Morgante maggiore/Canto nono

Canto nono

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Canto ottavo Canto decimo

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CANTO NONO.




ARGOMENTO.

     Lasciano Caradoro i venturieri
Francesi paladin, per gire altrove:
Vede Rinaldo, che tra più guerrieri
Verso lui Fieramonte il passo muove;
Di lancia a un colpo senza altri corrieri
Lo spedisce a Caronte a dar le nuove:
Entra in città, e d’Erminion la moglie
E i figli uccide in sulle regie soglie.


1 O felice alma d’ogni grazia piena,
     Fida colonna, e speme graziosa,
     Vergine sacra, umile, e Nazarena,
     Perchè tu se’ di Dio nel cielo sposa,
     Colla tua mano insino al fin mi mena,
     Che di mia fantasia truovi ogni chiosa,
     Sol per la tua sol benignità ch’è molta,
     Acciò che ’l mio cantar piaccia a chi ascolta.

2 Febo avea già nell’oceano il volto,
     E bagnava fra l’onde i suoi crin d’auro,
     E dal nostro emispero aveva tolto
     Ogni splendor, lasciando il suo bel lauro,1
     Dal qual fu già miseramente sciolto:
     Era nel tempo che più scalda il Tauro,2
     Quando il Danese e gli altri al padiglione
     Si ritrovàr del grande Erminione.

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3 Erminion fe far pel campo festa,
     Parvegli questo buon cominciamento;
     E Mattafolle avea drieto gran gesta3
     Di gente armata a suo contentamento,
     E ’ndosso aveva una sua sopravvesta,
     Dov’era un Macometto in puro argento:
     Pel campo a spasso con gran festa andava;
     Di sua prodezza ognun molto parlava.

4 E’ si doleva Mattafolle solo,
     Ch’Astolfo un tratto non venga a cadere,
     E minacciava in mezzo del suo stuolo,
     E porta una fenice per cimiere:
     Astolfo ne sare’ venuto a volo,
     Per cadere una volta a suo piacere;
     Ma Ricciardetto, che sapea l’omore,4
     Non vuol per nulla ch’egli sbuchi fore.

5 Carlo mugghiando per la mastra sala,5
     Com'un lion famelico arrabbiato
     Ne va con Ganellon, che batte ogni ala
     Per gran letizia, e spesso ha simulato,
     Dicendo: Ah lasso, la tua fama cala!
     Or fussi qui Rinaldo almen tornato;
     Chè se ci fussi il conte e Ulivieri,
     Io sarei fuor di mille stran pensieri.

6 E dicea forse il traditore il vero,
     Chè se vi fussi stato pur Rinaldo,
     Al qual non può mostrar bianco per nero,6
     Morto l’arebbe come vil ribaldo.7
     Carlo diceva: Io veggio il nostro impero,
     Ch’omai perduto ha il suo natural caldo,8
     Poi che non c’è colui ch’era il suo core,
     Cioè Orlando; ond’io n’ho gran dolore.

7 Lasciam costor chi in festa e chi in affanno;
     E ritorniamo a’ nostri battezzati,
     Che col re Carador dimora fanno,
     E de’ paesi ch’egli hanno lasciati,
     E delle guerre mosse lor non sanno;
     Eron più tempo lietamente stati
     Col re pagano, e pur volean partire,
     E cominciorno un giorno così a dire:

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8 Assai con teco abbiam fatto dimoro,
     Ed onorati da tua corte assai;
     La tua benedizion, re Caradoro,
     Dunque ci dona, e 'n pace rimarrai:
     Del tempo, che perduto abbiam, ristoro
     Sarà buon fare, e me’ tardi che mai;
     Qualche paese ancor cercar vogliamo,
     Prima che in Francia a Carlo ritorniamo.

9 Carador consentì la lor partita,
     E ringraziolli con giusti sermoni,
     Dicendo: Il regno mio sempre e la vita
     In tutto è vostro, degni alti baroni.
     Poi fe venir la donzella pulita,9
     E fece lor leggiadri e ricchi doni:
     Ma la fanciulla chiamò poi da canto
     Ulivier nostro, facendo gran pianto.

10 Dicendo: Lassa, io non ho meritato
     Che m’abbandoni, mio gentile amante;
     Dove lasci il cor mio sì sconsolato?
     Tu mi dicevi sempre esser costante,
     Or tu ti parti, ed io non so in qual lato
     Da te mi fugga, in ponente o in levante;
     E quel che sopra tutto m’è gran duolo,
     È del tuo sventurato e mio figliuolo.

11 Vedi che sola e gravida rimango,
     Sanza sperar più te riveder mai;
     Però del mio dolor con teco piango;
     Ma questa grazia mi concederai,
     Che poi che pur di duol la mente affrango,
     Con teco insieme me ne menerai:
     E in ogni parte ove tu andrai cercando,
     Ne vo’ con teco venir tapinando.

12 Ulivier confortava la donzella,
     E dice: Dama, e’ non passerà molto,
     Com’io son ricondotto in Francia bella,
     Ch’a te ritornerò con lieto volto:
     Però non ti chiamar sì tapinella,10
     Ch’io son legato, e mai non sarò sciolto;
     E ’l figliuol nostro, quando sarà nato,
     Per lo mio amor ti sia raccomandato.

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13 Con gran sospir lasciò Meridiana
     Ulivier certo in questa dipartenza,
     Con isperanza, al mio parer, pur vana.
     Re Carador con gran magnificenza,
     Con molta gente d’intorno pagana,
     Poi che più far non potè resistenza,
     Gli accompagnò con tutta sua famiglia
     Fuor della terra più di dieci miglia.

14 Pur finalmente toccò lor la mano,
     E quanto può di nuovo a lor s’è offerto;
     Via se ne vanno per paese strano,
     E come e’ furno entrati in un deserto,
     Subitamente quel lion silvano
     Da lor fu disparito, e questo è certo:
     E volse a tutti in un punto le spalle,
     E fuggì via per una scura valle.

15 Disse Rinaldo: Caro cugin mio,
     Vedi il lion com’è da noi sparito!
     Questo miracol ci dimostra Iddio,
     Non è sanza cagion così fuggito;
     Ma quel Signor, ch’è in ciel verace e pio,
     A qualche fine buon l’ha consentito.
     Rispose Orlando: Se ’l tuo dir ben noto,
     Molto se’ fatto, al mio parer, divoto.

16 Lascialo andar con la buona ventura,
     Chè ’l suo partir più che ’l venir m’è caro,
     Chè molte volte m’ha fatto paura.
     Così molte giornate cavalcaro,
     Tanto ch’al fin d’una lunga pianura
     Un giorno in Danismarca capitaro;
     Questo paese Erminion tenia,
     Ch’a Montalbano è con sua compagnia.

17 Poi ch’egli ebbon salito sopra un monte,
     Si riscontrorno in Saracini armati;
     E poi che furno più presso da fronte,
     Furon da questi baroni avvisati,
     Che il lor signor si chiama Fieramonte,
     E quattromila avea seco menati,
     Uomini tutti maestri da guerra,
     Ch’a visitare andava una sua terra.

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18 Questo è colui che Erminion lascioe,
     Quando e’ partì, per guardia del suo regno.
     Fieramonte Baiardo riguardoe,
     Subito su vi faceva disegno;
     Verso Rinaldo in tal modo parloe:
     Deh dimmi, cavalier famoso e degno,
     Onde avestu questo caval gagliardo?
     E finalmente gli chiedea Baiardo.

19 Dicea Rinaldo: Assai me l’hanno chiesto,
     Ma a nessun mai non lo volli donare.
     Disse il Pagan: Se tu non vuoi far questo,
     Deh lasciamelo un poco cavalcare.
     Rinaldo intese la malizia presto,
     E disse: Un bello esemplo ti vo’ dare,11
     Saracin, prima ch’io ti dia il cavallo;
     E raccontò della volpe e del gallo.

20 Andandosi la volpe un giorno a spasso
     Tutta affamata, sanza trovar nulla,
     Un gallo vide, in su ’n un alber, grasso,
     E cominciò a parer buona fanciulla,
     E pregar quel che si faccia più basso,
     Chè molto del suo canto si trastulla;
     Il gallo sempliciotto in basso scende;
     Allor la volpe altra malizia prende.

21 E dice: E’ par che tu sia così fioco,
     I’ vo’ insegnarti cantar meglio assai:
     Quest’è, che tu chiudessi gli occhi un poco,
     Vedrai che buona voce tu farai.
     Al gallo parve che fussi un bel giuoco:
     Gran mercè, disse, che insegnato m’hai;
     E chiuse gli occhi e cominciò a cantare,
     Perchè la volpe lo stessi ascoltare.

22 Cantando questo semplice animale
     Con gli occhi chiusi, come i matti fanno,
     La volpe, come falsa e micidiale,
     Tosto lo prese sotto quell’inganno,
     E dovè poi mangiarsel sanza sale.
     Così interviene a que’ che poco sanno,
     Così faresti tu, chi ti credessi:
     Ben saria sciocco, se ’l caval ti dessi.

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23 Se vuoi giostrarlo, i' sono al tuo comando:
     Se tu m’abbatti per la tua virtù
     Su questo prato con lancia o con brando,
     Sia tuo il caval, non se ne parli più.
     Fieramonte rispose rimbrottando,
     E disse: Poltonier12, che parli tu?
     Com'hai tu tanto ardir, matto villano?
     Quel che tu di’ nol direbbe il Soldano.

24 Se tu sapessi ben con chi tu parli,
     Non parleresti così pazzamente:
     Quantunque io soglio i pazzi gastigarli.
     E 'l mio fratello Erminion possente
     Farebbe a tutta Francia e sette Carli
     Guerra, com'or vi fa colla sua gente;
     Ch’a Montalbano ha posto già l’assedio,
     Tanto che Carlo non ha alcun rimedio.

25 E tante schiere e giganti ha menati,
     Per la vendetta far di quel Mambrino,
     Ch’uccise il fior de’ traditor nomati,
     Rinaldo, che pel mondo or va meschino;
     E sbattezar vuol tutti i battezzati.
     Disse Rinaldo: Bestial Saracino,
     Sia chi tu vuoi, che per la gola menti;
     Chè mai Rinaldo non fe tradimenti.

26 Per forza o per amor del campo piglia,
     Io vo’ pigliar per Rinaldo la zuffa;
     Ch’io so ch’egli è di sì nobil famiglia,
     Che mai non fece tradimento o truffa:13
     E detto questo, girava la briglia.
     Veggendo il Saracin com’egli sbuffa,
     Disse: Sarebbe il diavolo costui?
     Mai più smentito in tal modo non fui.

27 Volse il cavallo, e tutto acceso d’ira
     Prese del campo, e poi si fu voltato.
     Rinaldo all’elmo gli pose la mira,
     E ’l ferro della lancia v’ha appiccato;
     Tanto che Fieramonte ne sospira,
     Perchè dalla collottola è passato,
     Sì che per gli occhi gli passò la fronte,
     E morto cadde in terra Fieramonte.

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28 I Saracin, che questo hanno veduto,
     Cominciorno pel colpo a sbigottire;
     E come avvien chi 'l signore ha perduto,
     Pel prato cominciâr tutti a fuggire.
     Aveva un certo baron molto astuto
     Fieramonte, e veggendo quel morire,
     Venne a Rinaldo, e ginocchion si getta,
     E disse: Fatta hai, baron, mia vendetta.

29 Se vuoi ch’io parli arditamente il vero,
     Io ti dirò di questo traditore
     Il qual tu hai morto, gentil cavaliero:
     Sappi che ’l suo fratel, ch'è qua signore,
     Lo lasciò qui a governo del suo impero,
     E mossa ha guerra a Carlo imperadore;
     E come e’ disse, a Montalban si truova
     Per pigliar quello, e faranne ogni pruova.

30 Poi che costui si vide qua il messere,14
     Ha fatte cose contra ogni giustizia,
     Rubato il terrazzano e ’l forestiere,
     Mostrato in molti modi sua nequizia,
     A nessun fatto ragione o dovere;
     E per più chiar mostrar la sua tristizia,
     S’alcun pur ne volessi dubitare,
     Le nostre donne cominciò a sforzare.

31 E perchè alcuno non avea pazienza,
     E’ lo faceva morir di segreto,
     Tanto che assai per questa violenza
     Per la paura si stavan di cheto;
     Trovato ha il suo peccato penitenza,
     E tutto il popol nostro ne fia lieto:
     Volle sforzare anco una mia sorella,
     E non potendo, imprigionata ha quella.

32 Se tu se’ cavalier ch’abbi potesta,15
     Come mi parve veder poco avanti,
     Togli il cavallo e la sua sopravvesta;
     Noi ti farem compagnia tutti quanti,
     E tutta la città ti farà festa:
     Noi siam tutti baron de’ più prestanti:
     Sanza colpo di spada o altra guerra,
     A salvamento16 ti darem la terra.

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33 Noi v’abbiam degli amici e de’ parenti,
     Tu ti potrai fermare in su la piazza;
     E mosterem far giostre e torniamenti,
     E ’ntanto farem metter la corazza
     A’ più fidati, che ne fien contenti:
     Tu terrai a bada quella gente pazza,
     E tutti saran presi così in zurro.17
     Ed ora il nome mio saprai, Faburro.

34 Allor Rinaldo rispondeva a quello:
     Prima ch’io t’abbi, Faburro, risposto,
     O mentre i miei compagni a questo appello,
     Parmi tu fermi questa gente tosto:
     Vedi che vanno via com’un uccello,
     Un mezzo miglio già ci son discosto,
     E sanza lor non si può far niente.
     Disse Faburro: Tu di’ saviamente.

35 E cominciò a spronare un suo giannetto: 18
     Rinaldo Orlando chiamava e Dodone
     E Ulivieri, e contava ogni effetto:
     Orlando orecchio alle parole pone,
     E intese ciò che quel Pagano ha detto;
     E disse: Forse Dio sanza cagione
     Non ci ha mandati in questa parte strana,
     Ma per ben sol della Fede cristiana.

36 Ma si dolea ch’e’ non v’era con loro
     Morgante, il quale ha lasciato Ulivieri
     Colla figliuola del re Caradoro;
     Ch’era rimaso con lei volentieri,
     Per aspettar che tornassin costoro;
     Ed anco parve al marchese mestieri,
     Perchè il figliuol di lui, quando nascessi,
     Re Caradoro uccider nol facessi.

37 Meridiana avea chiesto il gigante
     A Ulivier per un segno d’amore,
     Per ricordarsi del suo caro amante,
     Poi che montato fu in sul corridore.
     Ed Ulivieri avea detto a Morgante:
     Ben puoi restar dove resta il mio core;
     Ritornerotti a veder con Orlando,
     E ’l mio figliuolo e lei ti raccomando.

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38 Di questo Orlando si doleva a morte,
     Dicendo: Se Morgante mio ci fosse,
     Egli è tanto feroce e tanto forte,
     Che fare’ rovinar con poche scosse
     Il mondo, non che le mura o le porte;
     A molti so faria le gote rosse:
     So che saremo in sì fatto travaglio,
     Che molto sarebbe util quel battaglio.

39 Faburro in questo mezzo è ritornato
     Ed ordinato ciò che bisognava.
     Rinaldo a Fieramonte avea cavato
     La sopravvesta e l’armi che portava,
     E sopra il suo cavallo era montato,
     Tanto che tutto il Pagan rassembrava.
     E inverso la città sono inviati
     Come Faburro gli avea ammaestrati.

40 Grande onor fanno tutti i terrazzani
     A quel che credon Fieramonte sia;
     Rinaldo in su la piazza a’ suoi Pagani
     Facea far giostra e festa tuttavia:
     Faburro intanto menava le mani;19
     Truova gli amici e parenti, e dicia
     Come egli è morto il lor crudo tiranno,
     E come ben le cose passeranno:

41 Che liberi sanz’altro impedimento
     Tosto saranno: e fe subito armare
     Gran quantità, ch’ognuno era contento
     Di voler la sua patria liberare:
     Mentre che in piazza si fa torniamento,
     E ’l popol tutto stava a baloccare,20
     Giunse in un tratto con gran gente armata
     Faburro, e tosto la piazza ha pigliata.

42 I Saracin, che con Rinaldo sono
     Comincian tutti a insanguinar le spade:
     Chi morto resta, e chi chiede perdono;
     E cominciorno a correr la cittade
     Con gran tumulto, e gran furore, e tuono:
     Già son di gente calcate le strade,
     E non sapendo ignun questo trattato,
     Dicevan: Fieramonte fia impazzato.

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43 Rinaldo corse al palazzo reale,
     Dov’era la Reina e’ suoi figliuoli;
     E come giunse in capo delle scale,
     Disse la donna: Perchè i nostri stuoli
     Son sì turbati, e perchè tanto male?
     Così far, Fieramonte mio, non suoli:
     Che caso è questo, e chi muove tal guerra,
     Che sottosopra così va la terra?

44 Rinaldo di Frusberta gli menoe
     Un colpo tal, che gli spiccó la testa.
     Prese i figliuoli, e tutti gli ammazzoe.
     I Saracin dicien: Che cosa è questa?
     E finalmente la terra piglioe,
     Con quella gente che drento vi resta;
     Poi trasse di Faburro la sorella
     Della prigione, afflitta e meschinella.

45 E poi che furno alcun dì dimorati,
     E con Faburro ognun si fu scoperto,
     Ed hanno i nomi lor manifestati,
     E ’l popol vide ogni segreto aperto;
     Furon tutti d’accordo battezzati,
     Rendendo a Gesù Cristo grazia e merto,
     Che liberati gli ha da quel crudele,
     E fatto a sè questo popol fedele.

46 Poi con Faburro, che sapeva il fatto,
     Si ragionó dell’oste ch’è a Parigi,
     E come Gano avea aspettato il tratto21
     E mosso guerra e discordia e litigi,
     Per dare a Carlo Mano scaccomatto;
     E che soccorrer si vuol San Dionigi:
     Faburro s’accordó che vi si vadi
     Subitamente, e che più non si badi.

47 Orlando disse: E’ mi dispiace solo,
     Che noi lasciamo il possente gigante
     A Caradoro, ond’io n’ho molto duolo.
     Disse Dodon: Se tu vuoi, sir d’Angrante,
     Andró per lui com’un falcone a volo;
     In pochi giorni sará qui Morgante:
     A tutti piacque che per lui s’andassi,
     E per far presto Baiardo menassi.

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48 Così fu fatto, e missesi in cammino;
     E tanto va questo baron gagliardo,
     Che a Carador famoso saracino,
     Giunse un dì in su la piazza con Baiardo.
     Riconosciuto è presto il paladino;
     Diceva Carador: Se ben riguardo,
     Quest’è Dodon, che ci torna a vedere;
     E quel par di Rinaldo il buon destriere.

49 Meridiana, che ’l conobbe presto,
     Giù per la scala correva abbracciallo,
     Dicendo: Dodon mio, che gaudio è questo!
     Io ti conobbi subito al cavallo:
     Ch’è d’Ulivier? deh fammel manifesto,
     Chè di saperlo ho voglia sanza fallo.
     Disse Dodone: Ulivier tuo ti manda
     Mille salute22, e ti si raccomanda.

50 Or chi vedessi la dama amorosa,
     Subito come di Dodon s’accorse,
     Farsi nel volto come fresca rosa,
     E come presto abbracciarlo poi corse,
     E domandò dove Ulivier si posa;
     Non istarebbe del suo core in forse:
     Ch’è di Rinaldo, dicea, baron franco?
     Tu debbi, Dodon nostro, essere stanco.

51 Ch’è di quel paladin, ch’ogni altro avanza,
     Orlando nostro famoso e possente?
     Chè di saper di tutti ho disianza.
     Intanto Caradoro era presente,
     E salutò Dodone, com’è usanza;
     Poi domandava di tutta la gente.
     Dodon rispose: In paesi lontani
     Gli lasciai in Danismarche salvi e sani.

52 E la cagion che a te son qui venuto,
     È che mi manda Rinaldo d’Amone,
     E ’l conte Orlando, e che bisogna aiuto
     Al nostro Carlo Man, ch’Erminione
     A Montalban più giorni ha combattuto,
     Ed assediato col suo gonfalone:
     Convien ch’i’ meni tue genti e Morgante.
     In questo tempo comparì il gigante.

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53 E corse presto Dodone abbracciare,
     E mille volte domandò d’Orlando;
     Dodon gli dice, come e’ vuole andare
     In Francia, e come e’ lo manda pregando
     Che in Danismarche lo vadi a trovare:
     E tutti insieme vennonsi accordando
     Che si raguni il lor popol pagano,
     Per dar soccorso presto a Montalbano.

54 In pochi dì fur fatte molte squadre,
     Per dover tutti inverso Francia gire.
     Meridiana dice: O caro padre,
     Non mi volere una grazia disdire:
     Io vo’ provar le mie virtù leggiadre
     In Francia, ben s’i’ dovessi morire:
     S’io debbo aver da te mai alcun piacere,
     Fa’ ch’io sia capitan di nostre schiere.

55 Re Caradoro avea tanto disio
     Di ristorar23 del beneficio antico
     Rinaldo e gli altri, che rispose: Anch’io
     M’accordo al tuo parer; però ti dico
     Che tu ti vadi col nome di Dio,
     Perchè Rinaldo è stato buono amico:
     Quando fu tempo, ci dette il suo aiuto:
     Di ristorarlo al bisogno è dovuto.

56 Orlando ed Ulivier siccome amici
     Ci hanno trattati, sa tutto il mio regno,
     Ne’ casi avversi, miseri e 'nfelici:
     Adunque il priego di Dodone è degno,
     E ricordar si vuol de’ benefici,
     Ch’essere ingrato Iddio l’ha troppo a sdegno.
     Merediana fu troppo contenta,
     Che in dubio stava alla risposta attenta.

57 E poi si volse a Morgant, e dicia:
     E tu con meco, gigante, verrai.
     Dicea Morgante: Da tua compagnia
     Non dubitar ch’io mi diparta mai;
     Così ti giuro e do la fede mia.
     Disse la dama: Io ne son lieta assai;
     Parmi mill’anni rivedere il conte,
     E l’ardito Rinaldo di Chiarmonte.

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58 Questo dicea colla lingua la dama,
     Ma Ulivier diceva col suo core;
     Morgante, che sapea tutta la trama,
     Rispose: Dove lasci il tuo amadore,
     Che so che giorno e notte ancor ti chiama?
     Hai tu sì tosto lasciato il suo amore?
     Disse la dama: Ulivieri è qui meco,
     Però nol dissi, ed io son sempre seco.

59 In poco tempo furono ordinati
     Quarantamila, e fatte dieci schiere,
     E dal re Caradoro licenziati,
     E date tutte al vento le bandiere;
     Ed eran bene in punto e bene armati,
     Come conviensi a ciascun cavaliere,
     Cavalli e scimitarre alla turchesca,24
     E scudi e targhe25 e archi alla moresca.

60 Meridiana aveva un palafreno
     Quartato, che pareva una montagna,
     E ciò che questo mangiava, orzo o fieno,
     Con acqua fresca prima gli si bagna;
     E non era caval, ma nondimeno
     E’ non se gli poteva appor magagna,
     Se non che ’l capo aveva di serpente,
     E molto destro e forte era e corrente.

61 Questo in un bosco già facea dimoro,
     E nacque d’un serpente e d’un'alfana;26
     Mugghiava forte che pareva un toro,
     Mai non si vide bestia così strana;
     Un che lo prese, il dette a Caradoro,
     E Caradoro il diè a Meridiana;
     Nelle battaglie sempre lo menava,
     E molta fama con esso acquistava.

62 Tanto cavalca questa franca gente,
     Che in Danismarche alla fine arrivorno.
     Quando Rinaldo la novella sente,
     Una mattina in sull’alba del giorno,
     Chiamava Orlando e ’l marchese possente;
     E presto quel che fussi s’avvisorno:
     Perchè di lungi si vede il gigante,
     Che col battaglio veniva davante.

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63 Diceva Orlando: Ecco Morgante nostro,
     Ed ha con seco gran gente pagana;
     E Caradoro grande amor ci ha mostro,
     Che la nostra amistà non sia lontana.
     Disse Ulivier: S’egli è Morgante vostro,
     Dove è la bella mia Meridiana?
     Io 'l bramo tanto, ch’io la veggo e sento,
     E par ch’io sia di questo error contento.

64 E poi che furon più presso, vedea
     Ulivier questa, che ’l passo studiava,
     La qual cognobbe al caval ch’ella avea,
     Ovver ch’Amor così l’ammaestrava.
     Meridiana, quando lui scorgea,
     Come stella nel viso fiammeggiava,
     E del caval saltò subitamente;
     Ed Ulivier facea similemente;

65 Ed abbracciolla con gran gentilezza,
     Prima baciolla aè suo modo franzese;
     La gentil dama per gran tenerezza
     Non potè salutar, tanto s’accese:
     Ed Ulivier sentia tanta dolcezza,
     Che le parole sue non sono intese;
     E pur voleva dir: Ben venga quella,
     Che sola agli occhi miei fia sempre stella.

66 Gran festa fu tra’ Pagani e’ Cristiani,
     E molto Carador fu commendato,
     Che si ricorda in paesi lontani
     De’ beneficj del tempo passato.
     Dicea Faburro: O cavalier sovrani,
     Sempre ho sentito un proverbio provato,
     E tengo nella mente vivo e verde:
     Che del servire al fin mai non si perde.

67 Nella città più giorni si posaro,
     E intanto i nuovi Cristian sono in punto;
     Quattromila in un'oste s’assembraro;
     Dicea Faburro: Or che Morgante è giunto,
     È da partirsi; e molto mi fia caro,
     Orlando, se tu mi ami o stimi punto,
     Ch’io sia di questa gente conduttore,
     E mostrerrotti in Francia il mio valore.

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68 Orlando disse: E’ non è cosa gnuna
     Ch’io ti negassi, Faburro possente.
     Allor Faburro sua gente raguna;
     E poi ch’egli ebbe assettata la gente,
     Volle portar per insegna una luna
     Sur una sopravvesta riccamente
     Di seta bianca lavorata e d’oro,
     Sì che due corna pareva d’un toro.

69 Or lasceremo il popol saracino,
     Il qual di Danismarche già s’è mosso,
     E ritorniamo al figliuol di Pipino,
     Che piange, e dice fra sè: più non posso;
     Non c’è Rinaldo, non c’è il suo cugino,
     E tutto il mondo qua mi viene addosso;
     Non gli conobbi mentre erano in corte,
     Or me n’avveggo, e dolgomene a morte.

70 Gan traditor lo riguardava fiso,
     E con parole fitte il confortava,
     E simulava uno sforzato riso:
     O Carlo, troppo di questo mi grava,
     Perchè pur bagni di lacrime il viso?
     E trentamila de’ suoi ragunava,
     E disse: Io voglio andare, il traditore,
     a Montalban con questi, imperadore.

71 E tutti a Carlo gli menava avante;
     E fece suo capitano il Magagna,
     Dicendo: Io voglio assalir lo ammirante
     Con questa compagnia, ch’è tanto magna
     E so che noi piglieren Lionfante;
     Io lo farò dar, Carlo, nella ragna:27
     E seppe tanto acconciar ben l’orpello,28
     Che Carlo si togliea per oro quello.

72 A Montalban n’andò con questo inganno,
     E si pensò pigliarlo a salvamento:
     E tutti all’amirante se ne vanno,
     E disse: Io ti darò per tradimento
     La terra e’ tuoi nimici che vi stanno,
     E metterotti questa notte drento;
     Ma Lionfante era uom troppo da bene,
     E fece quel ch’a’ suoi par si conviene.

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73 E disse: Io ti vo’ dare una novella.
     La volpe un tratto molto era assetata;
     Entrò per bere in una secchia quella,
     Tanto che giù nel pozzo se n’è andata;
     Il lupo passa, e questa meschinella
     Domanda, come sia così cascata:
     Dice la volpe: Di ciò non t’incresca:
     Chi vuol dei grossi nel fondo giù pesca.

74 Io piglio lasche di libbra, compare;
     Se tu ci fussi, tu ci goderesti;
     Io me ne vo’ per un tratto saziare.
     Rispose il lupo: Tu non chiameresti
     A queste cose il compagno, comare,
     E forse che mai più non lo facesti.
     Disse la volpe maliziosa e vecchia:
     Or oltre vienne, e enterrai nella secchia.

75 Il lupo non istette a pensar piue,
     E tutto nella secchia si rassetta,
     E vassene con essa tosto giue;
     Truova la volpe, che ne vien su in fretta;
     E dice il sempliciotto: Ove vai tue?
     Non vogliam noi pescar? Comare, aspetta.
     Disse la volpe: Il mondo è fatto a scale,
     Vedi, compar, chi scende e chi su sale.

76 Il lupo dentro al pozzo rimanea:
     La volpe poi nel can dette di cozzo,
     E disse, il suo nimico morto avea;
     Onde e’ rispose, benchè e’ sia nel pozzo,
     Che ’l traditor però non gli piacea;
     E presela, e ciuffolla appunto al gozzo,
     Uccisela, e punì la sua malizia;
     E così ebbe luogo la giustizia.

77 Se tradimenti hai fatti alla tua vita
     Già mille volte, a questa datti pace;
     Tu non farai di qui giammai partita
     Per nessun modo, traditor verace,
     Ch’ogni tua colpa vecchia fia punita,
     Chè ’l traditor per nulla non mi piace,
     E piglierotti al gozzo col capresto.
     E preselo, e legarlo fece presto.

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78 E poi mandò di subito un messaggio,
     A dire a Astolfo, ch’era in Montalbano;
     Che, perch’egli era di nobil legnaggio,
     Bench’e’ sia Saracino e lui Cristiano,
     A tradimento non vuol fargli oltraggio,
     O in altro modo; e ch’avea preso Gano,
     E impiccherallo, pur che lo consenti:
     E disse tutto de’ suoi tradimenti.

79 Il messaggiero a Astolfo se n’andoe,
     E disse come ha detto il suo signore,
     E tutto il tradimento gli contoe;
     Astolfo fece a quel messaggio onore,
     E poi Guicciardo e gli altri a sè chiamoe,
     E riferì di questo traditore,
     E chiese a tutti consiglio e parere,
     Quel che si faccia di Gan da Pontiere.

80 E che per se medesmo gli parrebbe,
     Che si risponda che lo impicchi presto;
     Poi s’accordorno, ch’util non sarebbe,
     Che ’l tempo avverso non pativa questo;
     Che la sua gente si ribellerebbe,
     Quantunque Gan meritassi il capresto:
     E ringraziorno il famoso Pagano,
     E chiesongli di grazia vivo Gano.

81 Astolfo dette al messo un palafreno,
     E disse: Questo tien per amor mio.
     Il messaggier ritorna in un baleno,
     E raccontò d’Astolfo il suo desio.
     Lionfante, uom di gentilezza pieno,
     Rispose: Come Astolfo vuol, vogl’io;
     E contra suo voler Gan liberava:
     Gano a Parigi subito arrancava.29

82 E disse a Carlo il traditor fellone,
     Ch’aveva fatta certa sua pensata,
     Come ingannar potessi Erminione;
     Ma poi era la trappola scoccata,
     E come preso fu nel padiglione:
     Così la sua tristizia ha covertata,30
     Dicendo: Un tradimento facea doppio,
     Che insin di qua ne sentivi lo scoppio.31

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83 Carlo il credette ben, chè ’l ver dicea,
     Che ’l tradimento doppio era ordinato.
     Astolfo in questo tempo gli scrivea,
     Come questo fellon l’avea ingannato.
     Carlo all’usato a Ganellon credea,
     Chè così era nel ciel destinato;
     E conferiva con lui come prima
     Ogni segreto, e così facea stima.

84 Erminion colla sua gente bella
     Sempre più inverso Montalbano è ito:
     Era per Pasqua, giunse la novella
     D’un messaggier ch’è tutto sbigottito;
     Tanto che giunto a gran pena favella,
     Poi disse tutto per duolo smarrito:
     Erminion, male novelle hai certo,
     Sappi tu se’ col tuo popol diserto.

85 E ’l tuo fratello è morto Fieramonte,
     Chè combattendo un dì con un Cristiano,
     Gli passò l’elmo, e ruppegli la fronte;
     E dice ch’è il signor di Montalbano,
     Ed ha con seco quel famoso conte
     Orlando, che tremar fa il monte e ’l piano;
     La città presa ed abbruciata è tutta,
     E la tua gente scacciata e distrutta.

86 Faburro è quel che ’l tradimento fe,
     Tutti i suoi amici ha fatti far Cristiani,
     E tutto il regno in preda a costor diè;
     Gran quantità son morti de’ Pagani,
     Sanza trovare o rimedio o merzè:
     Io gli ho veduti tagliar come cani,
     E la tua donna in molti affanni e duoli,
     Uccider crudelmente, e’ tuo’ figliuoli.

87 E ti so a dir, che ti vengono addosso
     Con ben quarantamila cavalieri,
     Ed era il campo, quand’io parti’, mosso:
     Faburro è ’l capitan di que’ guerrieri,
     Che di sua gente ha fatto capo grosso,
     E vien con lor, per mostrare i sentieri.
     Quando il Pagan sentì quel ch’egli ha detto,
     Bestemiò forte lo Iddio Macometto.

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88 E disse: Traditor crudele e rio,
     Mai più t’adorerò, così ti giuro:
     Io vo’ che Satanasso sia il mio Dio,
     O se v’è altro diavolo più oscuro:
     Che t’ho io fatto? dove è il fratel mio,
     Ch’io lasciai pur nel suo regno sicuro?
     Dove è la donna mia ch’io ti lasciai,
     E’ miei figliuol ch’io ti raccomandai?

89 Che farò io, se in qua ritorna Orlando,
     E se torna Rinaldo il mio nimico?
     Or verrò le mie ingiurie vendicando
     Contro a costui del mio Mambrino antico.
     Quivi era Salincorno, e lacrimando
     Dicea: Fratello, ascolta quel ch’io dico;
     Dove è la fama e tua virtù fuggita?
     Hai tu perduto il tuo campo o la vita?

90 E’ si conosce nell’avversitade
     Il savio sempre, e nel tempo felice
     Non si può ben veder chi ha in sè bontade;
     Questo sai tu, ch’ognun che intende dice:
     Se Fieramonte è morto, e la cittade
     Distrutta così misera e infelice,
     Tu hai qui tanta gente di tua setta,
     Che d’ogni cosa si farà vendetta.

91 Erminion per ira fe venire
     Tutti i baron legati, e poi scrivea
     A Carlo Magno, e manda così a dire,
     Che gli farà morir di morte rea
     Con gran vergogna e con istran martire,
     Se non gli dà Parigi, conchiudea,
     E ’l suo tesoro e tutto il suo paese;
     E che il primo impiccar farà il Danese,

92 Anzi squartar, perchè e’ fu già pagano,
     E rinnegato avea lo Iddio Macone.
     Il messo giunse presto a Carlo Mano,
     E la ’mbasciata fe d’Erminione.
     Carlo, com’uom già disperato e insano,
     Nulla rispose alla sua orazione;
     E ’l messaggiero indrieto tornò ratto,
     Dicendo, Carlo gli pareva un matto.

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93 Carlo, poi che ’l messaggio fu partito,
     A un balcon si stava addolorato,
     Nè sa più che si far tutto smarrito;
     Ma il suo Gesù non l’arà abbandonato,
     Ch’Orlando in questo tempo è comparito,
     Com’io dirò nell’altro mio trattato,
     Col suo fratello e col pagano stuolo.
     Cristo sia sempre il vostro aiuto solo.

Note

  1. [p. 198 modifica]lasciando il suo bel lauro, Dal qual fu già ec. È noto come il lauro fu sacro ad Apollo, perchè Dafne da lui amata fu in quello convertita. E dice il Poeta che ne fu miseramente sciolto, accennando appunto a quella Ninfa dalla quale fu sciolto e diviso allorchè ella, fuggendo da lui che la inseguiva, divenne per opera di Giove, o come altri vogliono di suo padre Peneo, un alloro. Da indi in poi Apollo ornò la sua chioma e la Lira delle fronde di cotale albero, e volle che mai potesse esser tocco da folgori; per la qual cosa alcuni Imperatori pagani, a tal credenza affidati, usarono farsi un serto d’alloro, e quello porsi sul capo al primo mugghiare della tempesta. In appresso il lauro fu sempre il distintivo dei trionfanti e dei Poeti; e i Romani ne adornavano le insegne militari, e sotto l’impero tenevanlo appeso alla porta del palazzo imperiale.
  2. [p. 198 modifica]Era nel tempo che più scalda il Tauro. Cioè dal 21 aprile al 21 maggio, nel qual tempo il sole è nella costellazione del Toro. La favola pose fra i segni dello zodiaco questo animale, sotto la cui figura Giove rapì Europa. Ma forse il Toro che la rapì fu un bastimento chiamato Toro, e il rapitore uno di quei re di Creta, che solean, per orgoglio, darsi nome di Giove.
  3. [p. 198 modifica]gesta. Significa qui turba, moltitudine di gente, e l’usò poi nello stesso significato anche l’Ariosto, Canto XLVI, St. 104:

    Mostra Carlo sprezzar colla sua gesta.

  4. [p. 198 modifica]omore. Voce antica: lo stesso che umore. Dante l’usò nel trentesimo dell’Inferno:

    La grave idropisia, che sì dispaia
    Le membra con l’omor che mal converte.

  5. [p. 198 modifica]mastra sala. La sala principale. Ditesi anche mastra porta, mastra torre, mastra piazza e simili.
  6. [p. 198 modifica]Al qual non può mostrar bianco per nero. Non può dare ad intendere una cosa per un’altra. È questo un modo di dire usato pure nodo stesso significato dai Latini, ed ebbe origine dall’antica costumanza di contrassegnare colla creta o con una linea bianca le cose prospere, e col carbone le avverse e cattive; onde Persio disse:

    Illa prius creta, mox hæc carbone notasti.
                                       Sat. V, v. 8.

    Trovasi questo stesso proverbio in Ovidio, dove parla d’Antolico figliuolo di Mercurio e di Chione:

    Qui facere assuerat, patriæ non degener artis.
    Candida de nigris, et de candentibus atra.

                                       Metamorf., lib. II.

    E in Giovenale:

    Cedamus patria: vivant Arturius istic
    Et Catulus; mancant qui nigra in candida vertunt.

                                       Sat. III.

  7. [p. 199 modifica]ribaldo. «Ribaldo (dice il Buti) tanto è a dir quanto rio baldo, cioè ardito, rio uomo.» Anticamente però il nome di ribaldo era preso in significato di uomo prode; cioè in buona parte, come lo erano già τύραννος appresso a’ Greci, latro appresso a’ Latini, e anche barone appresso a noi Italiani.
  8. [p. 199 modifica]il suo natural caldo. Il suo solito vigore e potenza; tolta la metafora dal corpo dell’animale, nel quale quando cessa l’azione del cuore, e per conseguenza il movimento circolatorio, vien tosto meno la calorificazione.
  9. [p. 199 modifica]la donzella pulita. Leggiadra.
  10. [p. 199 modifica]tapinella. Infelice, disgraziata. Diminutivo di tapino, che viene dal greco ταπεινός, umile, sommesso.
  11. [p. 199 modifica]Un bell’esemplo ti vo’ dare. Erano molto in voga a quel tempo gli apologhi. Nel Mambriano, questo re volgendo in animo di chiedere aiuti al gran Cane dei Tartari, a Tamerlano, e al re di Danimarca, aduna innanzi di far ciò il suo consiglio, nel quale un vecchio guerriero si fa a narrare un apologo, che è in sostanza quello d’Esopo dell’allodola, de’ suoi figliuoli, e del padrone del campo; e con questa favola persuade a Mambriano che non è da por fidanza ne’ vicini, ma da adoperare ed aiutarsi da sè. Ci avverremo in questo stesso Poema ad altri di siffatti apologhi: la volpe caduta in un pozzo a St. 75 di questo stesso Canto, e i buoi e la loro ombra nell’acqua al Canto XLII, St. 31.
  12. [p. 199 modifica]E disse: Poltronier. Poltroniere, lo stesso che poltrone. Il Salmasio nel suo trattato de Trapezitico fœnore narra come gl’imperatori Valentiniano e Valente aveano ordinato che chiunque atto alle armi si fosse, per sottrarsene, reciso le dita, venisse condannato ad esser arso. Da ciò si rileva che cotal uso di recidersi le dita doveva essere assai comune in quel tempo, e quelli che ciò facevano erano chiamati con tronca voce poltrones da pollex (pollice) e truncus. Ora, siccome chi aveva le dita così tronche dava a divedere com’egli era uomo vile e codardo, si estese in appresso un siffatto nome di poltrones a tutti coloro che pigri e ignavi nel vivere si addimostravano. Da questa voce poltro, onis, nacque l’italiano poltro, adoperato da Dante nel XXIV del Purgat.:

    Come fan bestie spaventate e poltre;

    e dell’Ariosto nella IV Satira:

    E più mi piace di posar le poltre
    Membra ...........

    Onde poltrone non è che l’accrescitivo di poltro. Non so come il Landino sopra quel verso di Dante:

    Omai convien che tu così ti spoltre;

    e il Vellutello sopra quei del Petrarca:

    La gola, il sonno, o l’ozïose piume
    Hanno del mondo ogni virtù sbandita;

    abbiano detto che poltro significa letto; conciossiachè non mi sia mai abbattuto a tal voce in cotale significato, nè i Vocabolarii l’accennino. Virgilio non altro volle dire a Dante in quei versi che questo: «Omai conviene che tu scuota la tua pigrizia; perchè facendo il poltrone, e standosene a letto non si acquista rinomanza nel mondo;» e tolse cotal sentenza da quella di Platone Κοιμώμενος οὐδείς οὐδενὸς ἄξιος (un dormiente non è degno di pregio alcuno).

  13. [p. 199 modifica]truffa. Inganno e furberia. Trovasi il verbo truffare in alcuni scrittori latini del peggior secolo, o vien dal greco τρύφάω, che significa far buona vita, godere, scherzare, lussureggiare e simili.
  14. [p. 199 modifica]il messere. Messere è titolo di maggioranza, oggi uscito quasi affatto d’uso, o formato delle due parole mio, e sire o sere (signore), l’ultima delle quali è rimasta al presente a significare titolo di maestà. Questa voce messere posta assolutamente e coll’articolo avanti, come in questo luogo, significa assoluto o dispotico padrone.
  15. [p. 199 modifica]potestà. Potere, potenza.

    Quando verrà lor nimica potestà,

    [p. 200 modifica]disse Dante.
  16. [p. 200 modifica]A salvamento. Posto così avverbialmente vale senza danno, sano e salvo, incolumis.
  17. [p. 200 modifica]in zurro. Zurro è lo stesso che ruzzo; e vale allegria, desiderio smodato di checchessia. Il Vocabolario pone ad esempio questo stesso luogo del Morgante.
  18. [p. 200 modifica]giannetto. Giannetto è cavallo di Spagna, detto così dallo spagnuolo ginete. Vedi sopra tal voce il Covartuvia e il Menagio nelle Origini francesi, alla voce genet.
  19. [p. 200 modifica]menava le mani. Menare le mani, oltre il significato di combattere, ha anche quello di affaccendarsi, studiarsi in far checchessia.
  20. [p. 200 modifica]a baloccare. A baloccarsi, e vale spassarsi, trastullarsi: inutiliter tempus trahere; e dicesi propriamente dei ragazzi, chiamandosi balocchi quello cose che si danno loro in mano perchè si trastullino. Viene da badaluccare, che significa tenere a bada, trattenere, e anche leggermente scaramucciare. Latino, velitari; greco, ακροβολίζειν.
  21. [p. 200 modifica]Gano avea aspettato il tratto. Cioè la congiuntura, il tempo opportuno.
  22. [p. 200 modifica]Mille salute. Salute per saluti l’adoperò anche il Petrarca nel Capitolo secondo:

    Ch’a pena gli potei render salute.

    Greco άσπασος.

  23. [p. 200 modifica]Di ristorar. Ricompensare, rimunerare.
  24. [p. 200 modifica]scimitarre alla turchesca. Scimitarra è una specie di spada che si va a poco a poco curvando verso la punta, e simile quasi a quel coltello di cui Senofonte racconta che si servivano i Persiani. I Turchi la chiamano cedarè, e gli Arabi seife. Vedi Lazzaro Soranzo nell’Ottomanno; articolo 40.
  25. [p. 200 modifica]targhe. La targa è una specie di scudo di legno e di cuoio. Greco, άσπίς. È così delta da tergum, perchè facevasi col tergo de’ buoi, come si cava da quel di Virgilio:

    ........ quam nec duo taurea terga
    Nec duplici squama lorica fidetis et auro
    Sustinuit
    ..........
                                  Eneide, lib. IX.

    E anche i Latini indicarono col nome di tergum tale scudo; onde Virgilio nello stesso lib. IX:

    Et venit adversi tergum Sulmonis, ibique
    Frangitur, ac fisso transit prœcordia ligno;

    e nel X:

    ........ et tergo decutit hastas.

  26. [p. 200 modifica]e d’un’alfana. Alfana, lo stesso che cavalla. È voce spagnuola, composta dell’articolo arabo al, e della voce latina equa, corrotta a questo modo secondo il Menagio: equa, eka, aka, haka, faca, facana, e finalmente per contrazione fana. I Castiglianesi, come vedesi nel Franciosini, dicevano, e forse dicono tuttora, hacanea e facanea per cavalla, e faca gli Aragonesi, secondo il Nicozio.
  27. [p. 200 modifica]Io lo farò dar... nella ragna. Dar nella ragna vale incorrere nell’agguato, incidere in casses.
  28. [p. 200 modifica]orpello. È rame ridotto in sottilissime lamine, colla superficie di colore simile all’oro. Viene da auripellis, quasi oropelle, cioè con pelle d’oro; onde talora (dice la Crusca) ce ne serviamo per finzione e abbellimento. Il Varchi scrive nell’Ercolano: «S’usa orpellare, quando alcuno mediante la ciarla, e per pompa delle parole, vuol mostrare che quello che è orpello sia oro; cioè fare credere ad alcuno le cose o picciole, o false, o brutte, essere grandi, vere e belle.»
  29. [p. 200 modifica]a Parigi subito arrancava. Arrancare vale propriamente il camminare che fanno in fretta gli zoppi e sciancati, e viene da anca. Qui è in significato di properare, σπέυδειν.
  30. [p. 200 modifica]covertata. Coperta, nascosta.
  31. [p. 200 modifica]scoppio. È il romore e fracasso che nasce dallo scoppiar delle cose. Viene dal latino scloppus, usato anche da Persio:

    Nec scloppo tumidas intendis rumpere buccas.
                                            Sat. V.