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III.
Quell’inverno fece assai freddo a Roma. Pioveva sempre; anche nelle giornate che sembravano splendide, ad un tratto il cielo si oscurava, soffiava il vento, cadeva una pioggia dirotta: magari durava poco, i marciapiedi si asciugavano subito, le nuvole si dissipavano, il cielo tornava sereno, quasi sorridente per uno scherzo fatto; ma la gente rientrava a casa con le vesti bagnate, i piedi umidi, il petto fremente di tosse e di cattivo umore.
— Il vostro famoso cielo romano mi pare un manicomio senza guardiani, — diceva Regina ad Antonio; — un manicomio dove le nuvole pazze fanno tutto quel che vogliono.
Quell’inverno fu uno dei più tristi della vita della giovane sposa. Ella amava Antonio, e il primo giorno che egli la dovette lasciar sola per tornare al Ministero, ella sentì un vuoto profondo, e le parve d’essere ormai attaccata a lui quanto la corteccia all’albero. Ma l’esistenza in casa Venutelli, il contatto colla suocera, la presenza del sor Gaspare, la camera da letto con le poltrone pesanti come un destino volgare, erano per lei insopportabili.
Roma poi era orribile, sotto la pioggia continua che aveva qualche cosa di crudele e di beffardo. La gente passava, livida in volto; le donne mostravano gli orli delle sottane infangati, il cielo stesso sembrava macchiato, e l’anima di Regina naufragava in tutto quell’umidore nebbioso e fangoso. Ella tornava a casa bagnata e disperata; e in casa c’era freddo, e non c’era fuoco, e c’era noia; e a tavola si stava così male, su quelle sedie alte e rotonde, davanti al volto sarcastico di Massimo, davanti al volto rosso del sor Gaspare, davanti all’enorme petto ansante della signora Anna; e a letto si stava peggio ancora, su quei materassi di ciottoli, nella notte fredda pervasa dal rombo dei tram tintinnanti e dal malinconico roteare delle carrozze.
Ah, era questa la vita di Roma? Ed era questa Roma? Questo il Corso famoso? Quella via stretta e fangosa, piena di cattivi odori, dove la gente pigiavasi e incalzavasi come stupido gregge, facendo ala alle carozze piene di donne vecchie e brutte?
E quello era San Pietro? Regina lo credeva più grande. Quello il Pincio? Ella lo credeva più bello. Quello il Colosseo? Ella lo credeva più imponente. Dove dunque erano le grandezze e le bellezze di Roma? Ella non vedeva niente, o almeno tutto le pareva vuoto, triste; e meravigliavasi solo delle sue impressioni, provando un piacere strano nel pensare che mentre tutti i provinciali venivano a Roma per stupirsi, ella vedeva le cose nel loro vero aspetto. Qualche volta ostentava, esagerandola, questa sua superiorità sdegnosa: ma esaminandosi bene s’accorgeva che le sue impressioni erano foderate di rancore personale, e se ne rattristava. Che cosa voleva? Che cosa pretendeva? Sentiva d’esser malata d’una ferita profonda. Invano pensava che l’inverno sarebbe passato; che presto avrebbe lasciato la casa antipatica ove le pareva di gelare e soffocare. La sua casa gentile non l’avrebbe ritrovata mai più!
E un giorno, dopo aver visitato in fretta monumenti e musei, promettendo di ritornarvi, come promettono tutte le persone che si stabiliscono a Roma e poi lasciano passare gli anni senza compiere la promessa, Regina e Antonio cominciarono la visita, ben più interessante, degli appartamenti d’affittare. Fra lo stipendio dell’uno e la rendita dell’altra, essi contavano su tremila lire nette. Dalla principessa, che aveva intorno a sè altre persone di fiducia, e si serviva di Antonio solo per qualche affare di rendita o per qualche pendenza col Ministero del Tesoro, egli riceveva un modesto compenso: quindi i due giovani sposi non potevano permettersi che un appartamentino da cinquanta o sessanta lire al mese.
Cominciarono a visitarne uno in via Massimo d’Azeglio, che doveva restar libero in gennaio. Regina entrò con diffidenza nell’atrio signorile, guardò con rancore la grande scala di marmo, e cominciò a contare i gradini della seconda scala, perfettamente buia in fondo, ma sempre più illuminata a misura che si saliva.
— Undici, ventidue, trentatrè, quarantaquattro, cinquantacinque, sessantatrè... Non ancora?
Si fermò: il cuore le batteva violentemente.
Antonio sorrise con indulgenza. Prese la sua piccinina sotto il braccio e l’aiutò a salire. Più s’andava su e più i gradini erano alti.
— Ottantotto, novantanove. Dio mio, ancora?
— Coraggio!
— Centodieci!
Erano giunti, per grazia di Dio; ma ancora prima che la porta venisse aperta, Regina, palpitante e ansante, diceva amaramente fra sè:
— Qui deve venire ad abitar Regina? Mai! mai!
L’appartamentino era grazioso e signorile: un vero nido nel cuore di quell’immensa foresta di pietra che si chiama città. Due finestre guardavano su un giardino: le altre sopra un cortile sporco. Regina disse subito che c’era poca luce, poca aria, e infine che l’appartamento non le piaceva.
— Poca luce! poca aria! — disse Antonio con meraviglia. — Ma se ce n’è di troppo! Vedi, c’è un giardino sotto. Eppoi io non sono molto distante dal Ministero, e siamo nel centro della città...
— No. Io voglio le finestre sulla via.
— Cercheremo le finestre sulla via! Ma vedrai, per quello che possiamo spendere noi, non troveremo un alloggio più conveniente di questo.
— Oh, — ella disse, incredula.
Ma dovette ben presto ricredersi.
Per quindici giorni fu un triste pellegrinaggio. Sul principio, girando per l’Esquilino, il Quirinale, Villa Ludovisi, Regina canterellava con un sorriso ambiguo, un po’ amaro, un po’ beffardo:
Senza tetto e senza cuna...
Ma poi si fece cupa, si stancò, si trascinò con aria disperata.
E andarono, ella e il suo compagno di sventura, in un’agenzia che pareva un trabocchetto, e presero venti indirizzi, e risalirono il Corso, esplorando tutte le via adiacenti, come si risale il corso di un fiume alla ricerca d’un paese ignoto o d’una sorgente introvabile. Antonio si sarebbe rassegnato anche ad abitar lontano dal Ministero, pur di contentare Regina; ma Regina non poteva contentarsi.
Tutti gli appartamenti veduti erano o troppo grandi e carissimi, o bui, o sotto i tetti o così stretti e freddi che stringevano e gelavano il cuore al solo visitarli. Fra gli altri Regina vide un mezzanino di quattro vaste stanze, perfettamente buie, abitato da una infinità di signorine elegantemente vestite. Pareva un sepolcro di viventi; ed ella scappò via atterrita alla sola idea di dover abitare là dentro. Era orribile! E questa era Roma? Eran queste le case che Roma offriva a coloro che l’avevano lungamente sognata? Buche di viventi, tane oscure, antri da schiavi: mille volte preferibili gli ultimi tugurî dei paeselli sul Po, pieni di luce e di libertà.
E poi pioveva sempre, e Regina, non abituata a camminare, si stancava sempre più, vagando alla ricerca d’un nido su cui posare le ali ferite. In pochi giorni si fece magra e pallida; diventò irascibile e brutta. Qualche volta guardava Antonio con pietà beffarda. Le sembrava che non vi fosse cosa più commiserevole e ridicola d’un bel giovine elegante che «si rimorchiava» dietro una piccola moglie brutta, alla ricerca d’un alloggio da cinquanta lire mensili.
Che triste cosa la civiltà! Eppure Regina guardava con invidia i passanti, e pensava febbrilmente:
— Essi hanno una casa, sia pure un buco, e sanno dove tornare, e non si trascinano per le vie come noi, in cerca d’un rifugio! Noi siamo dei cani randagi, che non troveremo mai un buco dove morire.
Guardava con invidia selvaggia i villini inaccessibili, e un pensiero la colpiva:
— Anch’io avevo una casa! Una casa piena di luce e di poesia. Ed io l’ho chiusa con le mie stesse mani, e non la riavrò mai più!
A questo pensiero lagrime cocenti le velavano gli occhi. Antonio, che se la trascinava a fianco, silenziosa e stanca, la guardava anch’egli con pietà; indovinava in parte lo scontento di lei, ma qualche volta cominciava anch’egli ad irritarsi.
Infine, perchè ella rifiutava di andar ad abitare l’appartamento di via d’Azeglio? Che cosa voleva di più e di meglio? Tornarono a casa stanchi entrambi ed irritati: nel gran letto freddo Regina si rannicchiava lontana da Antonio, ed egli talvolta udiva un pianto soffocato, che invece di intenerirlo finiva di irritarlo. Che aveva ella, ma che aveva infine? Che aveva, che aveva? Non era possibile che ella, così seria, piangesse perchè non trovava subito un appartamentino di suo gusto.
— No, — egli le diceva talvolta, — tu non mi ami più; ti sei pentita di avermi sposato, e piangi per questo. Come mi rendi infelice, Regina!
Regina, lontana da lui nel gran letto freddo, provava una disperata impressione d’abbandono; le pareva d’essersi smarrita in una vasta pianura gelata; il soffio stridente dei tram riproduceva, attraverso il crocchiar della pioggia, l’urlìo del vento umido; tutto intorno era nebbia, e solo, lontano, lontano, lontano, rosseggiava un focolare acceso, e appariva e spariva, nello sfondo vaporoso, una linea d’acqua, una siepe di bosco nudo...
— Perchè ho lasciato la mia casa? — si domandava con stupore. — Mi sono lasciata divellere come un pioppo, ed ecco che, come l’asse del pioppo, mi hanno portato a far parte di questa odiosa costruzione che è la grande città. Mi corroderò anch’io, mi tarlerò, cadrò...
Poi si domandava se davvero non amava più Antonio. In certi momenti le pareva di sì, in certi momenti s’inteneriva pensando a lui.
— Io lo rendo infelice. Egli mi aveva detto che mi aspettava a Roma una famiglia, una vita borghese e modesta. Che pretendo io? D’altronde? Si muore. Rassegniamoci al nostro destino. Tutte le ore arrivano, e l’ora della morte è la più certa di tutte. Morire! Non sentire più la nostalgia; non veder più mia suocera, Arduina, il sor Gaspare, la serva, non errare più sotto la pioggia in cerca d’un appartamento!
— No, — si proponeva poi, — non voglio più addolorare Antonio. È forse colpa sua se tutte le miserie della civiltà si frappongono fra me e lui? Egli non lo sapeva; e neppur io lo sapevo! Ma morremo. Rassegniamoci, ed andiamo ad abitare in via d’Azeglio. I giorni vi passeranno, come passano da per tutto.
Si addormentava soddisfatta dei suoi propositi filosofici; e sognava immancabilmente la casa lontana, il bosco, il focolare acceso, i vetri irradiati da un crepuscolo cinereo, il gattino fermo davanti a quei vetri in contemplazione d’un fusto di pioppo.
Il giorno dopo ella rivedeva la luce nella camera odiosa dei Venutelli, si ritrovava sotto l’incubo di quel soffitto, doveva levarsi, uscire, bagnarsi, soffrire il freddo e la compagnia della signora Anna.
Rassegnarsi! Ciò era possibile in teoria: in pratica i nervi si ribellavano fieramente contro la realtà.
Dopo un mese di vane ricerche, finalmente, più per stanchezza che per buona volontà. Regina acconsentì a prender per un anno l’appartamento di via d’Azeglio, sempre disponibile. Ma il giorno stesso che fecero il contratto, ella si pentì, diventò insoffribile.
— Valeva la pena di lasciare il mio paese per venire a Roma ad abitare in un buco! Io soffocherò, io morrò! — disse ad Antonio.
Egli scattò, alla fine.
— Ma che cosa vuoi; si potrebbe saperlo? — le domandò con rabbia. — Ma ti sei immaginata di sposare un principe? Tu sapevi che cosa io potevo offrirti; e cento volte mi hai ripetuto che non avevi l’anima corrotta da vane ambizioni, che eri forte, che non eri egoista, che non chiedevi alla vita nulla di impossibile. Perchè non ti guardi indietro, invece di guardare davanti? Non dici tu d’essere un po’ socialista? Perchè non paragoni il tuo stato a quello di milioni e milioni d’altre donne?
Ella piangeva, con la fronte appoggiata sui vetri bagnati dalla pioggia: le pareva che il cielo piangesse con lei. Sentiva che Antonio aveva ragione, sebbene egli prendesse la cosa dal solo lato materiale, e non riuscisse a capire l’intima ragione del malcontento di lei. Tuttavia rise fra le lagrime, ironica e fiera.
— E finiscila! — disse. — Parli così male!
— Parlo male, ma opero bene, — egli rispose, raddolcendosi. — Sono stanco di vederti così malcontenta. Che cosa vuoi che io faccia, che io ti dia, oltre quello che ho, oltre quello che posso, cioè tutto il mio lavoro, il mio amore, una posizione decorosa, un domani senza pensieri?
— Egli non può capire! — ella pensò con pietà. — Soffrirò, ma nessuno deve accorgersene, e tanto meno lui. Sarò sola. Non ho bisogno di nessuno, io. Sono forte, io. Possibile, Regina, che tu lasci intravedere i tuoi sentimenti a tutta questa piccola gente? E le parve di scuotere le ali come un uccellino caduto per un momento nell’acqua.
Antonio le si avvicinò, e fecero subito pace.
— Del resto, — egli disse, lisciandole i capelli, — il contratto è per un anno. In un anno sai quante cose avvengono. Io farò il concorso, passerò segretario; poi avremo l’indennità di residenza, poi io cercherò di lavorare qualche ora in più per conto mio: forse madame affiderà a me tutti i suoi affari, la nostra posizione migliorerà: prenderemo un appartamento più grande, con meno scale... Tu ti abituerai... Un giorno riderai di aver pianto per così poco. Lavati, ora. Come sei brutta con gli occhi rossi!
— Brutta o bella son sempre io! — ella disse, immergendo il viso nell’acqua fredda. Poi si stropicciò bene il viso con l’asciugatoio, si incipriò, si mise la cravatta, e acconsentì a salire da Arduina.
Trovarono la porta aperta, e dal vestibolo udirono Arduina che parlava ad alta voce nel salotto.
— Chi c’è? — domandò Regina.
Non c’era nessuno.
— Ma cosa fai? parli da sola? — chiese Antonio.
La scrittrice arrossì, rise, strillò, poi confessò che preparava un discorsetto da rivolgere a Sua Eccellenza il ministro della Pubblica Istruzione, al quale voleva presentarsi per chiedere un sussidio per il suo giornale.
— Lo sa tuo marito? No? Allora gli chiederò cosa ne pensa, — disse Antonio.
— Oh, Dio, per pietà, no! — ella gridò. — Ma non ti vergogni d’andare a chiedere dei denari? — chiese Regina meravigliata.
— Perchè? Lo fauno tutti. Non è per me che li chiedo: è per il giornale che è terribilmente passivo. Ho chiesto anche un sussidio e una udienza alla Regina... Anzi domani devo andare da mio zio il senatore per sapere qualche cosa.
— Io morrei prima di chieder nulla a nessuno, — disse Regina.
— Oh, perchè? — disse l’altra, meravigliata. — Che male c’è? Se anche tu fossi una letterata e avessi un giornale, un’idea da sostenere e far trionfare...
— Finiscila, sciocca! — proruppe Antonio.
— E sta zitto! E tu non li chiedi, i sussidî? E se occorre tu non profitti di quanto può esserti utile? Perchè spalanchi gli occhi. Regina? Ti abituerai...
«Ti abituerai». E due! Regina sentì un’onda di parole sdegnose salirle alle labbra; ma tacque, pensando che non doveva degnarsi neppure di rispondere. Si avvicinò ai vetri e vide la donnina nera coi sette limoni, sotto l’arco della porta chiusa, ma non provò più l’impressione di melanconia che quel quadretto le destava nei primi giorni del suo arrivo a Roma. Si era abituata a vederlo.
— La principessa mi domanda sempre di te, — disse Arduina. — Verrai venerdì da lei? Ora che avete trovato l’appartamento e che vi siete messi a posto, puoi cominciare a restituire le visite ed a fare delle conoscenze.
— Cosa me ne faccio delle conoscenze?
— Cosa te ne fai? — domandò Antonio un po’ bruscamente. — Non far l’originale. — Avrò forse un salotto per riceverle? — rispose Regina con quella sua voce fredda, che gelava il cuore del marito.
Egli tacque, colpito. Arduina non comprese.
— Il tuo salottino sarà piccolo: vuol dire che farai poche conoscenze. Ma dalla principessa, sì, verrai: è anche nell’interesse di tuo marito.
— No. Non so cosa farmene delle tue principesse, — disse Regina; ma poi si pentì, ricordò il voto fatto pochi momenti prima, rise, scherzò, mise sottosopra tutto il salottino, e promise ad Arduina di accompagnarla l’indomani da suo zio senatore.
— Gli dirò che sono una poetessa, e lo pregherò di procurarmi un’udienza dalla Regina.
— Cara! — disse Arduina in estasi. — Sì! sì! Andremo assieme.
Ma Regina fece un gesto da monello, agitando la mano a ventaglio, col pollice sulla punta del naso; e l’altra rise, ma si convinse che sua cognata, era mezzo matta.
Il giorno dopo andarono dal famoso zio senatore che era poi un cugino in secondo grado della madre di Arduina. La scrittrice s’era abbigliata con cura: abito di seta nera, che le faceva molte pieghe sulle spalle ed anche sul davanti; cappello di paglia gialla guarnito di papaveri, e un boa di piume così sottile e pelato che faceva voltar la gente a guardarlo. Accanto a lei Regina, anch’essa vestita di nero, con l’immancabile cravatta, sembrava quasi bella.
Lo zio senatore abitava in via Sistina, ad un quarto piano. Ciò confortò molto Regina. Se un senatore abitava un quarto piano, ella poteva abituarsi a vivere in un quinto.
E si confortò ancora di più quando vide l’appartamento quasi buio del senatore, arredato con una semplicità che rasentava, più che la modestia, la miseria. Solo alcune piante d’un verde cupo e lucido, le cui grandi foglie pareva brillassero tenuamente di luce propria nella penombra cenerognola, adornavano l’anticamera e i due salotti melanconici che una vecchia cameriera fece attraversare alle visitatrici.
Dallo sfondo giallognolo di un ritratto ad olio un vecchio scarno e rosso, con gli occhi azzurri sporgenti, e bellissimi capelli bianchi simili ad una parrucca, sorrideva un po’ sarcastico. Un grande specchio screpolato rifletteva il ritratto, e il salotto triste e buio pareva animato dalle due figure, — immobili sullo sfondo giallognolo del quadro e dello specchio, — che si guardavano e si sorridevano, sarcastiche, quasi comunicandosi un pensiero un po’ beffardo, un po’ melanconico.
Regina si guardò nello specchio, e le parve che le due figure si fissassero, beffandosi un po’ di lei: poi si volse perchè vide avanzarsi silenziosamente dallo sfondo giallognolo dello specchio una terza figura simile alle altre due. Era il senatore.
— Oh, brava! — egli disse con voce fresca, rivolgendosi ad Arduina e guardando Regina.
— Le presento mia cognata, — disse Arduina, — sposa da un mese.
— Come è stupida! — pensò Regina; ma anche lei non seppe dir nulla quando il vecchio le parlò. Arduina espose subito il perchè della sua visita. Oh, brava, brava; ma lo zio si era perfettamente scordato «dell’affare». Non lo disse, veramente, ma Regina lo capì benissimo.
— Oh, brava, brava! Voi avete un giornale, è vero? Feminista?
— Ma no; però... un feminismo bene inteso.
— Certo, feminismo bene inteso. Insegnare alle donne a lavorare. Abituarle all’idea del lavoro, del guadagno, dell’indipendenza... Quando io vado all’estero, e specialmente in Inghilterra, resto vivamente colpito dalla «fisionomia morale» delle donne, così diverse dalle nostre... da voi...
— Ma io lavoro! — protestò Arduina.
— Ma il tuo lavoro non è abbastanza proficuo se hai bisogno dei sussidî del Governo! — disse vivamente Regina.
— Oh, brava, brava! E lei scrive?
— Oh, io non ho fatto mai niente!
Il senatore la guardò coi suoi occhi beffardi e malinconici: ella arrossì, ricordandosi che non aveva mai lavorato in vita sua.
— Io ho ancora bisogno dei sussidî perchè in Italia il lavoro non è rimunerato. Ma in avvenire... Ma le generazioni che noi educheremo, ma ecc. ecc.
Arduina fece un lungo discorso sulle generazioni future, e ritornò al punto di partenza: il sussidio.
— Benedetta figliuola, avremo il sussidio, — disse il senatore, che guardava sempre Regina.
— E l’udienza?
— E l’udienza! — egli promise. In quel momento egli sorrise come sorrideva nel ritratto e nello specchio, e Regina s’accorse che egli compassionava la povera scrittrice italiana e pensava alla «fisionomia morale» delle donne inglesi lavoratrici.
— Ma perchè l’udienza? — domandò Regina, ardita, imitando il sorriso del senatore. — Sta bene il sussidio... fino a un certo punto, ma l’udienza?
— È un aiuto morale. A parte i miei principî...
— Sì, sì; un aiuto morale! — affermò il senatore; e sorrideva sempre.
Regina sentì un impeto di ribellione. Perchè quell’uomo che all’estero trovava la «fisionomia morale» delle donne così diversa dalla fisionomia morale delle donne italiane incapaci e schiave, non faceva capire alla povera Arduina la falsità del suo metodo?
— Ma, — ella disse, quasi adirandosi, — se si va a base di aiuti, morali o materiali, è meglio... non muoversi! Siamo sempre delle sfruttatrici. E tanto vale sfruttare o il padre, o il marito, o un amante, o il Governo, o la Casa Reale...
— Ma tu non capisci, — disse Arduina, che non aveva compreso l’idea di Regina.
— Tu parli così perchè non hai bisogno.
— Lei è lombarda? — domandò il senatore, che teneva le mani intrecciate sul petto, divertendosi a far girare i due pollici uno intorno all’altro.
— Sono un’italiana incapace e inutile, — ella rispose con disprezzo verso sè stessa.
— È giovine però. Perchè non scrive?
— Perchè scrivere? — ella disse, fissandolo beffarda. — Per chiedere sussidî ed udienze? Il vecchio si alzò, premendosi il petto con le mani; e senza smettere di giocarellare coi pollici, fece un passo verso la giovine signora.
— Che impressione le fa Roma?
— Brutta. Mi annoio: la vita borghese è così meschina e triste! E poi piove sempre! — disse Regina; e rise.
— Perchè mi guarda così? — pensò. — Trova forse che ho la «fisionomia morale» delle donne inglesi?
Il vecchio le si fermò davanti, dando le spalle ad Arduina, della quale pareva aver dimenticato la presenza.
— La vita borghese è meschina perchè è vuota, — egli disse. — Le nostre donne sono piene di inutili aspirazioni e, come dice lei, sfruttano l’uomo che si rimpicciolisce lavorando troppo per la famiglia. Nella società dove la donna lavora, l’uomo ha un margine libero per coltivare la propria genialità. In Inghilterra...
— Ma cosa, fare? — ripetè Regina. — Se non ci hanno abituato a lavorare!
Il senatore parve non udirla. Fece un quadro della società inglese, dove il borghese, l’impiegato ed anche l’operaio si tengono al corrente della letteratura, dell’arte, della politica, e discutono di tutto; e le donne non si annoiano perchè lavorano e guadagnano.
— Centinaia di scrittrici, di traduttrici, di corrispondenti di giornali, guadagnano oltre le diecimila lire all’anno: alcune arrivano molto più in là. Mrs. Humphry Ward... sa lei quanto guadagna per ogni suo libro?
Regina, non sapeva ancora, quanto guadagnasse Mrs. Humphry Ward. — Oltre le sette e le otto mila sterline.
Arduina fece subito il conto.
— Oltre le duecentomila lire? — disse con aria spaventata. — Oh, Dio mio, io non vorrei guadagnar tanto.
— Perchè?
— Perchè diventerei matta!
— In Italia... — cominciò Regina.
— Anche in Italia la donna può guadagnare benissimo. Lavorare, lavorare: ecco il segreto.
Regina uscì dalla casa melanconica e buia del vecchio senatore con un nuovo raggio di luce nell’anima.
Lavorare, lavorare! Sì, anch’ella voleva lavorare; voleva scrivere, poichè non era buona ad altro, voleva guadagnare. E anzitutto voleva vivere.
— Uscirò dalla cerchia che mi stringe; guarderò la vita in viso. Voglio smarrirmi nelle grandi vie di Roma, sentire l’anima della folla, descrivere la vita dei poveri, o di coloro che si annoiano, o di quelli che sembrano felici e non lo sono: la vita come è.
Rientrando a casa le parve di guardarsi attorno con occhi pietosi. Sì, ecco, la suocera e la serva, Arduina e i cognati, l’ambiente e le anime, tutto le destava pietà. E questa pietà le dava un benessere profondo, un calore morbido e dolce.
Sapendo sua moglie fuori, Antonio non era rientrato. Regina rimase sola in camera, sedette vicino alla finestra chiusa e prese un libro. Veniva la sera. Poco a poco ella sentì svanire il calore che la passeggiata le aveva infuso, e vide la luce mancare. Dei grandi veli impalpabili cadevano uno dopo l’altro, lentamente, intorno a lei. Ella chiuse il libro insignificante che teneva in mano e guardò il cielo. Ma la linea di cielo, al di sopra della melanconica facciata di fronte, era così cinerea e greve, che le diede l’impressione d’una lastra di stagno: solo una piccola nuvola rossa, una bragia fuggente, illuminava la cenere di quel cielo morto.
Improvvisamente Regina sentì un gran vuoto, un gran freddo entro di sè. Quella piccola nuvola le ricordava il fuoco del lontano perduto focolare. E col fuoco tutte le altre cose lontane e perdute. Tutte le altre cose semplici e tacite, eppure più grandi e più luminose di ogni gloria e d’ogni ricchezza. Pensò:
— Lavorare, guadagnare! Quando anche fosse possibile, ciò non potrebbe ridonarmi la mia casa, il mio passato, il mio ambiente. Val di più una piccola cosa vera, perduta, che il più grande degli ideali.
— Che cosa è l’ideale? — pensò poi, sempre seguendo il lento cammino della nuvola.
E imitò il sorriso del vecchio senatore, ricordando che anche lei aveva creduto di avere tanti ideali.