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giavano, spandevano un odore fresco e piacevole. Bimbi, operai, qualche studentello, qualche donnina, curvi sotto la luce tremolante, affondavano il volto nella polpa rosea delle fette di cocomero.

Favorischino, signori! Che bella roba! Sangue vero. Vuole, signora?

Nell’angolo del viale, davanti al piccolo bazar addossato al muro, un venditore ambulante guardava con degnazione i banchi dei cocomeri e la gente che li attorniava; e i suoi occhi bianchi e la sua bocca storta avevano un sorriso di superiorità ironica, ma se vedeva qualcuno sfiorare e guardare le sue cassette, si volgeva premuroso e prendeva un’aria solenne.

— Vuole, signora?

E dalla tromba rossa del grammofono d’un suonatore ambulante, sgorgava una, musica strana, rauca, una risata metallica e rabbiosa, or lontana or vicina, che veniva da una profondità ignota ed esprimeva una falsa gioia, un grido di miseria, di dolore, di peccato, di pietà e di tristezza; voce beffarda, e implorante, incosciente e supremamente melanconica.

A Regina pareva la voce della folla là intorno sparsa; la voce della giovane cortigiana pallida, dai capelli rosseggianti sotto il gran cappello nero, seduta sola e pensosa davanti a un tavolino del Morteo; la voce della bimba che pareva un uccello palustre, della canzonettista affamata, della donnaccia che vendeva i cocomeri, del vecchio dalla camicia color rosa e dagli occhi lucenti, del signore con le labbra grosse e lo sguardo brutale, del grassone melanconico, della signora che sollevava l’abito