Morgante maggiore/Canto ottavo

Canto ottavo

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Canto settimo Canto nono

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CANTO OTTAVO.




ARGOMENTO.

     Meridiana si battezza, e gode
Col marchese Ulivier d’amore il frutto.
Ordisce Gano una novella frode,
Per cui non è in Parigi un occhio asciutto.
Dal campo d’Erminione il fragor ode
Carlo d’armate genti, e a tal ridutto
De’ paladini è ciaschedun campione,
Che sanza birri van tutti in prigione.


1 Vergine santa, madre di Gesue,
     Madre di tutti i miseri mortali,
     Per cui salvata nostra prole fue,
     Perchè tu ci ami tanto, e tanto vali;
     Donami grazia e tanto di virtue,
     Ch’i’ mi ritorni a’ baron nostri, i quali
     Nella città tornar volevan drento,
     E Manfredon ne va poco contento.

2 Anzi chiamava morte a ogni passo,
     Dicendo: Omè, quanto pensai felice
     Esser per te, Meridiana, ahi lasso,
     Ch’io t’ho lassata, or misero e ’nfelice.
     Arebbe fatto lacrimare un sasso
     Per le parole che talvolta dice,
     E tuttavia la gente rassettava,
     E ’nverso il suo cammin tristo n’andava.

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3 Or chi avessi il gran pianto veduto,
     Che nel suo dipartir fa la sua gente,
     Certo ch’assai gliene saria incresciuto:
     Chi morto il padre lascia, e chi ’l parente,
     E così morto l’ha riconosciuto,
     Onde piangea di lui miseramente;
     Chi ’l suo fratello, e chi l’amico abbraccia,
     Chi si percuote il petto, e chi la faccia.

4 Eravi alcun che cavava l’elmetto
     Al suo figliuolo, al suo cognato, o padre,
     Poi lo baciava con pietoso affetto,
     E dicea: Lasso, fra le nostre squadre
     Non tornerai in Soria più, poveretto;
     Che direm noi alla tua afflitta madre,
     O chi sarà più quel che la conforti?
     Tu ti riman cogli altri al campo morti.

5 Altri dicea pel cammin cavalcando:
     Non si dovea tanta gente pagana
     Menar però così qua tapinando:
     Certo non era la dama sovrana
     Di tanto prezzo, quant’or vien costando;
     Or hai tu, Manfredonio, Meridiana?
     Or se ne va la tua gente sbandita;
     E mancò poco a lasciar qua la vita.

6 Teco menasti tutta Pagania,
     Come tu andassi per Elena a Troia;
     Ora hai tu fatta la tua voglia ria,
     E se’ cagion che tanta gente muoia.
     E così Manfredon ne va in Soria
     Afflitto, sconsolato, in pianto, e in noia;
     Così chi segue ogni sfrenata voglia,
     Lasciando la ragion, sente al fin doglia.

7 Orlando con Rinaldo ed Ulivieri
     Si ritornorno, e Dodone e Morgante,
     Con Caradoro e tutti i cavalieri,
     Colle bandiere al vento trionfante;1
     Gran festa è fatta a’ cristian battaglieri
     Da tutto quanto il popolo affricante,
     Suonansi corni e trombette e tamburi,
     Fannosi fuochi e balli sopra i muri.

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8 Essendo molti giorni riposati,
     La damigella un dì chiama il marchese.
     In una cameretta sono andati;
     E poi che tutta nel viso s’accese,
     E’ suoi sospir tutti ha manifestati,
     Priega ch’a lei sia ’l cavalier cortese,
     E che ’l suo amor negar non debbi a quella,
     Che nel suo cor sentia mille quadrella.

9 Ulivier dice: Non farò per certo,
     Perchè se’ Saracina, io son Cristiano;
     Dal nostro Iddio so ch’io sarei diserto:2
     Prima m’uccidi qui colla tua mano.
     Ella rispose: Stu mi mostri aperto
     Che ’l nostro Macometto iddio sia vano,
     Io mi battezzerò per lo tuo amore,
     Perchè tu sia poi sempre il mio signore.

10 Ulivier disse della Trinitate3,
     Com’ era una sustanzia e tre persone,
     Di lor potenzia e di lor deitate;
     E poi le fece una comparazione:
     Se d’essere uno e tre pur dubitate,
     Si mostra per esemplo e per ragione,
     Ch’una candela accesa mille accende,
     E ’l lume suo pure all’usato rende.

11 De’ miracoli fatti disse al mondo,
     E come Lazzar già resuscitassi;
     Com’e’ fu crucifisso, e nel profondo
     Del Limbo a trar molt’anime n’andassi.
     Disse la dama: Più non ti rispondo;
     E fu contenta che la battezzassi:
     E dopo a questo vennono alla cresima,
     Tanto che in fine e’ ruppon la quaresima.

12 Più e più volte questa danza mena
     Ulivier nostro pur celatamente;
     Non si ricorda più di Forisena,
     Che la soleva aver sempre alla mente;
     E la fanciulla leggiadra e serena
     Ingravidata è di lui finalmente:
     E nacquene un figliuol, dice la storia,
     Che dette a Carlo Man4 poi gran vittoria.

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13 Uscendo un dì d’una zambra la dama,
     Rinaldo s’accorgea di questo fatto,
     E Ulivier segretamente chiama:
     Che fai tu? disse, tu mi pari un matto.
     Ulivier gli contò tutta la trama,
     Com’ella è battezzata, e con che patto.
     Rinaldo disse: Se Cristiana è certa,
     Fa che la cosa almen vadi coperta.

14 Or lasciamo Ulivier fornir la danza,
     E riposarsi alquanto, e gli altri ancora,
     E ritorniamo al signor di Maganza,
     Gan da Pontier, che non si posa un’ora.
     Avuto avea del suo messo certanza,
     Come impiccato fu sanza dimora
     Da Carador, onde n’ha gran tormento,
     E pensa pur qualch’altro tradimento.

15 E perch’egli era maestro perfetto,
     Si ricordò d’un gran re saracino,
     Lo quale Erminion per nome è detto,
     Nimico di Rinaldo paladino;
     Perchè Rinaldo5 gli fe già dispetto,
     Quando dette la morte al re Mambrino:
     Perch’egli avea per moglie la sorella,
     Detta dama Clemenzia savia e bella.

16 Avea più tempo questa donna eletta,
     Come fanno le moglie col marito,
     Pregato che far debba la vendetta;
     Erminion non l’avea consentito,
     Come colui che luogo e tempo aspetta,
     Siccome savio, a pigliar tal partito:
     Gan da Pontieri avea per alfabeto
     Ogni trattato palese e segreto.

17 E dov’e’ possa seminar discordia,
     Nol ritenea pietà nè conscienzia,
     Chè lo facea sanza misericordia;
     Sapea il pensier della dama Clemenzia:
     E scrisse un brieve, e dopo lunga esordia,
     Gli ricordò l’oltraggio e violenzia
     Del buon Rinaldo, e che non debba starsi,
     Però ch’egli era il tempo a vendicarsi.

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18 A te, Erminion di gran potere,
     Il conte Gan mille salute manda,
     Sempre parato ad ogni tuo piacere,
     E umilmente a te si raccomanda:
     Credo tu debbi ogni cosa sapere;
     Dove Rinaldo si truovi e ’n qual banda,
     E com’egli è sbandeggiato di corte,
     E dette al re Mambrin pur già la morte.

19 Pel mondo va com’un ladron di strada;
     Orlando è seco e Dodon per ventura,
     Ed Ulivier con lui credo ancor vada;
     Non ti bisogna aver di lor paura:
     Lascia il tuo regno ed ogni tua contrada,
     A Montalban te ne vieni alle mura;
     Alardo e Ricciardetto v’è a guardarlo,
     E non potre’ più in odio avergli Carlo.

20 Se tu vien presto col tuo assembramento,6
     In poco tempo so che ’l piglierai:
     Gente non v’è, nè vettovaglia drento,
     E in questo modo ti vendicherai;
     Però che fu pur troppo tradimento,
     Ucciderlo nel modo che tu sai:
     Io te lo scrivo per antico amore,
     E so che vuole il nostro imperadore.

21 E’ si vorrebbe dinanzi levare
     Tutti que’ della casa di Chiarmonte,
     Ma con suo onor non l’ha potuto fare:
     Ora ha sbandito Rinaldo col conte,
     Per fargli sol, se può, mal capitare;
     E se tu vien colle tue gente a fronte,
     Carlo sarà giustificato in tutto,
     Che per tua man Montalban fie distrutto.

22 La lettera suggella, e manda il messo,
     Che non debba posar notte nè giorno;
     E se farà il suo debito, ha promesso
     Cento talenti Gan nel suo ritorno.
     Il messaggier vuol far quel ch’è interesso.
     Subito tolse la taschetta e ’l corno,
     E dopo lungo e spiacevol cammino
     Si rappresenta al gran re saracino.

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23 Erminione a questo pose orecchio,
     E tutte le ragion gli son capace,
     Benchè cognosca Gan traditor vecchio;
     Dama Clemenzia questo assai gli piace.
     E finalmente feciono apparecchio
     Di gente franca saracina, audace:
     Ben centomila sotto un gonfalone7
     In poco tempo accozza Erminione.

24 E poi che tutti furono assembrati,
     Con trentamila giunse un ammirante,8
     E d’archi soriani erano armati,
     E per nome si chiama Lionfante;
     Avea per arme due lion dorati
     Nel campo azurro, e ciascun par rampante:
     Era venuto sanza aver richiesta,
     E molto Erminion ne fece festa.


25 Ed arrecossi in buono augurio e segno
     La sua venuta, e quella gente franca:
     L’arme di Erminion famoso e degno
     Nel campo rosso era un’aquila bianca,
     Salvo ch’aveva un altro contrassegno,
     Una rosetta sopra l’alia manca;
     E Fieramonte suo fratello adorno
     Appella Erminione, e Salincorno.

26 E disse a Salincorno: Tu verrai
     In Francia bella; e tu, mio Fieramonte,
     La mia corona in testa serberai,
     Tanto mi fido alle virtù tue pronte,
     Nè mai del regno ti dipartirai,
     Fin che passare in qua mi vedrai ’l monte;
     A te confido tutto il mio reame,
     E la giustizia fa ch’osservi ed ame.

27 Dama Clemenzia d’allegrezza ha pieno
     Il core, e fece al messaggier di Gano
     Nel suo partir donare un palafreno;
     Cento bisanti poi gli pose in mano,
     E d’un bel drappo splendido e sereno
     Gli dette un ricco e gentil caffettano;9
     E disse: Questo per mio amor ne porta;
     Saluta Gan mille volte e conforta.

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28 Erminion gli fe donare ancora
     Molte cose leggiadre alla moresca:
     Il messaggier partì sanza dimora
     Colla risposta, e non par che gl’incresca:
     La qual risposta Ganellon rincora,
     Come il nocciolo arà tosto la pesca10,
     E come cento trentamila avea
     Di cavalieri, e come e’ si movea.

29 In pochi dì ritornò il messaggieri,
     Ed al suo Ganellon si rappresenta.
     Gan la risposta lesse volentieri,
     Quando sentì di centomila e trenta.
     Disse il messaggio: O signor da Pontieri,
     Di quel che m’hai promesso or mi contenta;
     Erminion non vuol di lui mi lagni,
     E mostrò i don c’ha ricevuti magni.

30 Gan gli donò quel che promesso avea,
     E tutto pien d’allegrezza era quello;
     A Montalbano, a Guicciardo scrivea,
     Che ne veniva Orlando e ’l suo fratello,
     E presto sarà in Francia: e ciò facea
     Per certa astuzia il maladetto e fello,
     Perchè tenessin la terra e le mura
     Più sprovvedute, e stien sanza paura.

31 Intanto Erminion si mette in punto,
     Apparecchiò navili in quantitate;
     E com’ e’ vide il vento per lui giunto,
     Subito furon le vele gonfiate;
     E giorno e notte non si posa punto:
     Le navi a salvamento son giostrate,11
     E in pochi dì questa brigata magna
     Si ritrovava ne’ porti di Spagna.

32 Fu la novella subito a Marsilio,
     Come in Ispagna è venuta gran gente;
     Maravigliossi di questo navilio,
     E cominciava a temer fortemente:
     Ebbe consiglio, e tutto il suo concilio,
     E manda imbasceria subitamente,
     Che lo debba avvisare Erminione,
     Della venuta sua che sia cagione.

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33 Erminion rispose come saggio,
     Che inverso Francia con sua gente andava,
     Per vendicarsi d’un antico oltraggio;
     E come il passo sol gli domandava,
     Ch’a’ suoi paesi non faria dannaggio.12
     Marsilio della impresa il confortava:
     E presto fu avvisato Carlo Mano,
     Com’e’ passava gran popol Pagano.

34 Carlo sentendo sì fatta novella,
     Non ebbe alla sua vita un tal dolore;
     Turpino, e Namo, e Salamone appella,
     E raccontava del fatto il tenore;
     Dicendo: Orlando non sarà qui in sella,
     Non c’è Rinaldo, ond’e’ mi triema il core,
     Nè Ulivieri il nostro paladino;
     Che farem noi, o Namo, o mio Turpino?13

35 Or si conosce il mio nipote caro,
     Or si conosce Rinaldo e ’l marchese.
     Turpino e gli altri insieme s’accordaro,
     Che si dovessi stare alle difese;
     In questo modo Carlo confortaro;
     Namo per tutti le parole prese,
     Dicendo: LeFonte/commento: Pagina:Pulci - Morgante maggiore II.pdf/458 città difenderemo,
     E intanto aiuto al papa chiederemo.

36 Per tutta Francia fecion provedere
     Le città, le fortezze, e le castelle,
     Ed ordinorno mandar messaggiere
     Al papa, a dir le cattive novelle:
     Intanto Erminion14 con sue bandiere
     Presso a Parigi son sopra le selle,
     E fan tremare il monte e la pianura,
     E tutto il regno sta con gran paura.

37 E pel paese trascorrendo vanno,
     Rubando, ardendo, e pigliando prigioni,
     E mettono ogni cosa a saccomanno:15
     Dove e’ s’abbatton questi mascalzoni,
     In ogni parte facevon gran danno:
     Erminion fra tutti i suo’ baroni
     Elesse Lionfante, che ponessi
     Il campo a Montalbano, e intorno stessi.

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38 E lui si stette con sue gente al piano
     Appresso a poche leghe di Parigi,
     E manda imbasciadore16 a Carlo Mano,
     A dir che gli movea questi litigi,
     Per vendicar Mambrin degno pagano,
     E Montalban disfare e San Dionigi;
     E Mattafolle fu suo imbasciadore,
     Un re pagan che non gli triema il core.

39 Giugnendo a Carlo Man quel Mattafolle,
     Fe come matto e folle veramente,
     Chè quando e’ gli ebbe detto quel che volle,
     A minacciar cominciollo aspramente.
     Carlo pur rispondea timido e molle:
     Astolfo a questo non fu paziente;
     Trasse la spada fuor con gran tempesta,
     Per dare a Mattafolle in su la testa.

40 Ma non potè, perchè lo prese Namo,
     E disse: L’onestà questo non vuole,
     Ch’ a ’mbasciador oltraggio noi facciamo.
     Lascialo far, chè fa come far suole,
     Si che al suo re non ne faccia richiamo.
     Mattafolle tagliava le parole,
     E disse: Astolfo, in sul campo ti voglio,
     E forse abbasserò questo tuo orgoglio.

41 E dipartissi da Carlo adirato,
     Benchè il Dusnamo si scusassi assai;
     Al grande Erminion si fu tornato,
     E disse: La ’mbasciata tua contai,
     E molto fui da Astolfo ingiuriato;
     Ond’io ti priego, s’a te piacqui mai,
     Che domattina sia contento io m’armi,
     E vo’ con tutti i paladin provarmi.

42 Rispose Erminion: Tu non sai bene
     Ancor chi sieno i paladin di Francia,
     E per questa cagion sì spesso avviene,
     Che molti n’hanno forata la pancia;
     Sappi che Carlo Man questi non tiene,
     Se non fussin ognun provata lancia:
     Tu ti potrai provar, se n’hai pur voglia,
     Ma guarda ben che mal non te n’incoglia.

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43 E se non v’è Rinaldo ed Ulivieri,
     E se non v’è Orlando tanto forte,
     E’ v’è quel valoroso e franco Uggieri,
     Ch’a tanti Saracin già dato ha morte,
     E quel famoso e degno Berlinghieri,
     Ottone, e tanti altri baroni in corte:
     Per mio consiglio al campo ti starai,
     Pur, se ti piace, a tuo modo farai.

44 Astolfo in quella notte cavalcoe
     Inverso Montalban tutto soletto,
     Perchè e’ non v’è Rinaldo dubitoe
     D’Alardo, di Guicciardo e Ricciardetto:
     Ma giunto ov’era il campo riscontroe
     Certi Pagani, e fu preso in effetto;
     E fu menato preso all’ammirante,
     Ch’era chiamato il fiero Lionfante.

45 Lionfante comincia a dimandare
     Di Carlo, di sua gente e sua possanza,
     E la cagion che vengon per guastare
     Montalban, come tosto avea speranza;
     Dice che voglion Mambrin vendicare,
     Perchè Rinaldo fe troppa fallanza,
     A tradimento uccider quel signore,
     E mancò troppo, al suo parer, d’onore.

46 E che per questo faria tanta guerra,
     Per vendicar questo peccato antico.
     A lui rispose il signor d’Inghilterra:
     Ascolta, Lionfante, quel ch’io dico:
     Pel mio Gesù, che chi dice ciò erra,
     Perch’ e’ l’uccise come suo nimico,
     A corpo a corpo, e sanza tradimento,
     E non vi fu difetto o mancamento.

47 E raccontò la cosa in tal maniera,
     Che Lionfante restò paziente,
     E disse: Poi ch’io so la storia vera,
     Per mia fe’ ora ch’io ne son dolente
     Aver condotta qua la mia bandiera:
     Esser vorre’ in Soria con questa gente;
     Chè poi ch’a tradimento e’ non fu morto,
     Erminion per Macometto ha il torto.

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48 Io conobbi Rinaldo già in Ispagna,
     E per mia fe’ mi parve un uom gentile,
     Da non dovere aver questa magagna,17
     Di far con tradimento opera vile;
     Anzi pareva una persona magna,
     E franco, e forte, e giusto, e signorile,
     E ’ncrescemi di lui che non ci sia,
     Ma per me tanto oltraggiato non fia.

49 E s’io potessi Montalban pigliarlo,
     Io nol farò pel giusto Iddio Apollino;
     E in qualche modo si vorria avvisarlo,
     Che ritornassi in qua col suo cugino:
     Ma dimmi, prigionier col qual io parlo,
     Se tu se’ cavaliere o paladino.
     Astolfo il nome suo gli disse allora,
     Il perchè Lionfante assai l’onora;

50 E fece accompagnarlo alla cittade:
     Era quel Lionfante un uom discreto;
     Mandò con lui molte sue gente armate
     Fino alle mura, e poi tornano in drieto.
     Astolfo truova le porte serrate,
     Furono aperte, e molto ognun fu lieto;
     E Ricciardetto, quando ha questo inteso,
     Parve dal cor gli levasse ogni peso.

51 E domandò se sapeva niente
     Del suo fratello, e disse come Gano
     Gli aveva scritto molto chiaramente,
     Rinaldo saria tosto a Montalbano.
     Astolfo indovinoe subitamente
     La sua malizia, e scrisse a Carlo Mano,
     Che certo il traditor di Gano è quello
     Ch’avea condotto là quel popol fello.

52 Gano in quel dì parea maninconoso
     Più ch’alcun altro di sì fatto assedio,
     E spesso il viso facea lacrimoso,
     Dicendo: Carlo, io non veggo rimedio
     A Montalbano, ond’io ne sto doglioso;
     Credo che poco vi staranno a tedio:
     E poi la notte nel campo avvisava
     Erminion ciò che Carlo ordinava.

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53 Carlo un dì per ventura vide indosso
     A quel corrier, ch’egli aveva mandato
     Al re Pagano, un certo vestir rosso
     Di cammuccà18, che gli aveva donato;
     E fra se stesso diceva: Io non posso
     Pensar donde costui l’abbi arrecato;
     E domandonne alcuna volta Gano,
     Ond’egli avessi quel vestire strano.

54 Gan gli avea detto: A questi dì il mandai
     Nel tal paese per saper d’Orlando
     Novelle, e perchè poco ne spiai,
     Non te lo dissi; e ’l messaggier tornando,
     Per quel ch’io intesi, che nel domandai,
     Un dì in un bosco un Pagano scontrando,
     Credo che disse, lo fece morire,
     E trassegli di dosso quel vestire.

55 Vera cosa è ch’io scrissi a questi giorni
     A Ricciardetto per dargli conforto:
     Rinaldo e gli altri paladini adorni
     Sappi che in Francia saranno di corto:
     Questo è perchè non credon mai che torni,
     Ed hanno dubitato che sia morto.
     Carlo ogni cosa nella mente avea,
     E ’l messaggier d’Astolfo allor giugnea.

56 E non credette a quel ch’Astolfo scrisse,
     Perchè il parlar di Gan si riscontrava;
     E risposegli indrieto, e così disse,
     Quand’egli scrisse questo, se sognava,
     A dir ch’Erminion per Gan venisse.
     Così Fortuna Carlo traportava,
     O forse ch’era permesso dal cielo,
     Ciò che Gan dice gli paia il Vangelo.

57 Or ritorniamo a Mattafolle un poco:
     Egli era contro Astolfo inanimato
     Per quel che fe, che non gli parve gioco:
     La mattina seguente si fu armato,
     Però che l’ira riscaldava il foco;
     Così soletto si fu inviato,
     E venne presso al muro di Parigi,
     Dove è la chiesa detta San Dionigi.

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58 Ed un suo corno cominciò a sonare,
     Chiamando Astolfo che debba venire,
     Se vuol con esso in sul campo giostrare.
     Carlo comincia col Dusnamo19 a dire,
     E Salamon, quel che par lor di fare,
     Se Mattafolle si debba ubbidire;
     E finalmente per partito prese
     Ch’a lui si mandi il possente Danese.

59 Il Danese s’armò con gran furore;
     Il suo caval d’acciaio era guernito:
     Chiese licenzia, e dallo imperadore
     Subitamente e dagli altri è partito:
     Vide dov’è Mattafolle il signore,
     Che rifaceva col corno lo ’nvito;
     Maravigliossi che ’l vide soletto,
     E non pareva ch’avessi sospetto.

60 Giugnendo a Mattafolle il franco Uggieri,
     Lo salutò con un gentil saluto,
     Poi gli diceva: O nobil cavalieri,
     Per combatter con noi se’ qua venuto;
     Io sono stato per tutti i sentieri
     De’ Saracini, e mai non fu’ abbattuto;
     Che pensi tu con ispada o con lancia
     Esser venuto acquistar fama in Francia?

61 Io son de’ paladini il più codardo,
     E non ti stimo, Pagano, un bisante;
     Se tu se’ pur, come credi, gagliardo20,
     Prendi del campo, barone Affricante.
     Rispose il Saracin: Per certo io guardo,
     Se tu se’ quel cavaliere arrogante,
     Che mi volesti far villania in corte,
     Per darti in ogni modo oggi la morte.

62 Disse il Danese: Troppa pazienza
     Ebbe con teco il nostro imperadore,
     Che ti dovea punir di tua fallenza,
     Se stato tu non fussi imbasciadore:
     Colui che fare ti volea violenza,
     Astolfo è, d’Inghilterra alto signore;
     Io son chiamato per nome Danese:
     Il Saracino allor del campo prese.

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63 Poi che fu dilungato il Saracino
     Più d’un’arcata21, volse il suo cavallo;
     Dall’altra parte il franco paladino
     Tosto tornava in drieto a contrastallo:
     Furno scontrati a mezzo del cammino,
     E nessun pose la sua lancia in fallo;
     Ma del Danese la lancia spezzossi
     Sopra lo scudo, e quel Pagan piegossi.

64 Il Saracin ferì con maggior forza
     Sopra lo scudo il possente barone,
     Passollo tutto, e trovava la scorza
     Della corazza22, e passata, e ’l giubbone;
     Uggier piegossi ora a poggia, ora a orza,23
     E finalmente cadde dell’arcione.24
     Re Mattafolle, quando in terra il vide,
     Maravigliossi, e di ciò forte ride.

65 E disse: Or non vo’ più che tu ti vanti,
     Che mai più non cadesti del destriere;
     E di’ che ci hai provati tutti quanti;
     Provato non m’avevi, cavaliere:
     Vedi che Cristo e tutti i vostri santi
     Non t’han potuto aiutar di cadere;
     Renditi a me, come tu dèi, prigione.
     Disse il Danese: Questo è ben ragione.

66 La spada per la punta il paladino
     Dette al Pagan che l’aveva abbattuto;
     Menollo in San Dionigi il Saracino,
     E disse: Qui t’aspetta, ch’è dovuto.
     Poi cominciava: O figliuol di Pipino,
     Sappi ch’Uggier della sella è caduto,
     E per prigion l’ho messo in San Dionigi;
     Mandami un altro baron di Parigi.

67 Quando udì Carlo risonare il corno,
     Non fu mai più dolente alla sua vita;
     E riguardava per la sala intorno,
     Dov'era la sua gente sbigottita:
     Dusnamo e tutti gli altri consigliorno,
     Che poi che ’l Saracin così gl’invita,
     Un altro cavalier mandar bisogna,
     Se non che gli saria troppa vergogna.

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68 Ed accordàrsi che v’andasse Namo:
     Namo v’andò, siccome gli fu imposto.
     Giugnendo a Mattafolle così gramo,25
     Lo salutò, e dissegli discosto:
     Prendi del campo, alla giostra vegnamo,
     Chè dir parole assai non son disposto.
     Il Saracin, che la sua voglia intende,
     Subitamente allor del campo prende.

69 Namo si volse tutto furioso,
     E si credette inghiottir Mattafolle;
     Giunse allo scudo un colpo poderoso,
     L’aste si ruppe, chè passar nol volle.
     Il Saracin, ch'è forte e animoso,
     Nulla non par che dell’arcion si crolle;
     E prese il savio duca a mezzo il petto,
     E della sella lo cavò di netto.

70 Namo si vide superato e vinto,
     E così disse: Io ti comincio a credere,
     Poichè tu m’hai fuor dell’arcion sospinto,
     Ch’ogni altro Saracin tu debba eccedere;
     Il brando presto dal lato ebbe scinto,
     E disse: A te prigion mi vo’ concedere.
     Disse il Pagano: Or se non t’è fatica,
     Il nome tuo, baron, vo’ che mi dica.

71 Namo rispose: Questo poco importa,
     Sappi ch’io sono il duca di Baviera.
     Disse il Pagan: Per Macon ti conforta,
     Ch’onorato sarai fra la mia schiera.
     Di San Dionigi il condusse alla porta,
     Dove il Danese nostro prigione era;
     E ritornossi al campo, e ’l corno suona,
     Carlo sprezzando e sua santa corona.

72 Era Carlo a vederlo cosa oscura,
     E tutti i suoi baron similemente,
     Ognuno avea già in Parigi paura.
     Berlinghier nostro, quando il corno sente,
     Tosto apportar si facea l’armadura,
     E montò sopra il suo destrier possente:
     Nella sedia fatal rimase Carlo,
     E’ suoi baron dintorno a confortarlo.

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73 La lancia di ciresse aveva in mano,
     La spada allato, e cintosi un trafiere;26
     Brocca il cavallo,27 e giugneva al Pagano
     A lanci e salti, che pare un levriere,
     E disse: Se’ tu quel baron villano
     Che così sprezzi il famoso imperiere? 28
     Se tu sapessi chi sotto è in quest’armi,
     Tosto perdon verresti a domandarmi.

74 Se tu scampi da me, tu sarai ’l primo,
     Tanti n’ho morti già con questa spada:
     Non domandar s’ogni peluzzo cimo29
     Con essa in aria, in modo par che rada.
     Disse il Pagan: Per Macon poco stimo
     Chi troppo sta la notte alla rugiada:
     Manda pel prete, e fa trovare i moccoli,
     Chè tu mi pari una bertuccia in zoccoli.

75 Berlinghier si crucciò come un diavolo,
     E disse al Saracin: Matto, uom bestiale,
     Che se’ tu uso a mangiar crusca e cavolo
     Co’ pazzi sopra il carro trionfale;
     Non potre’ farlo Macone o ’l suo avolo,
     O Apollin, ch’io non ti facci male.
     Disse il Pagan, poi che molto ebbe riso:
     Deh dimmi un poco, hai tu sotto altro viso?

76 Rispose Berlinghier: Non più parole,
     E ti parrà ch’io sia com'un gigante:
     Il molto rider segno esser non suole
     Però di cavalier saggio o prestante:
     Non so quel che tu di’ rugiada o sole,
     E zoccoli non ho sotto le piante;
     Ma nella punta del mio brando forte
     So ch’io vi porto, baron, la tua morte.

77 Sarestu mai Rinaldo, o quel marchese
     C’ha tanta fama al mondo, o ’l conte Orlando,
     Disse il Pagano, o puoi più che ’l Danese,
     Che nella punta la morte hai del brando?
     Deh fammi il nome tuo, se vuoi, palese.
     Berlinghier gli rispose minacciando:
     Non son Rinaldo, Orlando o Ulivieri,
     Ma il franco e forte e gentil Berlinghieri.

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78 Il Saracin, sentendo nominarlo,
     Rispose: Sia nel nome di Macone;
     Dunque tu se’ de’ paladin di Carlo:
     So che non tien sì fatto compagnone
     In corte, se non usa di provarlo:
     Io t’ho squadrato dal capo al tallone,
     Per veder quanto discosto gittarti;
     Voglio in sul campo o in su l’erba posarti.

79 Prendi del campo, ch’io scoppio di ridere,
     Pensando, cavalier, quel che tu hai detto,
     Che tu mi creda così al primo uccidere;
     Non potre’ farlo tu, nè Macometto:
     Se tu non soldi gente da dividere,30
     O ver se tu non voli, io ti prometto,
     In San Dionigi, cavalier di Francia,
     Portarti in sulla punta della lancia.

80 Rispose Berlinghier: Degli altri matti
     Ho gastigati a’ miei dì mille volte,
     E te gastigherò; vegnamo a’ fatti,
     Chè le parole tue paiono stolte.
     Disse il Pagano: Io vo’ far questi patti,
     Che tu mi lascia sol due dita sciolte,
     E mettami ’n un sacco il resto tutto,
     E mostrerrotti ch’io ti stimo un putto.31

81 Prendi del campo, disse Berlinghieri,
     Forse che tu ti troverai ’n un sacco;
     E subito rivolse il suo destrieri,
     Dicendo: Mattafolle, tu m’hai stracco;
     Tu se’ come tu hai nome, e volentieri,
     Non gittiam qui le perle in bocca al ciacco.32
     Il Saracin del campo prese e tolse,
     Poi colla lancia a Berlinghier si volse.

82 Berlinghier ne venia com’un colombo,
     E ’l Saracin ne vien com’un falcone;
     Da ogni parte si sentiva il rombo33
     De’ lor destrier, ch’ognun par un rondone:
     Poi lasciaron cader le lance a piombo,
     Ognuno in resta la sua tosto pone;
     Ma quella del Cristian, ch'è di ciresse,
     Tosto si ruppe, e pel colpo non resse.

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83 Il Saracin ferì sopra lo scudo
     Berlinghier nostro, e come fussi cera
     Subito il passa, e ’l ferro acuto e ignudo
     Passò la corazzina34 e la panziera.35
     Fino alla carne andò quel colpo crudo,
     E perchè soda e verde la lancia era,
     Per la percossa che fu molto acerba,
     Berlinghier franco si trovò in sull’erba.

84 E ’n su la punta più di dieci braccia
     Lo portò in aria, e poi lasciollo andare,
     E disse: Sempre avvien che chi minaccia
     Ne suol la pace a casa poi portare.
     Berlinghier mano alla sua spada caccia,
     E volle la battaglia rappiccare;
     Subito del terren ritto si getta,
     Per far di Mattafolle aspra vendetta.

85 Ah, disse il Saracin, tu falli troppo;
     Usanza è sempre de’ gentil baroni,
     Che que’ che son caduti al primo intoppo36
     Porghino il brando, e diensi per prigioni;
     Or ch’io t’ho vinto, fracassato e zoppo,
     A quel che vuol la giustizia t’opponi,
     Ed hai cavato fuor lo spadaccino:
     Questa usanza non è di paladino.

86 Io t’avevo sentito ricordare
     Fra tutti gli altri un cavalier virile,
     Che non sapessi in nessun modo errare,
     Onesto, saggio, pulito e gentile:
     Or fatto m’hai di te maravigliare;
     Questo mi pare un atto stato vile.
     Rispose a Mattafolle Berlinghiere:
     Io ti darò col brando e col trafiere.

87 Mattafolle non ebbe pazienza,
     E disse: Poi che tu se’in tanto errore,
     Io ti gastigherò di tua fallenza;
     E punse sopra a' fianchi il corridore:
     Dettegli un colpo di tanta potenza
     Sopra l’elmetto, dice l’autore,
     Che Berlinghieri in terra inginocchiossi,
     E non sapeva in qual mondo si fossi.

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88 Renditi tu prigion, diceva allora
     Il Saracino: Ohi, tosto rispose
     Il paladin; sanza far più dimora,
     Il brando per la punta in man gli pose.
     Ed ecci un autor che dice ancora,
     E così trovo nell’antiche chiose,
     Che ginocchion lo fe star quel che volle
     Colle ginocchia ignude Mattafolle.

89 E disse: Questo sia pel tuo peccato,
     Che tu volevi far le fusa torte:37
     E poi ch’egli ebbe il suo brando pigliato,
     Non per la punta, chè v’era la morte,
     Anzi dal pome, com’e’ gli fu dato,
     Lo mise drento a quelle sante porte
     Di San Dionigi: e Namo, che vedea
     Il suo figliuol prigion, seco piangea.

90 Era d’ogni eccellenzia e di costume
     Berlinghier sopra tutti un uom dabbene,
     Di gentilezza una fonte, anzi un fiume,
     A luogo e tempo, come si conviene,
     Tanto che scritto n’è in più d’un volume:
     Or se lo stil della ragion non tiene,
     È che conobbe ch’ogni gentilezza
     Perduta è sempre a chi quella non prezza.

91 E reputava Mattafolle un matto,
     Come il nome sonava veramente,
     Da non servargli nè ragion nè patto;
     Così lo scusa ognun ch’è sapiente.
     Poi, se gli fussi riuscito il tratto,
     Era salvato Carlo e la sua gente;
     E lecito ogni cosa è per la fede:
     Adunque chi lo ’ncolpa, il ver non vede.

92 Carlo sentì ritoccare il cornetto,
     E disse: Questo mi par tristo segno;
     Caduto è Berlinghier tanto perfetto,
     Non so chi abbi a’ suoi colpi ritegno:
     Venuto è questo Pagan maladetto,
     Per distrugger mia gente e tutto il regno.
     Avin s’armò, sentendo che ’l fratello
     Era abbattuto, per vendicar quello.

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93 Avin si ritrovò sopra la terra:
     Venne in sul campo il valoroso Ottone,
     Il famoso signor là d’Inghilterra,
     E finalmente si trovò prigione;
     Tutti gli abbatte il Saracin da guerra:
     Venne Turpino, Gualtier da Mulione,
     Salamon di Brettagna e ’l buono Avolio;
     Tutti prigion n’andâr cheti com'olio.

94 Di Normandia il possente Riccardo
     Venne in sul campo, e con gran sua vergogna
     Al primo colpo rimase codardo.
     Tosto s’armava Angiolin di Guascogna:
     Volle provar come fussi gagliardo,
     E ritrovossi come gli altri in gogna.
     Carlo rimase sconsolato tutto,
     Veggendo il popol suo così distrutto.

95 Restava appunto il traditor di Gano;
     Carlo non volle ch’egli uscissi fore:
     Tornossi Mattafolle a Montalbano,
     Presso alla terra ov'era il suo signore,
     E presentò i prigioni al re pagano:
     Erminion fe lor massimo onore,
     E nel suo padiglion gli ha ricevuti.
     Cristo del ciel vi conservi ed aiuti.

Note

  1. [p. 176 modifica]trionfante. Per trionfanti.
  2. [p. 176 modifica]diserto. Abbandonato, dal latino desero.
  3. [p. 176 modifica]Ulivier disse della Trinitate ec. Nella Regina Ancroja havvi un luogo analogo a questo, e nel quale Orlando fa ogni sforzo per convertire al Cristianesimo la Regina Ancroja, e con varie comparazioni cerca spiegarle il mistero della Trinità; ma più sfortunato del nostro Ulivieri, non riesce a persuaderla; finalmente dopo lunga contesa, dà fine, uccidendola, a tal questione. Nella Cronaca attribuita a Turpino è similmente introdotto Orlando, che, sul punto d’uccidere Ferraù, vuole indurlo a rendersi cristiano, e adopera pure alcune comparazioni a fargli capir nell’animo il mistero dello Trinità.
  4. [p. 176 modifica]Perchè Rinaldo. Per far vendetta di questo Mambrino re di Bitinia e di una parte di Samotracia, ucciso da Rinaldo, fu che Mambriano suo nipote mosse le armi contro Francia, dopo aver fatto sacramento alla propria madre, sorella di Mambrino, di non tornare nel regno se prima non avesse ucciso Rinaldo e distrutto
  5. [p. 176 modifica] [p. 177 modifica]Montalbano. Questo fatto forma il soggetto del Mambriano del Cieco da Ferrara.
  6. [p. 177 modifica]assembramento. Moltitudine di soldati, esercito.
  7. [p. 177 modifica]gonfalone. Bandiera, insegna; come ognun sa. Viene dal tedesco fane, vessillo.
  8. [p. 177 modifica]Ammirante. Ammiraglio, præfectus classis, θαλάτταρχος. «Chiamasi Ammiraglio (dice il Buti sopra Dante) lo capitano delle galee in mare, e dicesi Ammiraglio perchè dee ragguardare e provvedere sopra tutto lo stuolo.» Fa poi venir cotal voce da mirare, sebbene il Menagio ami trarne la origine piuttosto dalla voce araba emir ovvero amir, che vale signore.
  9. [p. 177 modifica]caffettano. Sorta di veste turchesca.
  10. [p. 177 modifica]Come il nocciolo arà tosto la pesca. Cioè come la cosa riuscirà a perfezione. Dice Giovan Maria Cecchi nella dichiarazione dei Proverbj: «Quando si vuol dire che una cosa è fatta, o che ella riuscirà a perfezione, si dice: la pesca avrà il nocciolo
  11. [p. 177 modifica]son giostrate. Son condotte su per lo mare. Ed è qui posto a modo di scherzo; avendo il verbo giostrare anche il significato di far gite lunghe e frequenti, susque deque ire, e quello pure di andar girando o passeggiando senza saper dove, e senza un fine determinato.
  12. [p. 177 modifica]dannaggio. È voce antiquata; ma moltissimo usata dai primi scrittori in prosa e in rima. Viene dalla voce provenzale dampnage, per il che alcuni anche nell'italiano scrissero dampnaggio, come si rileva dal seguente verso d'una Canzone di Guitton d’Arezzo:

    Non credo già, se non vol meo dampnaggio;

    e da quell’altro dello stesso:

    Che piace lei per mia morte dampnaggio.

    Anche nell’antiche Glosse Latine trovasi scritto dampnum per damnum; ma e il latino damnum, e il provenzale dampnage, e l’italiano dannaggio o danno, derivano tutti egualmente, a parer del Menagio, dal greco δαπάνη; sebbene a me sembra assai lontano dal significato della voce danno quello del verbo δαπανάω, che significa consumare, esaurire, e spendere, dissipare, menar gran vita.

  13. [p. 177 modifica]Turpino. È questo il famoso arcivescovo di Rheims, e insieme guerriero e paladino. Ad esso viene attribuita quella Cronaca di Carlo Magno, dalla quale tolsero, o finsero di togliere le lor favolose avventure, quasi tutti coloro che nei Romanzi e nei Poemi scrissero le gesta di quell’imperatore e de’ suoi paladini.
  14. [p. 177 modifica]Intanto Erminion ec. Qui bandiere sta per i soldati accolti sotto le sue bandiere, e perciò è adoperato il verbo nel numero del più.
  15. [p. 177 modifica]saccomanno. Mettere a sacco, o a saccomanno, vale saccheggiare. Viene lo voce saccomanno dall’italiano sacco, e dal tedesco man (uomo), quasi uomo di sacco, o che fa sacco; chè far sacco vale quasi lo stesso che mettere a sacco.
  16. [p. 177 modifica]imbasciadore. Ambasciatore. Il Menagio fa derivare questa voce da ambascia, che significa cura, sollecitudine, ansietà e simili, «convenendosi, dice egli, a uno ambasciatore di star continuo ansioso, affannato, pieno di cure e sollecito.» Tale etimologia è però alquanto stiracchiata, ed è da starsene piuttosto al Salmasio che la fa venire dal latino ambactus, formato dalla preposizione am che vale lo stesso che circum, e dal verbo ago (duco; e che significava servo mercenario (δοῦλος μισθωτός). Da ciò si formò il latino barbaro ambascia per servizio o simili, secondo rilevasi dalle Leggi Burgund. Quicumque asinum alienum extra domini voluntatem præsumpserit, aut per unum diem, aut duos, in ambascia sua ec. Il Giambullari, che vuol tutto derivato dall’arameo e dall’etrusco, fa venire ambasciata e ambasciatore da bascer, che in lingua aramea significa annunziare.
  17. [p. 177 modifica]magagna. Vizio, difetto. Da mancare, dice il Menagio. Il Canino e il Monosino fanno invece derivar questa voce dal dorico μαχανά; e il Guieto da Magus, così: Magus, [p. 178 modifica]maganeus, maganea, magania, magagna.
  18. [p. 178 modifica]cammuccà. Sorta di panno da far abiti che usavasi anticamente.
  19. [p. 178 modifica]Dusnamo. Duca Namo.
  20. [p. 178 modifica]gagliardo. Dal verbo inusitato γάω, che vale lo stesso che gaudio, dice il Menagio. Il Pontano nel suo Glossario Prisco-Gallico fa però venir questa voce da Gallus, e dice: A Gallica audacia galliardus appellatur is qui fortiter adit pericula.
  21. [p. 178 modifica]un'arcata. Lo spazio che percorre la freccia scagliata dall’arco.
  22. [p. 178 modifica]la scorza Della corazza. Il metallo di che la corazza era formata, e che facea quasi come una scorza al corpo della persona che l’aveva in dosso. Scorza, che propriamente è la buccia degli alberi e delle frutte, viene da cortex; e di fatto è come una corteccia che involge il corpo sottostante.
  23. [p. 178 modifica]ora a poggia, ora a orza. Poggia è una fune che tiene l’uno capo dell’antenna, che tiene la vela pendente ec. Orza è una fune che tiene legato l’altro capo dell’antenna. (Buti, Commento al Purgat., Canto XXXII.) Talchè piegare ora a poggia, ora a orza, vale ora da un lato, or dall’altro.
  24. [p. 178 modifica]arcione. La sella, e propriamente la parte arcata di essa. Il Salmasio sopra l’istoria Augusta dice: Arciones vocamus ab arcu, quod in modum arcus sint incurvi. I Greci chiamavan l'arcione κούρβια da κοῦρβον (cosa piegata e torta). Da questa voce χοῦρβον, il nostro curvo.
  25. [p. 178 modifica]gramo. Tristo, melanconico, e viene dalla latina voce Gramia, e questa dalla greca γλάμη, la quale significa quelle lacrime che si condensano sugli occhi, e che noi comunemente chiamiamo cispa.
  26. [p. 178 modifica]trafiere. Pugnale acutissimo, del quale i cavalieri andavano armati, per valersene contro l’avversario venendo alle strette con esso. Greco, ψιφίδιον. E dicesi trafiere da traferre, verbo antico, che vale ferire con grandissima forza.
  27. [p. 178 modifica]Brocca il cavallo. Sprona il cavallo.
  28. [p. 178 modifica]imperiere. Imperatore. È voce antica, e trovasi anche nelle rime di Francesco Sacchetti:

    La roccia imbroccia, e 'ncontro a Bacchilone
    Scontra le roie Ciarlon Imperiere.

  29. [p. 178 modifica]s’ogni peluzzo cimo. Dicesi cimare lo scemare il pelo al panno lano, tagliandoglielo colle forbici. Chiamasi anch’oggi in Firenze Via dei Cimatori la strada ove anticamente stavano quei che esercitavano cotal mestiere. Qui è posto figuratamente.
  30. [p. 178 modifica]gente da dividere. Gente che venga a dividerci, a separarci.
  31. [p. 178 modifica]putto. Fanciullo: e viene, secondo il Ruscelli, da puer. Il Menagio però lo fa derivare dal latino putus, che significa piccolo.
  32. [p. 178 modifica]Non gittiam qui le perle in bocca al ciacco. Ciacco è lo stesso che porco, e sembra derivare dal greco σύβαξ, che significa uno che vive da porco, qui porcinis moribus est. Fu dagli antichi Fiorentini adoperato tal nome a dinotare quei che si davano tutti al vizio della gola, come dice a Dante quel tale che incontrò nell’Inferno:

    Voi cittadini mi chiamaste Ciacco,
         Per la dannosa colpa della gola.

    Gettar lo perle a’ ciacchi o a’ porci, vale dar cose di pregio a persone vili e da poco. Anche i Latini dicevano Margaritas porcis projicere.

  33. [p. 178 modifica]rombo. Rombo è propriamente quel suono o strepito che fanno le pecchie, i calabroni, e simili animali.

    Già era in loco ove s'udia ’l rimbombo
         Dell’acqua che cadea nell’altro giro.
         Simile a quel che l’arnie fanno rombo,

    disse Dante nel sedicesimo dell’Inferno. Qui dà il Pulci a questa voce il significato di strepito e di romore. Quanto poi alla sua derivazione, contuttochè il Menagio opini venir dal latino rumus, che valeva lo stesso che rumor; pure mi va più a sangue la opinione del Mazzoni, che fa derivar cotal voce dal latino bombus, che significa appunto il romore che fanno lo api, come cavasi da Plinio, libro XX: Noctu quies apibus in matutinum donec una excitet omnes gemino aut triplici bombo, ut [p. 179 modifica]buccino quodam. E più sotto: Cum advesperascit, in alveo strepunt minus ac minus, donec una circumvolet, eodem, quo excitavit, bombo, ceu quietem capere imperans. Si rileva da Svetonio nella Vita di Nerone, che i Latini si valevano di questa stessa voce a indicare il plauso solito a farsi alle commedie co’ piedi.

  34. [p. 179 modifica]corazzina. Lo stesso che corazza.
  35. [p. 179 modifica]panziera. Armatura di metallo degli antichi cavalieri, la quale cuopriva loro non solo il petto, ma anche tutta la pancia.
  36. [p. 179 modifica]al primo intoppo. Al primo scontro.
  37. [p. 179 modifica]le fusa torte. Far le fusa torte propriamente si dice delle mogli che rompon fede a' lor mariti. Qui è posto figuratamente.