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III.
Ritornarono a Roma verso la metà d’agosto, e cambiarono appartamento: il mezzanino era veramente splendido, ma uno dei salotti rimase per un po’ di tempo sprovvisto di mobili.
— Affittiamo una camera, — propose Regina. Antonio si stizzì.
— Ecco, ora sei tu che diventi una borghesuccia!
— Eh, nella vita si muta! — ella disse, non senza amarezza. — S’invecchia, si diventa frolli, ci si adatto a tutto.
Ella infatti si adattava: non sapeva perchè, ma si adattava; qualche volta sentiva entro di sè, intorno a sè, nella vita tranquilla che ella ed Antonio avevano ripreso, un po’ di vuoto, come nel nuovo appartamento, ma non si ribellava più.
Dopo pranzo, marito e moglie uscivano assieme a braccetto, borghesemente tranquilli, andando a soffocare la noia della loro esistenza al caffè Aragno, o in piazza Colonna, o specialmente pei viali intorno alla piazza della Stazione.
Davanti al Gambrinus ed al Morteo i tavolini erano sempre circondati da gente che sembrava molto allegra; una vera folla, pigiavasi nei viali illuminati dalla luce elettrica e dalla luna, e molte carrozze attraversavano la gran piazza bianca, dove i binari dei tram scintillavano come fili d’acqua.
Dopo i lunghi silenzii e le solitudini del Po, a Regina pareva di sognare nel ritrovarsi tra la folla, nello splendore freddo e acuto delle lampade elettriche, nascoste come piccole lune fra gli elci. Dai caffè sgorgavano fasci di luce: il marmo dei tavolini aveva riflessi lividi; sotto gli alberi illuminati dalla luna si stendevano ombre e chiaroscuri strani. La folla passava e guardava dentro i caffè, animati da altra folla riflessa e moltiplicata dagli specchi: ora sì, ora no, balzarti nello sfondo un po’ fumoso del Morteo la figura volante e strillante di una canzonettista, i cui strilli animaleschi si confondevano con le vocine melanconiche dei violini e il brusìo della folla. Centinaia di volti, beffardi, eppure animati da un piacere impulsivo e brutale, guardavano la canzonettista.
Senza saper precisamente perchè, Regina provava uno strano piacere nel guardare la folla, i volti lividi, le vesti chiare delle donne, le fisonomie degli uomini che fissavano la canzonettista, le braccia commiserevoli di questa commiserevole creatura.
Una sera distinse tra la folla una ragazza vestita di verde, coi folti capelli cadenti in un quadrato rossastro sulle spalle magre: il vestito corto lasciava vedere due gambe sottili, nude, e due piedi enormi calzati di scarpine gialle. A Regina parve un uccello palustre, e improvvisamente, sotto quegli alberi che sembravano anneriti e bruciati dal colore di mille aliti ardenti, ella ripensò al suo gran fiume, ai pioppi bianchi come ceri accesi dalla luna, al diametro dell’argine nel circolo immenso della pianura; ma si meravigliò di non sentire più la tristezza e la nostalgia d’un tempo.
Antonio proponeva di sedersi al caffè; ma ella preferiva aggirarsi tra la folla, avanzandosi fin verso via Volturno, dove le voci dei venditori e delle venditrici di cocomeri s’incrociavano, si inseguivano, si rispondevano dispettose, simili a canti di galli.
— Favorischino, signori, favorischino!
Alla luce delle fiammelle tremolanti sui tavoli neri ed umidi, i cocomeri spaccati rosseggiavano, spandevano un odore fresco e piacevole. Bimbi, operai, qualche studentello, qualche donnina, curvi sotto la luce tremolante, affondavano il volto nella polpa rosea delle fette di cocomero.
— Favorischino, signori! Che bella roba! Sangue vero. Vuole, signora?
Nell’angolo del viale, davanti al piccolo bazar addossato al muro, un venditore ambulante guardava con degnazione i banchi dei cocomeri e la gente che li attorniava; e i suoi occhi bianchi e la sua bocca storta avevano un sorriso di superiorità ironica, ma se vedeva qualcuno sfiorare e guardare le sue cassette, si volgeva premuroso e prendeva un’aria solenne.
— Vuole, signora?
E dalla tromba rossa del grammofono d’un suonatore ambulante, sgorgava una, musica strana, rauca, una risata metallica e rabbiosa, or lontana or vicina, che veniva da una profondità ignota ed esprimeva una falsa gioia, un grido di miseria, di dolore, di peccato, di pietà e di tristezza; voce beffarda, e implorante, incosciente e supremamente melanconica.
A Regina pareva la voce della folla là intorno sparsa; la voce della giovane cortigiana pallida, dai capelli rosseggianti sotto il gran cappello nero, seduta sola e pensosa davanti a un tavolino del Morteo; la voce della bimba che pareva un uccello palustre, della canzonettista affamata, della donnaccia che vendeva i cocomeri, del vecchio dalla camicia color rosa e dagli occhi lucenti, del signore con le labbra grosse e lo sguardo brutale, del grassone melanconico, della signora che sollevava l’abito rosso fino a metà gamba, della balia dal profilo ebreo, del bimbo giallognolo che questa teneva fra le braccia, della donnina vestita di nero, col velo svolazzante, che correva dietro il tram, della coppia d’amanti scemi appoggiati romanticamente alla cancellata del giardino...
— Ed anche la mia, ed anche la voce di Antonio! — pensava Regina; e sentiva talvolta risalirle dal profondo dell’anima il disgusto per la folla; ma un disgusto raddolcito da un sentimento di pietà.
Tornando indietro, ella guardava con pietà il venditore ambulante, la donnaccia, il grassone melanconico, la balia, la donnina dal vestito rosso; ma sopratutto la canzonettista magra che forse aveva fame, e la cortigiana dal viso pensoso e quasi puro. Sembrandole che anche Antonio guardasse quest’ultima con un certo interesse, pensava:
— Chissà che un tempo non si sieno conosciuti! — ma non ne provava rancore: provava solo una grande, una suprema pietà per la donna perduta, per Antonio, per sè, per tutti gl’incoscienti, per tutti i ricchi e per tutti i miseri, per tutta la tristezza e per tutta la noia umana.
Qualche volta marito e moglie sedevano su una panchina in fondo al viale, all’ombra, e mentre il giovine pareva anch’egli colto da un senso di melanconia e di stanchezza, gli occhi di lei seguivano, incantati da un triste sogno, i grandi occhi verdi e rossi dei tram, la corsa delle vetture dei giornali che trasportavano alla stazione il loro carico di pettegolezzi e di gloria, il via vai delle gente, le ombre degli alberi, le nuvole che salivano sullo sfondo argenteo dell’orizzonte.
La luna guardava dal cielo, bianca e tenera: intorno vibrava la musica dei mandolini e dei violini: s’udiva il suono di una campana vicina, lo squillo d’una tromba lontana.
— Tutti suonano, — osservò una sera Regina; — pare che tutto il mondo sia in festa, che tutto il mondo sia allegro.
— E invece è triste, secondo te, — disse Antonio non senza ironia.
— No, è qualcosa di peggio: è misero, ed io ne provo una grande pietà.
Egli non replicò: pareva, dopo il loro ritorno, che egli sdegnasse ribattere le osservazioni melanconiche di sua moglie, quando ella si lasciava cogliere dal malumore, il che del resto ora accadeva di rado.
*
In settembre Regina s’accorse che la profezia del vecchio mugnaio s’era avverata. Ella era madre.
Questo avvenimento non commosse, ma neppure dispiacque nè a lei nè ad Antonio. Solo causò una piccola disputa fra loro, perchè Antonio dichiarò subito che si doveva prender la balia, mentre Regina voleva allattare lei.
— Non voglio — egli disse quasi rudemente.
— Se i mezzi basteranno!
— Basteranno! — egli affermò.*
Un anno passò: nulla di straordinario, in apparenza, avvenne. Durante quell’inverno Regina non frequentò la società; non volle veder nessuno: non andò più neppure dalla suocera, con la scusa che le scale la facevano soffrire; e se Arduina veniva a trovarla, ella ordinava alla domestica di dirle che in casa non c’era nessuno! Riconosceva la sua ingratitudine, perchè dopo tutto era ad Arduina che Antonio doveva il suo posto presso la principessa, ma Regina non poteva vincere la ripugnanza e l’antipatia che tutti i parenti del marito le destavano.
Durante la gravidanza ella cadde in una specie di letargo morale; non le dispiaceva il suo stato, nonostante i suoi continui disturbi fisici, ma l’idea della maternità non la esaltava. Lungo l’inverno ella divorò una enorme quantità di romanzi, che suo marito le portava dalle biblioteche: stava ore ed ore accanto al caminetto mobile che Antonio aveva fatto collocare in uno dei salotti, sola e tranquilla.
Antonio usciva la mattina, spesso mentre ella dormiva ancora; rientrava appena a colazione, usciva di nuovo, ritornava verso sera, dopo essere stato qualche ora a studiare nel suo ufficio, od a sbrigare gli affari della principessa. Regina aveva finito con l’abituarsi alla sua solitudine.
Tutto procedeva bene, troppo bene forse. Oltre il suo doppio stipendio, Antonio diceva di guadagnare anche qualche cosa dai lavori straordinari d’ufficio; una sera, poi, verso la metà di aprile, quando era già vicina la nascita del figlio, egli raccontò a Regina una storia al quanto strana.
— Se non mi sgridi, — le disse, — ti confesso un mio peccato.
— Se l’hai già fatto e te ne sei pentito, è inutile che ti sgridi.
— Pentito? No; è questo il grave, non me ne sono pentito. Senti: la sera del giorno in cui tu sei partita, l’anno scorso, io sono stato trascinato da un mio amico in una casa da gioco...
— Ah! — fece Regina.
— Non spaventarti; è stata l’unica volta. Ero naturalmente irritato, arrabbiato... quasi disperato. Ma, vedi — non ne abbiamo parlato mai; però bisogna che te lo dica almeno una volta, — io ero irritato più contro me stesso che contro di te. Chissà! Tu forse avevi ragione: io ero stato imprudente, o imprevidente... non ti avevo bene spiegato le piccole miserie della vita mediocre delle grandi città... Basta, non parliamone. Io ero dunque irritato contro me stesso, che non ero buono a sollevarmi dalla mia piccola posizione, mentre tanti altri brigano, fanno, disfanno, spingono, si cacciano dapertutto. «Levati tu, che mi ci metto io». Andai, dunque, giocai. Avevo cento lire, se ricordi; le misi tutte sul tappeto verde. Vedi, — ora ti dirò tra parentesi, — quella sera mi accorsi che io ero ancora un gran fanciullone. Credevo di conoscer gli altri e me stesso, ed invece... Trovai là tre o quattro miei colleghi; mi accorsi che uno barava: un altro aveva in quei giorni fatto il cambio del suo posto al Ministero con un segretario d’Intendenza, dal quale aveva in compenso ricevuto duemila lire. Aveva, il mio collega, tre bambini e la moglie incinta; la moglie che non usciva di casa da due mesi per mancanza di vestiti. Egli aveva fatto il cambio perchè voleva andar via da Roma, pagare i debiti, provvedere al parto della moglie: quella notte egli teneva in tasca le duemila lire e le perdette tutte. Io guadagnai da principio: arrivai a mille ottocento lire; poi perdetti; rimasi con cinquanta lire; guadagnai e perdetti ancora; sai, succede sempre così; verso le tre del mattino mi trovai con circa duemila lire davanti. Ero stanco, assonnato, nauseato. Pensavo a te; pensavo: se lo sapesse Regina! A un tratto scoppiò una lite fra un giocatore ed il mio collega baro. Si presero a schiaffi, intervenne il padrone della bisca; accadde un pandemonio. Io mi alzai e me ne andai con le mie brave duemila lire.
Regina ascoltava, seduta accanto alla finestra, contro la quale stava appoggiato Antonio. Era quasi notte; dalla bella via silenziosa, ove i fanali brillavano nell’ultimo barlume roseo del lungo crepuscolo, dai giardini dei villini di fronte, da vicino, da lontano, arrivava quel profumo tiepido e grato delle sere primaverili romane. Nello sfondo della via, al di sopra delle case già nere, sul cielo d’un rosa violaceo, la luna nuova calava, verdolina, simile a uno spicchio di arancia acerba. Regina ricordava la sera in cui ella, affacciata alla finestra dell’altro appartamento, s’era lamentata di non scorgere le stelle. Quale cambiamento, dentro di lei, intorno a lei!
Quella sera ella aveva rivelato a sè stessa il progetto, prima informe e vago, della fuga e della separazione. Ora... ora tutto ciò che era accaduto le pareva un sogno. Perchè nella vita si muta così? Anche Antonio non era più lo stesso: egli medesimo lo confessava.
«Ero un fanciullo, e non lo sapevo». Ora... ora egli raccontava una storia, ma Regina, ascoltandolo, provava una inesplicabile impressione: le sembrava che egli mentisse. Perchè mentiva? Ella non sapeva... non sapeva... e neppur cercava di spiegarsi la sua diffidenza, ma sentiva che la storia narrata da Antonio non era vera. E ne provava una vaga angoscia. Avrebbe preferito che Antonio avesse davvero giocato, e avesse perduto o vinto — poco importava — purchè ora non mentisse.
Egli proseguì:
— Il bello viene ora, senti. Quando mi trovai con le duemila lire formai altrettanti progetti. Volevo venire a raggiungerti, volevo giocare ancora: le misi a disposizione di Arduina perchè, come ti dissi, mi procurasse un posto di segretario di gabinetto. Poi, nei giorni in cui andai alla Borsa per l’affare della principessa, comprai cinque azioni della Società del carburo italiano: allora valevano trecento lire l’una; oggi, sai quanto valgono? Sai?
Suo malgrado Regina si turbò. Antonio s’era alquanto curvato sopra di lei, e sebbene la sua voce risuonasse calma, quasi indifferente, ella sentiva qualche cosa d’insolito fremere in lui.
Ella dimenticò l’impressione di diffidenza che poco prima la dominava: no, Antonio non mentiva più; l’espressione dei suoi occhi, fissi sul viso intento di lei, era veramente un’espressione sincera ed ardente di audacia; lo sguardo di quegli occhi, già così amorosi, già così mollemente voluttuosi, era lo sguardo d’un uomo che vuol tentare la fortuna a tutti i costi.
— Sai? — egli ripetè.
— Cosa ne so io?
— E indovina, così!
— Cinquecento lire, — ella arrischiò.
— Di più.
— Seicento...
— Di più... di più...
— Mille? — ella disse timidamente.
— Di più ancora...
— Allora siamo ricchi! — ella esclamò con ironia forzata, ribellandosi alla sua commozione.
— Non lo siamo, ma potremo diventarlo! Tutto sta nel cominciare, mia cara! Le nostre cinque azioni ora valgono mille e duecento lire l’una. Possono salire ancora; ma io domani stesso le vendo: la metà della somma la do a te; con l’altra metà tento ancora! La fortuna, spesso, è di chi la vuole... Ma non spaventarti, poi!...
Regina infatti era diventata pallida.
— Perchè non me ne hai parlato?
— A che serviva? E se le azioni calavano?
Come in quella sera ormai lontana che Regina ostinavasi a ricordare, la serva annunziò il pranzo, e i due giovani passarono nel salotto attiguo: alla luce della lampada Antonio s’accorse che Regina era pallidissima, ma si mise a scherzare. — Non montare sul cavallo di Pegaso, ora!
Discussero alquanto sulla moralità e sulla opportunità dei giochi di borsa, d’azzardo, di lotto.
— Storie! — disse Antonio. — La vita stessa è un gioco: bisogna o giocare o morire. Ed ora andiamo a fare un passeggino.
*
Nei giorni seguenti egli vendette le azioni, — dopo averle fatte vedere a sua moglie, — e le diede tremila lire. Duemila Regina volle deporle nella Cassa di risparmio; con le altre mille comprò una fornitura da salotto e provvide a tutte le spese del parto e del battesimo.
— Forse morrò, — ella diceva negli ultimi giorni d’attesa. — Vedrai, ora che abbiamo un po’ di fortuna, morrò...
— Non dire sciocchezze, — rispondeva Antonio, quasi adirandosi.
Ella non morì, ma diede alla luce una creatura esile, moribonda, una bambina che pareva un gattino, nera, pelosa, con la testa enorme.
Nei primi giorni, vedendo quel mostricino, la giovane puerpera piangeva di ripugnanza e di dolore.
— Almeno morisse! — diceva crudelmente. — Perchè, perchè l’ho fatta nascere?
— Signorina, — le rispose un giorno la balia, un monumento di donna dal viso di bronzo circondato dall’aureola turchina dell’acconciatura di prammatica, — lasci fare a me. Lei l’ha fatta; non ci pensi più! Lasci fare a me, signurì. E siccome Regina dimostrava poca fiducia, la donnona si offendeva, faceva il muso, litigava con la serva che sosteneva la prossima inevitabile morte della bambina. Un giorno poi la balia se la prese con Marianna, la quale era venuta a chieder notizie di Regina e aveva detto che la bambina pareva una gattina.
— La lasci crescere allora, e le salterà addosso, perchè se la signorina Caterina pare una gattina, lei pare un topo.
*
Verso la metà di maggio Regina era già ristabilita. Era diventata quasi bella, e si sentiva forte, felice.
La balia manteneva le sue promesse: col suo forte latte agreste dava vita e bellezza alla misera creaturina cittadina: il piccolo volto nero e deforme si schiariva, si profilava; i grandi occhi lattiginosi prendevano, diceva Regina, parvenza umana.
Qualche volta pareva che la bimba sorridesse, fra sè e sè; ed allora tutto il suo piccolo viso si animava, e Regina provava una strana impressione: le sembrava che sua figlia fosse bella, ma nello stesso tempo credeva di illudersi, di essere invasa già dalle manìe quasi morbose di tutte le madri. Del resto ella si sentiva felice; felice di esser libera, sana, viva. Dopo le prime, deliziose passeggiatine fatte a braccio di Antonio, cominciò ad uscire con la balia e la bimba; le mattinate erano splendide, tiepide ondate di vento profumato davano all’aria dolcezze vellicanti: striscie di vivo argento solcavano le luminose altezze del cielo. Che diversità con la primavera dell’anno scorso! Regina provava impeti di tenerezza per tutto e per tutti; i tiepidi soffî di quel vento che veniva dalle pianure già calde del sud e andava verso il patrio nord ancora avvolto nella fresca primavera, le rapivano l’anima, lanciandogliela a volo come un uccello ebbro di luce e di spazio.
Un giorno uscì sola: le parve di essere simile a quell’eroe di una novella del Dostojewski, il quale, pur abitando una grande città e non conoscendola, costretto una volta ad attraversarne le vie principali, gli sembrò d’esser rinato a nuova vita.
Scendendo per via Nazionale, Regina si guardava attorno con curiosità infantile. Per la prima volta s’avvide che l’Hôtel Quirinale era grigiastro, mentre le era parso sempre giallo; vide il campanile della chiesa anglicana, rigato come un vestito da signora; ammirò lo sfondo magnifico della via delle Quattro Fontane, si fermò sul tappeto di sole che copriva la gradinata dell’Esposizione. Un cocchiere rosso, dagli occhietti verdi, sollevò due dita, credendola una straniera in cerca di una vettura; un moro vestito all’europea le passò vicino guardandola intensamente; una ciociara le offrì dei fiori. Tutto ciò le parve interessante, mentre un anno prima l’avrebbe infastidita. Scese per via dei Serpenti, ed a misura che s’inoltrava vedeva gli archi del Colosseo, aperti sul cielo profondo, e le pareva la guardassero come immensi occhi azzurri pieni d’un eterno sogno. Si trovò quasi sola davanti alla grande sfinge morta; soltanto un ragazzo roseo e biondo, vestito di verde, ritto fra due cestini d’arancie, vigilava l’ingresso. I tronchi delle colonne coricati al sole avevano riflessi metallici; dagli alberi del Palatino, sfumati sulle pennellate d’argento che solcavano il cielo, venivano soffi di fragranze campestri, gridi di uccelli in amore.
Regina scese giù correndo, penetrò sotto un arco e si fermò colpita da un freddo improvviso; un prete le passò vicino, nero e svolazzante come un melanconico uccello. Ella s’avanzò, aprì la Guida, ma non lesse. Giochi di sole e d’ombra chiazzavano l’immensità vuota e deserta del Colosseo; i muri screziati d’erbe selvatiche e di fiori gialli davano l’impressione di lembi di montagna; certi angoli ombrosi, verdi di musco freddo, parevano piccole pianure umide; misteriose caverne spalancavano le grandi bocche nere; rauchi lamenti di corvi stridevano dietro le muraglie. Tutto era sogno, rovina, morte: anche l’azzurro del cielo, troppo intenso, guardato da quel luogo, dava un’impressione di tristezza.
— Io non ho mai amato la storia, — pensava Regina. — C’è della gente che viene da lontano per entusiasmarsi davanti ad una pietra sulla quale, supponiamo, si posò il piede sporco di un guerriero romano. Ciò mi sembra stupido; perchè? La pietra per me non è che una pietra: le cose tutte non mi parlano per il loro passato, ma per la loro parvenza presente. Il passato è la morte: il presente è la vita. Qui io guardo: qui han lavorato dodicimila schiavi... o quanti? (riaprì la Guida, ma non lesse); i leoni hanno sbranato i cristiani; occhi crudeli d’imperatori, di donne, di plebei più incoscienti degli stessi leoni, gioirono dello spettacolo orrendo: ma tutto ciò è passato, e non mi commuove più. Sento solo il terrore del tempo che distrugge tutto. Oh, ecco i cari stranieri, che si gettano in questo sogno di morte, ciangottando come anitre nell’acqua triste d’uno stagno! Andiamocene.
Se ne andò. Sul cielo sempre più luminoso gli alberi del Palatino tremavano al vento; il campanile di Santa Francesca Romana s’intagliava nitido e scuro; l’arco di Costantino incorniciava il fresco quadro del viale che aveva uno sfondo di nuvole d’argento verdognolo.
Regina attraversò il viale e sedette sul gradino più alto della scalinata di San Gregorio: tutto davanti a lei, dal pino fremente di uccelli alla visione rosea di qualche lembo della città, tutto era luce, vita, gioia; dietro di lei, nel chiostro verde di musco umido, nel portico vigilato da sepolcri, nel giardino selvatico e abbandonato, tutto era silenzio e tristezza. Sempre il grande contrasto. Eppure ella entrò, vibrante di vita, in quel luogo di morte, e si lasciò condurre da un fraticello che pareva uno scheletro vestito d’una tonaca gialla. Visitò le cappelle, nel cui silenzio le belle immagini del Domenichino e del Reni si scolorivano come persone costrette a vivere nella solitudine; attraversò l’orticello selvatico, e guardò con profonda pietà il fraticello che camminava eppure era già morto alla vita.
Ella pensava alla sua bimba, alla piccola Caterina, alla quale voleva insegnare ad apprezzare, a godere, ad adorare la vita. Quanta gente morta vive nel mondo! — pensava. — Anch’io sono stata un’anima morta fino a pochi mesi fa; ora rivivo un po’, ma non sono viva come lo sarà la mia bambina; sono appena una risuscitata che ha ancora nell’anima il ricordo del sepolcro.
Nell’uscire mise una monetina sulla palma gialla della mano del frate: e dal modo col quale egli intascò il denaro e guardò la visitatrice, ella s’accorse che era ancora un pochino vivo, il pallido fraticello ischeletrito.
Poi uscì quasi fuggendo dal portico vigilato di sepolcri, avida di sole, di rumore, d’immensità.