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degli stessi leoni, gioirono dello spettacolo orrendo: ma tutto ciò è passato, e non mi commuove più. Sento solo il terrore del tempo che distrugge tutto. Oh, ecco i cari stranieri, che si gettano in questo sogno di morte, ciangottando come anitre nell’acqua triste d’uno stagno! Andiamocene.

Se ne andò. Sul cielo sempre più luminoso gli alberi del Palatino tremavano al vento; il campanile di Santa Francesca Romana s’intagliava nitido e scuro; l’arco di Costantino incorniciava il fresco quadro del viale che aveva uno sfondo di nuvole d’argento verdognolo.

Regina attraversò il viale e sedette sul gradino più alto della scalinata di San Gregorio: tutto davanti a lei, dal pino fremente di uccelli alla visione rosea di qualche lembo della città, tutto era luce, vita, gioia; dietro di lei, nel chiostro verde di musco umido, nel portico vigilato da sepolcri, nel giardino selvatico e abbandonato, tutto era silenzio e tristezza. Sempre il grande contrasto. Eppure ella entrò, vibrante di vita, in quel luogo di morte, e si lasciò condurre da un fraticello che pareva uno scheletro vestito d’una tonaca gialla. Visitò le cappelle, nel cui silenzio le belle immagini del Domenichino e del Reni si scolorivano come persone costrette a vivere nella solitudine; attraversò l’orticello selvatico, e guardò con profonda pietà il fraticello che camminava eppure era già morto alla vita.

Ella pensava alla sua bimba, alla piccola Caterina, alla quale voleva insegnare ad apprezzare, a godere, ad adorare la vita. Quanta gente morta vive nel mondo! — pensava. — Anch’io