XIII

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XII XIV
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XIII.

Intanto la contessa Vimercati tenne parola.

Una di quelle mattine un domestico in livrea portò a zia Caterina l’ordine di recarsi, nello stesso giorno, fra il tocco e le due, presso la sua benefattrice.

La povera donnetta vi andò e ne sentì di tutti i colori sul conto della sua Gilda; la Contessa non si tratteneva di chiamarla una sfrontata, una intrigante, che si era introdotta una seconda volta in casa del Banchiere per allontanarlo dalla moglie — la quale poverina era infelicissima e passava la sua vita in lagrime, causa quella pettegola. Ma non bastava: col pretesto che lui era malato, e che lei lo assisteva, si era piantata nella sua camera e non ne usciva più, tanto che la povera moglie non osava nemmeno entrarci. In fine un soggetto di scandalo per tutta la casa.

La Caterina, che non aveva più sentito nulla di [p. 217 modifica] sua nipote da quella sera memorabile in cui la signora Edvige le aveva mandato il figliuolo del portinajo, per avvisarla che la giovane era tornata al suo posto d’istitutrice, non faceva che ripetere questo fatto, l’unico di cui fosse in possesso. Ma la Contessa non voleva credere. Chi sa cosa avevano complottato fra la sua nipote e il ragazzo del portinaio? In ogni modo, comunque ci fosse entrata, ora bisognava che ne uscisse, e se non usciva di spontanea volontà avrebbero trovato il modo di farla uscire per forza.

— Ma come devo fare io? Che ci posso fare io? — ripeteva la vecchietta piangendo come una Maddalena. — Se il Banchiere se la vuol tenere, come devo fare io, a portargliela via? devo fare uno scandalo?

— Oh, no! Guai fare scandali — sentenziò la Contessa. — Tu devi indurla ad andarsene tranquillamente da sè. E per questo basterà forse che tu riferisca le mie parole.

Improvvisamente la Contessa si sovvenne che Gilda aveva un padre:

— Ma suo padre, quel malarnese di tuo fratello che fa?

— Adesso è buono lui, — rispose la Caterina, che non aveva voglia di sentirsi umiliata anche da quella parte — si è impiegato presso l’attrezzista del Teatro Milanese.

La Contessa si mise a riflettere, e dopo un certo tempo di silenzio così riprese:

— Senti Caterina, mi viene un’idea: tua nipote potrebbe vedere di entrare in quel Teatro. Tanto voglia di lavorare mi hai sempre detto che ne aveva poca; quanto a trovarle un posto in una [p. 218 modifica]famiglia, dopo quello che è successo, non è il caso di pensarci; poi è troppo bella, avrei dovuto figurarmelo prima che mi faceva dei pasticci! In. fine, anche per la carriera di maestra elementare, ormai dei buoni posti è difficile che ne possa avere. Il teatro mi pare la sua strada. L una buona ispirazione che mi è venuta, e un buon consiglio che ti do: perchè io già non ti voglio male, lo sai; ti ho sempre protetta, Caterina, lo sai... Non piangere più, via ti prego!...

La contessa Vimercati, con tutti i suoi piccoli pregiudizi e la mente ristretta, non era realmente una cattiva donna: si era dedicata alla beneficenza non per farsene un vanto nè per altri motivi, ma per vero istinto pietoso. Era un po’ collerica e si lasciava trasportare dal primo impeto ma quando vedeva piangere non poteva resistere e se capiva di avere dato un dispiacere a qualche povera creatura, si sarebbe spogliata per consolarla. Così ora, davanti alle lagrime di quella povera vecchietta che aveva cominciato dall’assalire con tanta furia, si sentiva commossa ed era pentita della propria durezza.

— Ascoltami, Caterina, fatti animo — ripigliò. Non voglio mica abbandonarti; non ho niente contro di te, e nemmeno contro di lei, povera ragazza: si sa, eh, cosa è l’amore a quell’età! Ma io sono impegnata a farla uscire da quella casa perchè sono stata io che l’ho fatta entrare la prima volta: del resto se lei trova di suo genio di mettersi sul teatro, l’ajuteremo tutti: la farò raccomandare anch’io al capocomico, al famoso Villa del Ferro: mio marito è sempre amico dei marchese Villanti, e sarà facile influenzarlo. Sa [p. 219 modifica]poi non vuole, si vedrà di trovarle qualche altra occupazione. Intanto tu va da lei, consigliala con le buone a venire via di là, e dille quello che ti ho detto io: ma non le parole cattive, soltanto le buone, sai bene che sono furiosa. E ora addio, neh, la mia donnetta! Torna a dirmi qualche cosa, neh?

La Caterina si asciugò gli occhi, baciò la mano della Contessa, la ringraziò per la sua bontà e usci dal palazzo un po’ consolata nella sua tristezza. Giacchè era in istrada andò direttamente a casa Pianosi.

La Sabina la fece subito entrare nella camera che era di Gilda e andò a chiamare la giovine.


Quando la Sabina entrò, Giovanni si era levato da poco e stava seduto sull’ottomana fuori dell’alcova, davanti a un tavolino, dove Gilda gli aveva preparata la colazione.

Egli si lasciava servire da lei perchè capiva che quello era il solo mezzo per tenersela ancora un poco vicina. Una profonda tristezza rendeva inutile per lui il naturale piacere della convalescenza. Avrebbe voluto essere ancora a letta con la febbre, in pericolo di morte, purchè Gilda fosse sempre vicino a lui. Non avevano ancora parlato dell’avvenire, non se n’erano sentiti capaci nè lui nè lei; ma quando si guardavano negli occhi intendevano bene che l’ora della separazione stava per suonare.

Le voci nemiche avevano avuto un’eco fin là dentro, in quell’asilo: la Sabina, che, per la influenza e i consigli del dottor Rambaldi era tornata buona e affettuosa verso la fanciulla, l’aveva [p. 220 modifica]informata di tutti i discorsi che si facevano. Poi, quella stessa settimana Giovanni aveva ricevuto una lettera dell’onorevole Adriani, nella quale gli diceva scherzando che andava a nascondersi nel suo romitaggio per salvarsi dall’afa e dai pettegolezzi ammorbanti la capitale morale, e lo esortava a fare altrettanto, appena le sue forze glielo avessero concesso.

Nel medesimo tempo, appena il dottor Rambaldi aveva dichiarato ch’egli poteva ascoltare un breve discorso di affari, senza pericolo, il commendatore Bardaniti e l’ingegnere Santini gli avevano fatto una piccola visita per informarlo della sorveglianza di cui si erano incaricati d’accordo con la signora, mentre aspettavano e affrettavano coi loro voti il momento propizio per rendergli un conto minuzioso del loro operato, e dello stato degli affari.

Così, appena riaperti gli occhi alla dolce vita, alla salute, all’amore, la società si era affrettata a mandargli i suoi rappresentanti nojosi e tristi: gli interessi, i pettegolezzi, le cure fastidiose, per rammentargli che era suo, tutto suo, che la morte soltanto poteva liberarlo dalla potestà di lei.

La Sabina disse due parole a Gilda, poi uscì chetamente. Ma Giovanni capi che le aveva annunziata una visita, e vedendo che la fanciulla si allontanava senza dirgli nulla, come se fosse andata a prendere, qualche cosa, egli si levò in piedi per trattenerla, con un brusco movimento che fece traballare il tavolino producendo un rumore di stoviglie.

Gilda si voltò subito e vide ch’egli stendeva le braccia verso di lei, come un fanciullo disperato. [p. 221 modifica]

— Gilda! — egli disse: — non mi lasciare ancora!

Ella si buttò nelle sue braccia con gli occhi pieni di lagrime.

Rimasero così un momento, stringendosi convulsamente, in una frenesia di amore e di angoscia.

Finalmente Gilda andò da sua zia che l’aspettava ansiosamente. Il loro colloquio fu breve.

— Come sei dimagrata! come sei impallidita!

— non si saziava di ripetere la buona donnetta:

— povera la mia creatura, come ti hanno ridotta!

Gilda cercava di calmarla, incalzandola a dir su presto quello che aveva a dirle.

Quando le ebbe ripetuto, con qualche divagazione e diversi commenti, il dialogo che aveva avuto con la contessa Vimercati, Gilda restò un momento assorta nelle sue riflessioni, poi disse:

— Sta bene. Avevo già stabilito fra me di andarmene. Di’ al babbo di far parlare al signor Villa del Ferro, che poi mi presenterò da me. Il consiglio della Contessa è buono. Voglio avere una posizione indipendente.

Si erano già salutate, e zia Caterina stava per andarsene allorchè Gilda la richiamò.

— Senti, — disse — dopo tutte le chiacchiere che si saranno fatte nel vicinato, io non voglio ritornare nella tua casa. Qui hai trenta lire, fissami una camera ammobiliata, qui intorno al centro, e vieni a prendermi domani dopo mezzogiorno.

La povera vecchia non fece opposizione, sebbene l’idea che la sua cara Gilda dovesse andare [p. 222 modifica]a star sola, sulle camere ammobiliate, la sgomentasse un poco. Ma poi pensò che se doveva recitare, tant’è, doveva anche avere una certa indipendenza e stare vicino al teatro.

Si baciarono ancora nel separarsi, e Gilda fu molto più affettuosa di una volta.

Tanto che nell’andarsene Caterina Mauri pensava:

— È proprio cambiata, poverina! pallida come una santa di cera e buona, umile, come non me la sarei mai figurata.

Ritornando in camera, Gilda trovò il convalescente in piedi sulla soglia con una mano appoggiata allo stipite dell’uscio.

Il suo viso smunto e abbattuto dalla malattia aveva una espressione di patimento, che si dilatava nei lineamenti contratti, nelle carni flosce. I capelli e la barba, allungati oltre il costume aumentavano il suo pallore e gli davano un’aria strana di personaggio romantico.

Gilda notò per la prima volta la profonda trasformazione ch’egli aveva subita, e che l’affanno di quel momento rendeva più rimarchevole.

— Sei stato troppo in piedi — gli disse accostandoglisi con premura — hai fatto male!

E sostenendolo dolcemente lo condusse a sedere guardandolo con ansietà, accarezzandogli le mani fredde.

Quando fu seduto gli accomodò i guanciali dietro la schiena e gli fece appoggiare la testa.

Egli si lasciava fare, fissandola con uno sguardo intenso, indagatore e interrogativo.

Ella sentiva il peso di quello sguardo, e cercava di ritardare il momento in cui avrebbe dovuto rispondergli. [p. 223 modifica]

Giovanni se ne accorse e le disse con qualche nervosità:

— Ora sono ben accomodato, mi pare, e tu puoi finire di moverti. Siedi qui accanto a me... così... fatti più accosto e dammi la mano... Perchè non mi guardi?

Gilda alzò lentamente gli occhi e li fissò nei suoi. Rimasero un momento silenziosi, assorbiti in quello scambio muto di pensieri e di sentimenti...

Gli occhi di Gilda non avevano più il fulgore dell’anno passato; ma la loro espressione era diventata più intensa e profonda, e quando li fissava così in quelli di Giovanni prendevano qualche cosa della dolcezza languida che dà tanta attrattiva agli occhi celesti.

— Per quando hai stabilito?... — mormorò Giovanni con voce rotta.

— Per domani dopo mezzogiorno...

Egli ebbe un sussulto, lasciò cadere la mano che teneva nelle sue e si copri il viso.

— Come hai potuto?!... — andava ripetendo in mezzo ai singhiozzi: — come hai potuto?!...

Ella gli passò un braccio attorno il collo e accostò il viso al suo.

— Amore mio — disse sommessamente: — lo sai bene che è necessario. Presto tu andrai fuori, tornerai ai tuoi affari: come vuoi ch’io resti qui... con lei!....

— E se andasse via lei, invece? — esclamo Giovanni drizzandosi con un atto energico. Se io la cacciassi come si merita?... Non sarebbe più giusto e più logico?

Gilda crollò il capo. [p. 224 modifica]

— Tu dici di no?! Ah! ti capisco, hai ragione: non hai più fede nella mia energia. Pensi che sono un cuore debole, schiavo della società, incapace di renderti felice, di metterti al posto che ti spetta, e te ne vuoi andare!... È giusto, me lo sono meritato.

— Mi fai male a parlare così Giovanni: mi fai soffrire tanto di più e inutilmente. Io non ti abbandono, Giovanni: non posso più abbandonarti. Vado via di questa casa; ma... resto a Milano. Mi verrai a trovare... da qui a due settimane, tre al più, sarai perfettamente rimesso, l’ha detto il dottore; potrai uscire.

— Sarà una viltà da parte mia; e a poco a poco tu te ne persuaderai e cesserai di amarmi. Ma ti pare possibile? Tenermi in casa la donna che mi ha tradito, che non mi ha mai amato e lasciarti andare, te, angelo mio, te che hai tutto sacrificato al mio amore, che mi ami, come non avevo mai creduto che una donna potesse amare?! È tanto stupido e abbietto, che non si capisce. E io devo essere così stupido e così abbietto?...

— Senti, Giovanni — disse Gilda dopo un momento di silenzio; — io ho pensato molto in questi due mesi, mentre ti vegliavo; nelle lunghe ore della notte, mentre non potevo dormire, nelle lunghe ore del giorno, mentre sentivo il rumore della vita di fuori, e la Sabina e il Dottore mi raccontavano fatti, mi ripetevano discorsi e tu eri là oppresso dalla malattia, vinto dalle angosce che ti avevano lacerato, dai combattimenti interni che avevano consumato le tue forze. Ho pensato alla vita, su cui mi ero fatta delle idee assurde: ho pensato alle cose di questo mondo, così strane e [p. 225 modifica]complicate. E pensando ho capito che tu non puoi separarti da... tua moglie. Almeno non lo puoi adesso.

— .... Ah! perchè non l’ho fatto subito, quando ho saputo?... È questo il mio torto!

— .... Non disperarti, non essere crudele con te. Se non lo hai fatto, vuol dire che non potevi nemmeno allora. Ora perdi di vista le circostanze. Non era forse giusto che tu pensassi prima di tutto a salvare il tuo onore, la tua casa, il nome e l’avvenire di tua figlia, gl’interessi di quelli che ti avevano affidato il loro patrimonio o tutto o parte? Non è stata una bella azione?... La coscenza ti dice di sì. Non puoi nemmeno rimproverarti di non avere pensato a me. Ero andata via senza dirti nulla: potevi credere ch’io non volessi amarti. Ma anche se fossimo stati legati come adesso, potevi essere trascinato egualmente a fare quello che hai fatto, a contenerti come ti sei contenuto. Per fare altrimenti bisognava che tu non fossi un banchiere, a capo di tanti affari, di tanta responsabilità, con tanto bisogno di mantenere il tuo credito; bisognava che tu non fossi padre, o che Lea non fosse la figlia di quella donna; oppure bisognava che tu fossi stato innamorato pazzo di tua moglie e che la gelosia ti avesse tolto il lume degli occhi... In tal caso, invece di pensare seriamente a salvare le apparenze e l’onore e il credito della tua casa, ti saresti vendicato con furore... Ma io non sarei niente meno infelice di adesso, anzi...

E gli sorrideva dolcemente, sperando che le sarebbe riuscito di farlo sorridere e di distrarlo. [p. 226 modifica]

Egli sorrise difatti, ma in quella maniera speciale che giustamente si dice amara.

— Tu sei tanto buona, Gilda mia, — disse baciandola sulla fronte e sugli occhi, - tanto buona, che se non fossi già tutto preso d’amore per te, dovrei amarti soltanto per questa tua immensa bontà. Ma la mia posizione di faccia a te è appunto per questo molto umiliante. Senza contare la tristezza che mi entra nell’anima, l’affanno che mi piglia solo pensando che tu vuoi andartene domani e ch’io non ho il diritto di trattenerti e che invece di vivere felice con te, di amarti alla luce del sole, di chiamarti mia, di farti rispettare, dovrò contentarmi... oh! no, no! Non parlarmi di rassegnazione, non cercare di giustificarmi: se non mi libere adesso, se non riesco a mandarla via a fare questo divorzio e poi a sposarti, sono un miserabile vigliacco e non merito che tu mi ami!...

Dicendo questo egli era balzato in piedi con impeto, come se avesse riacquistate in un momento tutte le sue forze per quell’impulso di collera e di passione.

Le sue mani tremavano, il sangue gli era salito alla fronte. Camminava a grandi passi su e giù per la stanza urtando con impazienza i mobili, battendo coi pugni sulla scrivania.

Gilda, spaventata, cercava di ammansarlo.

— Amore mio! — gli diceva, — ti prego, non fare così, ti fai male, il medico ti ha raccomandato la calma. Se fai così ti può ritornare la febbre... puoi ricadere!

— È quello che desidero! Se non puoi stare con me altro che quando seno in pericolo di mo[p. 227 modifica]rire, tornerò in pericolo. E perchè non vi siano altri pentimenti, morirò.

Gilda scoppiò a piangere.

Allora egli si calmò subito e andò a mettersi ai suoi piedi avvilito e triste.

— Dovresti odiarmi! disse: non so far altro che tormentarti!

Posò la fronte sui suoi ginocchi e pianse con lei. Ma quell’abuso delle sue poche forze lo aveva sfibrato. Gilda s’accorse che stava per cadere, aiutò a rialzarsi con grande fatica. Egli tornò a sedere e abbandonò la testa sui guanciali.

Il penoso soggetto che li aveva tanto rattristati fa lasciato cadere. Tornarono all’amore schietto e giocondo che inebbria di sè medesimo e dimentica tutto quanto lo circonda, e ciò che fu e ciò che sarà.

Tornarono alle tenerezze delicate, quasi infantili alle paroline mormorate fra due baci, alle espansioni dolci dell’anima, che sono come fiori primaverili dell’amore, ed hanno di quei fiori il profumo acuto, indimenticabile.

Per lei, questo era il più alto punto dell’ebbrezza sognata; stargli stretta al fianco, con le braccia intrecciate, le due teste affondate nello stesso guanciale, i capelli confusi, gli occhi immersi negli occhi, le bocche avide, ridenti, bacianti...

Per lui...

L’affievolimento della malattia, che per poco non lo aveva ucciso; il carattere di tenerezza profonda che aveva preso il suo amore in quello stato di intimità casta, in cui avevano vissuto due mesi, lui infermo, lei suora di carità; infine, la fiera an[p. 228 modifica]goscia che lo riagguantava al primo riaffacciarsi alla vita esteriore; tutto contribuiva a mantenere i suoi sensi in uno stato di dormiveglia punto penoso, mentre il suo animo si esaltava in un misticismo pieno di mollezza e di sogni, affatto nuovo per lui, e appunto perciò tanto delizioso.

Ma lo scoppio delle passioni terrestri, il risveglio tumultuoso dei desiderii prepotenti, non era forse che troppo vicino.

— Che hai, Gilda? domandò Giovanni tornando serio improvvisamente; sei preoccupata, a che pensi? hai qualche altra brutta notizia da darmi, ne sono certo!

Gilda tacque.

Pensava alla sua risoluzione riguardo al teatro, e al modo di comunicargliela.

— Non mi lasciare in questa pena, amor mio: di’ tutto al tuo povero Giovanni: hai risoluto qualche altra cosa?... Le tue nobili protettrici, le dame della beneficenza, ti offrono un buon posto fuori di Milano?... Ne sono capaci. Sono tanto generose!

Gilda crollò il capo.

— No?... Mi fa meravigliai

— Non vogliono più saperne di me, disse Gilda con un sorriso, la contessa Vimercati ha fatto intendere a mia zia che non sarà più possibile collocarmi in nessuna famiglia...

— Molto saggia quella Contessa....

— .... e anche nelle scuole comunali, dice che non sarà facile trovarmi un posto...

— Allora ti fa qualche altra proposta!

— ... È soltanto un consiglio.

— Ma qualcosa c’è, via! Mi pareva bene. Sentiamo ora il consiglio. [p. 229 modifica]

— Dice che farei bene a mettermi a recitare... E io trovo che ha ragione.

— Ah?! Ah?!... E tu trovi che ha ragione? Non me l’aspettavo!...

Egli si sciolse dalle sue braccia e si rannicchiò tutto nel suo cantuccio.

— Perchè vai in collera, Giovanni? Che cosa c’è di male in questo? Bisogna bene che io mi guadagni da vivere, che mi faccia una posizione... quella di attrice mi pare la più libera, la più.... conciliabile...

Egli strinse i denti con un moto nervoso. Poi, voltandosi bruscamente verso di lei:

— Ma io cosa sono per te? — gridò. — Nulla?

La prese per le braccia e la scosse tutta come se avesse voluto spezzarla.

Ella rimase mortificata, senza poter parlare, senza difendersi.

Anche lui tacque, chetandosi improvvisamente, guardandola di sottecchi, confuso e preso da vergogna per essersi abbandonato ancora una volta a quei ciechi impeti di collera, lui che era stato sempre così calmo e padrone di sè prima di quel tempo.

Ma il medico aveva detto che il disordine nervoso sarebbe stato lento a passare, e che quegli scoppi erano gli ultimi attacchi del nemico, non interamente distrutto.

Quando lo vide più tranquillo, Gilda lo baciò in fronte e riprese il discorso oramai avviato, e che le premeva di condurre a termine. Disse che lei non aveva preveduto che gli dovesse dispiacere così. Si trattava del teatro Milanese, dove suo padre aveva trovato un impiego presso all’attrezzi[p. 230 modifica]sta. Se l’accettavano era una fortuna, poichè bisognava riconoscere che la Contessa diceva la verità, ella non poteva più entrare in una famiglia, e se loro due dovevano continuare a vedersi era meglio ch’ella rinunciasse addirittura a qualunque carriera nell’insegnamento. Ma non poteva rassegnarsi a vivere’ del tutto a suo carico; sarebbe stato un avvilimento troppo grande. Lui non poteva imporglielo... se le voleva veramente bene...

— .... Quando sarò divorziato, però ti potrò sposare! disse lui interrompendola nervosamente con questo suo ritornello.

— Sì, quando sarai divorziato. Ma per ora non puoi nemmeno pensarci, e io non mi voglio illudere. Tu sai quello che si direbbe; che hai sacrificato tua moglie, tua figlia a un capriccio. Se tu accusassi lei, si direbbe che è un pretesto. Lei ha passato questi due mesi sempre in casa, sempre occupata de’ tuoi interessi. È per lei che il Commendatore ha assunto di sorvegliare l’andamento de’ tuoi affari, di rappresentare la tua parte alla banca, per lei che l’ingegner Santini e divenuto il vice-direttore della fabbrica. E tutti parlano della sua abnegazione, della sua generosità. La Contessa dice che è una moglie modello, una moglie delle più affettuose, che tutto fa. tutto sopporta per riconquistare il tuo amore. Dunque nessuno ti crederebbe, nemmeno coloro che mesi addietro parlavano ad alta voce della sua relazione con Paolo Anselmi. E i tuoi amici più intimi, quelli che ti vogliono bene e ti sanno un uomo onesto in tutte le cose, ti biasimerebbero pure, direbbero che avresti dovuto mandarla via subito, appena scoperto il suo fallo. E questo è ancora [p. 231 modifica]niente: l’opinione pubblica si può disprezzare. Ma Lea? Che diresti tu a Lea, il giorno in cui noi due ci si sposerebbe? Che non amavi più sua madre e che l’hai mandata via per essere libero di unirti alla donna che amavi, a una donna molto più giovane?... La bimba ti troverebbe ingiusto e te lo direbbe, e tu perderesti gran parte dell’amore suo, della sua stima. Oppure, avresti il coraggio di dirle... tutta la verità?... Mi par molto difficile. Ma quand’anche tu avessi il triste coraggio di dirgliela: ti crederebbe? Difficilmente. Ma se ti credesse, non sarebbe peggio per lei.

Ella s’interruppe perchè le lagrime le facevano nodo alla gola. Quando si sentì forte, riprese a dire:

— Vedi, Giovanni, io ho pensato tanto in questi due mesi che mi par di essere vecchia. La mia bella gioventù spensierata è volata via a brandelli: la mia energia è spossata, lo che desideravo tanto di vivere, che avevo tanta smania i sapere, di conoscere, di provare la vita, sono spaventata soltanto per quel poco che ho visto e provato. La vita adesso mi pare piena di complicazioni inestricabili. Mi pare che non è possibile essere giusti da una parte senza commettere ingiustizia dall’altra; nè esser buoni, senza essere foderati di cattiveria; nè fare il bene senza che il contraccolpo vicino o lontano di questo bene sia il male; nè soddisfare a uno dei nostri più forti e nobili sentimenti senza crocifiggerne un altro egualmente nobile e forte.

— Non so di chi sia la colpa, — riprese dopo un momento di silenzio, — ma è così certo. Lo vedo in te. La tua posizione e un esempio dei più efficaci. [p. 232 modifica]Tu sei uno degli uomini più straziati da questo macchinismo. La vita ha fatto il suo cuore a pezzi. Ora tu cerchi di rimetterli insieme questi rottami, e non puoi. Non puoi essere egualmente giusto per Lea e per me, per te e... per la mamma di Lea. Questa meriterebbe di essere mandata via? sì, ne convengo; ma tu non puoi fare questo senza far male a Lea e a te. Per questo io ti dico: è più semplice che tu sacrifichi me... oh! non del tutto, mio amore! Io ti amo e ti amerò sempre: tutto il mio essere è improntato della tua immagine. Ero quasi una bambina, piena di pregiudizi e di fantasie; il tuo amore ha illuminato il mio cuore e il mio cervello nel medesimo tempo: ha dato una forma al mio carattere, una direzione alla mia intelligenza. Non credo che questo si possa mutare. Se mai, dovranno accadere dei cataclismi morali. E ora è inutile pensarci.

S’interruppe guardandolo amorosamente e gli diede un bacio; poi disse ancora:

— Io ti amo, tanto, tanto ti amo! E non voglio in nessun modo sciogliermi da questo amore, come tu temi. Ma voglio che la mia posizione sia delle più semplici, perchè le nostre complicazioni sociali mi fanno spavento. Per questo l’idea di mettermi a recitare, e precisamente nella compagnia milanese, mi pare felicissima e desidero di metterla in esecuzione. Sarò una povera attrice di poca conseguenza, in una compagnia di provincia, che recita in dialetto: un nulla nella società, e nel medesimo tempo qualche cosa di leggiero e di libero. Avrò pochi doveri e semplici, senza disaccordo fra loro: imparare la parte, dirla con grazia, cantare una canzonetta, vestirmi bene, [p. 233 modifica]badare che la paga basti alle spese — e... fare felice il mio amico del cuore... poichè un’attrice di poca conseguenza, può avere un amico del cuore — uno solo — senza disonorarsi punto, anzi, facendosi onore... La società è così bizzarra nei suoi giudizi!...

Ella si arrestò sorridendo.

A poco a poco aveva mutato accento. Di grave e profonda e vibrante di dolore, la sua voce si era raddolcita e fatta più limpida. Ora vi si sentiva trillare una leggiera nota di gajezza.

Giovanni, che l’aveva ascoltata palpitante, talvolta levato in alto fino all’apice della gioja, poi ripiombato nello spasimo dei rimpianti, nel tumulto dei combattenti, la guardava ora con gli occhi umidi di pianto e una quasi estatica ammirazione.

Non disse nulla. Apri le braccia perchè ella vi si gettasse, e la strinse convulsamente, anelante, al suo cuore.