggiare quando era richiesto, che altri che in corte praticasse. Medesimamente leggeva essa delfina troppo volentieri le composizioni di maestro Alano facendogli sempre onore e di continovo commendandolo. Avvenne un giorno di state da merigge che maestro Alano che era vecchio e male aveva la precedente notte dormito, vinto dal sonno suso una banca s’era assiso e quivi ne la sala dormendo posava. Occorse a madama la delfina in quell’ora uscir fuori de la sua camera e passar per la sala, la quale passando indi vide maestro Alano che dormiva. Onde inviatasi verso lui, fece con mano cenno a tutti che seco erano che non facessero strepito nè per modo alcuno lo risvegliassero. E chetamente a lui accostatasi che soave dormiva, quello a la presenza di quanti ci erano bellamente basciò in bocca senza altrimenti destarlo. A questo gentilissimo atto ce ne furono molti che avvelenati dal pestifero vizio de l’invidia, a la delfina dissero: – Deh, madama, diteci un poco, di grazia, come mai v’ha sofferto il core di poter basciar così laido e difforme uomo come è cotestui? – Era nel vero maestro Alano, oltra la vecchiezza che mal suol esser gradita, di viso molto brutto e quasi spaventevole. Rivolta alora madama Margarita tal risposta diede loro: – Voi, salva la grazia vostra, fate gran villania a biasimarci di ciò che se savii tenuti esser volete, ci devreste lodare: ma siete poco saggi, e non vedete se non queste apparenze esteriori; perché noi non abbiamo baciata quella bocca che vi par laida, ma abbiamo col bacio riverita ed onorata la bellissima bocca del beato ingegno di questo divino poeta e facondissimo dicitore, dalla quale tutto il dì escono rubini e perle, e tante gemme preziose della eloquenza della nostra lingua gallicana, assicurandovi che noi ameremmo molto meglio che egli con i suoi dotti e ben limati versi e ne le sue eloquenti prose meschiasse il nostro nome e ci celebrasse che guadagnar una duchea; con ciò sia cosa che noi portiamo ferma credenza che le sue purgate scritture ne leveriano fuor de la oblivione appo quelli che dopo noi verranno, quando morte avesse questo corpo in trita polvere ridutto. E in vero gli scrittori sono quelli che perpetuano la memoria di tutti quelli che negli scritti loro a la memoria hanno consacrati; chè infiniti sono che oggidì sono nominati e vivono ne la memoria nostra perchè i poeti e gli istorici hanno di loro fatta menzione, i quali forse sepolti ne le tenebre de la oblivione sarebbero se la penna degli scrittori stata non fosse. Parendoci dunque convenevole che avendoci talvolta, la sua mercè, maestro Alano ne le sue rime e prose nominata, e tutto il dì le donne de la corte nostra celebrando, che se li devesse fare alcun onore; sapendo che dei beni de la fortuna è da monsignore lo re nostro suocero e signore e da monsignor nostro consorte largamente rimunerato, abbiamo voluto de la maniera che usata abbiamo onorarlo, sapendosi che ancora che sia la costuma di questo reame il basciarsi così domesticamente tra gli uomini e le donne, che nondimeno le nostre pari non si sogliono lasciar basciare se non dai reali o da qualche gran prencipe straniero. Questo adunque segno a noi è paruto assai conveniente testimonio de la vertù e de l’eloquenza di cotanto uomo, la cui vertù meritarebbe esser stata a quegli antichi tempi quando ai dottrinati si rendeva il debito premio ed onore. Del che tutte l’istorie piene ne sono. – Divolgatosi ne la corte quanto madama la delfina aveva detto e fatto, fu ella generalmente da tutti i saggi riputata savia, cortese e di generoso e nobilissimo animo; e maestro Alano ne divenne in molta più riverenza e più riguardevole che prima non era, perciò che per l’avvenire essendo d’ogn’intorno sparsa la fama di così umano atto da la delfina usato, chiunque poi vedeva maestro Alano più de l’usato il riveriva ed onorava.
Troppo meravigliosi effetti son quelli che ogni giorno si veggiono nascer per cagione di amore, d’alcuni dei quali l’uomo può talora render la ragione perchè così avvengano, e molto spesso è la cagione di quegli in tal guisa occulta che l’effetto palese si vede, ma non si penetra perchè così sia. Ed ancora che io stimi esser bellissima cosa secondo la natural filosofia l’investigar l’origine de le cose e render la ragione perchè questo e quello effetto in tal forma avvenga, e di grandissimo onore giudichi degni quei tali che veramente segretarii de la natura si ponno chiamare, nondimeno perciò che uomini siamo e possiamo di leggero errare, sempre m’è spiaciuto così porsi in una openione, quando le cose non son chiare, che la contraria parte debba biasimarsi; parendomi esser lecito che ove la ragione non ci sforza, possa ciascuno quella parte tenere che più gli aggrada. Nè per questo se tra dui amici sono pareri diversi, a l’amicizia si fa ingiuria, non rompendo quella la varietà de l’openioni. Non sta adunque male, come ai dì passati vidi che voi questionando con il nostro Lucio Scipione Attellano faceste, a dire moderatamente il parer suo, approvando quello che al vero è più simile e conferendo insieme tutto ciò che addurre si può, lasciando poi a chi ascolta libero il giudicio di quello che è disputato. Questo dico perciò che avendo il signor conte Giulio da San Bonifazio a la presenza vostra e d’altri signori e gentiluomini narrato un meraviglioso accidente di quello che sa far Amore quando vuole, dopo che ciascuno disse l’openion sua, – e non ci fu mezzo a conformar gli animi dei questionanti, e Dio sa se al vero nessuno s’appose, – voi mi pregaste, potendomi comandare, che io la novella che il conte disse scrivessi. Il che feci molto volentieri sì per ubidirvi come anco chè il caso mi parve molto mirabile. Ma io non ho già voluto scriver la varietà de le openioni d’essi questionanti e massimamente quella di messer Paolo Semenza priore di quei da Goito. Basta che la novella come occorse vi mando e dono, in testimonio de la servitù mia verso voi e tutta l’illustrissima casa sforzesca. State sano.
Io non so già in qual guisa mi sia lasciato condurre nè chi mosso m’abbia a novellare innanzi a così onorata compagnia, essendone qui molti che meglio di me e con sodisfazione di tutti potrebbero questo arringo correre. Ma poi che io in ballo entrato sono, egli m’è pure forza ballare a la meglio o, per parlar più proprio, al men male che io saperò. Onde di me vi converrà pigliar ciò che io posso darvi, perchè in effetto io non sono gran dicitore, se ben pare che io parli assai. Ora poi che ragionar debbo, anderò senza partirmi di qui a Verona mia nobilissima patria, che in pochissime cose cede a qual si voglia città d’Italia, e vi narrerò un meraviglioso accidente d’amore che non è guari in quella avvenne. E per non tenervi più a bada vi dico che questi anni passati, tenendo Massimigliano imperadore la detta città di Verona sotto il suo dominio, tra gli altri che a la guardia d’essa terra furono da lui deputati vi fu il signor Gostantino Boccali, giovine nobilissimo di quei dispoti e prencipi che de la Grecia e del reame de lo Epiro furono da’ turchi cacciati. Egli, come molti di voi ponno aver veduto, è giovine di grande statura, ben proporzionato, di giocondo e veramente signorile aspetto e de la persona molto prode, come colui che da gran prencipi disceso sempre s’è da fanciullo ne l’arme essercitato. Egli alora aveva una banda di cavalli leggeri e insieme con gli altri capitani dimorava a la diffesa de la città contra i nemici di Cesare. Quivi dimorando, e spesso per la città, per via di diporto, ora a piè ed ora a cavallo andando, avvenne che un giorno egli s’incontrò in una gentildonna assai bella, la quale mirabilmente gli piacque e di così fatta maniera gli entrò nel core che a lui pareva non aver mai più veduta nè così bella nè così leggiadra donna. E non avendo riguardo che era su l’arme, con il campo dei nemici non molto lontano, che ogni dì correvano fin a le porte de la città, e che egli era capitano di soldati a cui non sta bene la fierezza de l’arme ed il rigore de la milizia effeminare ed ammollire con lascivie ed imprese amorose, – cosa che più nocque al perpetuo nemico dei romani Annibale, che quanti mai esserciti e capitani fossero contra lui, – aperse esso signor Gostantino sì fattamente il petto a le nuove e nocive fiamme veneree, e de la veduta donna così s’accese che quel dì che non